Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.32930 del 09/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17354-2015 proposto da:

F.B., + ALTRI OMESSI); elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA ORESTE TOMMASINI 20, presso lo studio dell’avvocato MICHELE SALAZAR, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

REGIONE CALABRIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 61, (AVVOCATURA REGIONALE), presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MARIA TOSCANO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANCLAUDIO FESTA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 37/2015 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 02/02/2015 R.G.N. 196/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/05/2021 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’.

RITENUTO

CHE:

1. la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città con la quale era stata respinta la domanda di alcuni dipendenti della Regione, i quali avevano agito in giudizio rivendicando il pagamento di importi conseguenti, in base alla L.R. n. 9 del 1975, alla maturazione dell’anzianità di servizio mediante contratti a termine intercorsi prima dell’immissione in ruolo;

la Corte territoriale, premesso che in ambito di lavoro pubblico anche la ricognizione di debito datoriale non poteva essere sufficiente a fondare diritti economici del lavoratore, riteneva che, essendo stati revocati in autotutela i decreti di liquidazione in un primo momento emessi, mancasse comunque prova del quantum dei diritti retributivi rivendicati, per la cui ricostruzione era necessario conoscere il dato, rimasto non definito, riguardante gli inquadramenti iniziali;

in ragione di ciò la Corte di merito riteneva infondata anche la pretesa dei lavoratori di dare corso a c.t.u., perché non poteva svolgersi una ricostruzione contabile in mancanza di quel dato originario;

la Corte reggina riteneva altresì che fosse irrilevante l’assunto secondo cui potesse avere effetto di giudicato la sentenza del Consiglio di Stato con la quale, pronunciando tra le parti, veniva dichiarata la cessazione della materia del contendere sul presupposto che la Regione avesse riconosciuto quanto rivendicato dai lavoratori e ciò in quanto, rilevava la sentenza qui impugnata, se anche ciò fosse stato, sarebbe comunque mancata la prova della misura quantitativa del diritto rivendicato;

i lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione con due motivi, poi illustrati da memoria e resistiti da controricorso della Regione Calabria.

CONSIDERATO

CHE:

1. con il primo motivo i ricorrenti denunciano l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5), con riferimento all’intervenuta ricognizione di debito operata dalla Regione Calabria, mai in realtà revocata, in quanto anche l’annullamento in autotutela degli originari decreti di liquidazione aveva avuto riguardo ad un asserito errore di calcolo e non al disconoscimento dei diritti rivendicati;

il secondo motivo adduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 115,116,421 e 437 c.p.c., nonché degli artt. 1988,2697,2720 c.c., ribadendosi, sotto il profilo della violazione di legge, la ricorrenza di una ricognizione di debito, con ogni effetto probatorio e sostanziale ad essa consequenziale e sostenendosi che la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare l’assenza di contestazione ad opera della P.A. datrice di lavoro e comunque esercitare i poteri istruttori officiosi, anche mediante c.t.u., al fine di stabilire il dovuto;

2. i motivi sono infondati;

3. la Corte territoriale non ha per nulla omesso di considerare i decreti asseritamente ricognitivi cui fanno riferimento i ricorrenti, ma ha ritenuto che gli effetti civilistici in ipotesi da essi derivanti, erano stati vanificati dalla loro revoca in autotutela, che escludeva di potersene avvalere e manteneva in capo ai lavoratori ogni onere probatorio rispetto al quantum delle differenze retributive rivendicate;

e’ pertanto del tutto assente il requisito dell’omesso esame di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, sicché il primo motivo è mal posto;

4. più complesso è il secondo motivo, nella parte in cui esso denuncia la violazione delle norme sulle promesse unilaterali o ricognizioni di debito, in quanto con esso si sollecita l’apprezzamento in ordine alla compatibilità di tale istituto con il provenire dei corrispondenti atti dalla P.A. datrice di lavoro;

in sostanza, i ricorrenti intenderebbero riconnettere portata ricognitiva ai decreti di liquidazione emessi nel 2006, sostenendo che spetterebbe alla P.A. dimostrare l’erroneità di quei decreti e quindi la legittimità della loro revoca in autotutela;

costituisce in effetti principio di fondo, consolidato nella giurisprudenza di questa S.C., quello per cui, in generale, “la disciplina dettata dall’art. 1988 c.c. (secondo cui la promessa di pagamento o la ricognizione di un debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare l’esistenza del rapporto fondamentale, la quale si presume fino a prova contraria) è applicabile anche agli atti della pubblica amministrazione, nel concorso dei requisiti formali e procedimentali che ne condizionano la validità e l’efficacia” (Cass. 29 maggio 2003, n. 8643; Cass. 6 dicembre 2007 n. 25435);

si deve d’altra parte considerare che i requisiti formali e procedimentali di un atto della P.A. si coniugano necessariamente, per il necessario agire della stessa secondo legge, con l’afferire di tali atti unilaterali a situazioni sostanziali determinate, anche perché, in materia di pubblico impiego non può ammettersi il riconoscimento di diritti retributivi se non al verificarsi degli specifici presupposti di legge o, soprattutto, di contrattazione collettiva (da ultimo, v. Cass. 4 maggio 20121, n. 11645; Cass. 18 agosto 2020, n. 17226);

4.1 non può pertanto consentirsi, almeno in ambito di pubblico impiego, che la P.A. operi attraverso promesse unilaterali o ricognizioni di debito astratte, ovverosia non riferibili ad un corrispondente titolo ed ove ciò accadesse non vi è dubbio che si tratterebbe di atti radicalmente nulli, non potendo il soggetto pubblico validamente permettere, attraverso una ricognizione o promessa priva di causa, che, qualora non riesca la prova contraria dell’inesistenza di un titolo, resti consolidato un diritto a favore della controparte privata senza che sia accertato con certezza il titolo (contrattuale, da illecito o da altro fatto idoneo secondo legge) che lo sorregge;

4.2 non vi è invece ragione per ritenere, anche alla luce dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, che non possano esistere promesse unilaterali o ricognizioni di debito titolate, da parte della P.A., allorquando essa operi in rapporti in cui è coinvolta nella capacità di diritto privato, come appunto è rispetto ai diritti retributivi riconnessi ai rapporti di pubblico impiego;

dal divieto per la P.A. di riconoscere diritti retributivi che non siano stabiliti dalla legge o dalla contrattazione collettiva deriva tuttavia che anche l’azione del dipendente fondata su un atto di cui si assuma il valore ricognitivo, non può essere dispiegata se non adducendo non solo l’esistenza di tale atto, ma anche gli esatti fatti costitutivi sostanziali del titolo per cui la pretesa è esercitata, la cui mancanza sarebbe comunque ragione di nullità degli atti che ciononostante avessero riconosciuto situazioni altrui;

ne deriva che, nell’ambito del pubblico impiego, qui in esame, l’effetto favorevole della ricognizione resta limitato all’inversione della prova rispetto alla sussistenza di tali fatti, che vanno però addotti o alle quantificazioni consequenziali ad essi; è del resto noto che la ricognizione di debito non è in sé fonte di diritti, ma solo ragione di inversione degli oneri probatori (per il meccanismo logico-giuridico, da ultimo, ma sulla scia di un orientamento pluridecennale, v. Cass., S.U., 6 marzo 2020, n. 6459);

4.3 in proposito, nel caso di specie è pacifico che il ricalcolo della retribuzione dipendesse dalla corretta ricostruzione dell’inquadramento iniziale dei lavoratori, titolo che i ricorrenti erano dunque onerati di dedurre, specificandone esattamente i contorni, al fine di potersi eventualmente giovare, poi, degli effetti ricognitivi discendenti dai decreti di liquidazione che essi adducono quale prova della propria domanda;

tuttavia, la Corte territoriale ha accertato che nel caso di specie il problema è quello “dell’esistenza o meno di elementi dai quali ricostruire quale fosse l’inquadramento iniziale corretto” e che i ricorrenti dovevano imputare a sé stessi il fatto di “non avere dedotto quale fosse l’inquadramento iniziale cui avevano diritto” e da cui sarebbero scaturiti i diritti rivendicati in causa; i motivi, rispetto a tali centrali passaggi motivazionali, contengono repliche generiche, con cui si sostiene la natura ricognitiva dei decreti del 2006, ma non se ne riporta il contenuto, sicché non è noto se già essi contenessero l’indicazione del necessario dato iniziale, né si riportano specifici passaggi deduttivi dei fatti sulla cui carenza di introduzione in giudizio ha fatto leva la sentenza impugnata; i menzionati rilievi della pronuncia della Corte territoriale restano dunque insuperati e sono in sé decisivi nel non permettere il riconoscimento del verificarsi di una violazione dell’art. 1988 c.c., proprio perché tale norma non può operare, almeno in ambito di diritti retributivi nel pubblico impiego, disgiuntamente dalla esatta precisazione del titolo e dei relativi fatti costitutivi, solo in un momento logicamente successivo potendo operare la regola di inversione probatoria di cui alla norma citata;

tutto ciò è assorbente ed esime dall’affrontare l’ulteriore problema in ordine al se e come la P.A., dopo avere in ipotesi riconosciuto un diritto retributivo in esercizio della propria capacità di diritto privato, possa inficiarne gli esiti con propri atti di autotutela e quale sia, sempre in ipotesi, la valenza in tali casi delle originarie ricognizioni e delle successive loro revoche;

5. considerazioni simili valgono rispetto alle questioni, di cui sempre al secondo motivo, in ordine alla necessità di svolgere istruttoria per l’accertamento in concreto della misura dei diritti retributivi spettanti a ciascuno dei ricorrenti, mediante i mezzi istruttori disponibili ed eventualmente c.t.u.;

e’ infatti evidente l’impossibilità di dare corso ad accertamenti ove manchi, su un profilo in questo caso essenziale e consistente nell’inquadramento iniziale, l’introduzione in giudizio, ad integrazione della causa petendi;

analogamente, la mancanza di quel dato rende ininfluente l’eventuale assenza di contestazione su altri fatti addotti dai ricorrenti;

6. il ricorso va dunque rigettato;

7. è infondata anche l’eccezione di inammissibilità del controricorso per difetto di procura, sollevata nella memoria difensiva finale sul presupposto che la procura posta a margine di quell’atto indicava una diversa sentenza ed una diversa Corte d’Appello (Catanzaro in luogo di Reggio Calabria) ed era inoltre priva di data e formulata in modo tale – sostengono i ricorrenti – da non far capire se essa fosse stata rilasciata per proporre ricorso per cassazione o per resistervi;

vale infatti il principio già affermato da questa S.C. secondo cui “il mandato apposto in calce o a margine del ricorso per cassazione e’, per sua natura, mandato speciale, senza che occorra per la sua validità alcun specifico riferimento al giudizio in corso ed alla sentenza contro la quale l’impugnazione si rivolge, sempre che dal relativo testo sia dato evincere una positiva volontà del conferente di adire il giudice di legittimità, il che si verifica certamente quando la procura al difensore forma materialmente corpo con il ricorso o il controricorso al quale essa inerisce, risultando, in tal caso, irrilevanti gli eventuali errori materiali della procura circa gli estremi della sentenza impugnata e del relativo giudizio di merito” (Cass. 30 novembre 2020, n. 27302; Cass. 9 maggio 2007, n. 10539) da associare al contiguo principio, pianamente estensibile al controricorso, per cui “e’ validamente rilasciata la procura apposta a margine del ricorso per cassazione, ancorché il mandato difensivo sia privo di data e conferito con espressioni generiche, poiché l’incorporazione dei due atti in un medesimo contesto documentale implica necessariamente il puntuale riferimento dell’uno all’altro, come richiesto dall’art. 365 c.p.c. ai fini del soddisfacimento del requisito della specialità” (Cass. 5 dicembre 2014, n. 25725);

i predetti principi coprono le questioni fatte oggetto di eccezione da parte dei ricorrenti e ne impongono la reiezione;

la regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue secondo soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 26 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021

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