Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.33103 del 10/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20634/2016 proposto da:

T.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DONIZETTI GAETANO 20, presso lo studio dell’avvocato ANNA MANDORLO, rappresentato e difeso dagli avvocati ROBERTO CENTOLA, ANGELO CENTOLA, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

A.O.R.N. SANTOBONO PAUSILIPON, in persona del Direttore Generale pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE FEDERICI 2, presso lo studio dell’avvocato MARIA CONCETTA ALESSANDRINI, rappresentato e difeso dall’avvocato VINCENZO GRIMALDI, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 509/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 05/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/06/2021 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;

lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE Alessandro.

RITENUTO IN FATTO

1 La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza n. 509/2016 resa pubblica il 5.2.2016, ha respinto, previa riunione, le impugnazioni proposte da T.E. contro due sentenze a lui sfavorevoli pronunciate dal locale Tribunale (la n. 7099/2008 nel procedimento n. 12551/05 e la n. 11740/2011 nel procedimento n. 14369/05) con cui, in accoglimento delle domande proposte dalla A.O.R.N. Santobono Pausilipon in due separati giudizi promossi il 9.4.2005 e 21.4.2005:

– era stata accertata l’inesistenza del diritto di passaggio carrabile del T. attraverso la rampa ed il viale dell’Ospedale per raggiungere la propria abitazione e l’inesistenza del diritto di utilizzo di tali aree per la sosta di autoveicoli con conseguente interdizione dal passaggio e dall’uso relativo e condanna alla chiusura del varco praticato nel muro divisorio nonché alla eliminazione del cancello aperto dal convenuto (sentenza n. 7099/2008 nel giudizio n. 12551/2005).

– il T., rimasto contumace, era stato condannato all’immediato rilascio di una zonetta di terreno posta alle spalle del muro in prossimità del confine e alla immediata rimozione del cancello metallico installato lungo il muro in prossimità dei fondi (sentenza n. 11740/2011 nel procedimento n. 14369/05).

La Corte partenopea ha motivato il rigetto delle impugnazioni osservando:

– che la mancata reiterazione in sede di conclusioni da parte del convenuto dell’istanza di ammissione di prova per testi nel giudizio di primo grado, già respinta dal giudice istruttore, comportava l’abbandono e di conseguenza l’inammissibilità della sua riproposizione in appello;

– che mancavano opere visibili e permanenti all’esercizio della servitù di passaggio e di parcheggio e pertanto, difettando il requisito dell’apparenza, doveva ritenersi assorbita ogni considerazione svolta dall’appellata circa il difetto degli elementi idonei a rivelare al titolare del fondo servente l’esistenza della servitù e circa l’assenza del requisito della continuità ininterrotta del possesso stante le plurime contestazioni mosse dapprima dal Comune di Napoli e poi dall’Azienda Ospedaliera giusta le missive in atti;

– che l’appellante non aveva censurato il ragionamento del primo giudice sulla titolarità del diritto di proprietà dell’attrice sulla zona in contestazione;

– che nel secondo giudizio nessuna domanda di acquisto per usucapione era stata formulata nel secondo giudizio, stante la contumacia del convenuto;

– che il custode dell’Ospedale, escusso all’udienza del 23.10.2008, aveva dichiarato che le opere (apposizione del cancello e trasformazione di gradini in rampa) erano state realizzate circa quindici anni prima;

– che la servitù di parcheggio non poteva riconoscersi sia per la natura personale della stessa sia per i già riferiti motivi ostativi legati all’apparenza.

2 Contro tale sentenza il T. ha proposto ricorso per cassazione con cinque motivi contrastati con controricorso dalla Azienda Ospedaliera.

Il Procuratore Generale ha fatto pervenire conclusioni scritte insistendo per il rigetto del ricorso.

In prossimità dell’udienza il ricorrente ha depositato una memoria ex art. 378 c.p.c..

CONSIDERATO IN DIRITTO

1 Col primo motivo, denunziandosi violazione e falsa applicazione degli artt. 39 e 273 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, si rileva che la Corte d’Appello, a fronte dell’identità di domande proposte nei due procedimenti, avrebbe dovuto riunirli applicando l’art. 273 c.p.c. e operando una fusione dei processi, piuttosto che applicare l’art. 274 c.p.c..

Il motivo è infondato.

Ed infatti, sia la pluralità di procedimenti relativi alla stessa causa pendenti davanti allo stesso giudice (art. 273 c.p.c., comma 1) che la pluralità di procedimenti relativi a cause connesse pendenti davanti allo stesso giudice (art. 274 c.p.c., comma 1) conducono al medesimo risultato processuale, che è quello della riunione, con l’unica differenza che nel secondo caso, la riunione è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice (“può disporre la riunione”).

Nel caso di specie, la Corte d’Appello (cfr. pagg. 5 e 9 della sentenza) dà atto di avere riunito i procedimenti “con ordinanza 23.10.2013” ai sensi dell’art. 274 c.p.c., ed ha quindi proceduto ad una valutazione contestuale di tutte le doglianze secondo un ordine di priorità logica da essa prescelto. In tal modo, il risultato che l’odierno ricorrente sperava di ottenere (la trattazione simultanea dei processi e quindi l’esclusione del pericolo di pronunce contrastanti) è stato raggiunto, per cui oggi non ha di che dolersi.

2 Col secondo motivo il T. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 39 e 274 c.p.c., nonché art. 279 c.p.c., n. 5 e art. 295 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, dolendosi della mancata sospensione del secondo giudizio (n. 14369/2005) fino alla definizione dell’altro (il n. 12551/05). Ravvisa il ricorrente un rapporto di pregiudizialità incontrovertibile tra le due cause, osservando che il rigetto della domanda di inesistenza di alcun titolo legittimamente formulata nel primo giudizio, unitamente all’accoglimento della riconvenzionale di accertamento della servitù di passaggio per usucapione, avrebbe comportato il rigetto anche della domanda proposta nel giudizio pregiudicato: malamente, quindi, la Corte d’Appello avrebbe disposto la mera riunione formale dei procedimenti, di fatto decidendoli in maniera separata. Chiede pertanto a questa Corte di rimettere gli atti alla Corte d’appello perché disponga la separazione dei giudizi e la sospensione del giudizio n. 14369/2005 pregiudicato fino alla definizione del giudizio n. 12551/05 pregiudicante.

Anche tale motivo è infondato.

A parte la palese contraddittorietà tra questa censura e quella precedentemente esaminata, riguardante, la prima, la mancata riunione dei due giudizi ex art. 273 c.p.c. e la seconda la mancata sospensione del secondo giudizio (quello n. 14369/05 avente ad oggetto l’appropriazione della zonetta di terreno, la creazione abusiva di un cancello e la modifica dello stato dei luoghi) in attesa della definizione del primo (il n. 12551/05 avente ad oggetto l’accertamento di inesistenza di servitù di passaggio sulla rampa e vicoli di proprietà dell’Azione da Ospedaliera), osserva il Collegio che il ricorrente mostra di confondere istituti completamente diversi, cioè la figura della sospensione necessaria del processo ex art. 295 c.p.c., per ragioni di pregiudizialità con quella della connessione dei procedimenti per l’oggetto o il titolo, ma che possono senz’altro essere decisi nello stesso processo secondo un ordine di priorità logica delle questioni.

Del resto questa Corte ha più volte affermato che ove tra due procedimenti, pendenti dinanzi al medesimo ufficio o a sezioni diverse di quest’ultimo, esista un rapporto di identità o di connessione, il giudice del giudizio pregiudicato non può adottare un provvedimento di sospensione ex art. 295 c.p.c., ma deve rimettere gli atti al capo dell’ufficio, secondo le previsioni degli artt. 273 o 274 c.p.c., a meno che il diverso stato in cui si trovano i due procedimenti non ne precluda la riunione (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 12441 del 17/05/2017 Rv. 644294; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 13330 del 26/07/2012 Rv. 623609).

Nel caso di specie, quindi, non merita alcuna censura la scelta della Corte d’Appello di riunire direttamente i procedimenti, senza ovviamente investire il capo dell’Ufficio, non vertendosi nelle ipotesi (previste dall’art. 274 c.p.c., comma 2) di pendenza davanti ad altro giudice o ad altra sezione dello stesso ufficio giudiziario.

3 Col terzo motivo, anch’esso di natura procedurale, si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112,183,184 e 189 c.p.c., nonché art. 24 Cost., rimproverandosi il giudizio di inammissibilità del secondo motivo di appello con cui si reiterava la richiesta di prova testimoniale non ammessa dal primo giudice. Osserva al riguardo il ricorrente che contrariamente a quanto affermato in sentenza – non vi era stata nessuna rinunzia alla richiesta di prova per testi, la cui rilevanza era stata peraltro riconosciuta dalla stessa Corte partenopea. Richiama a sostegno della censura una serie di pronunce di legittimità in tema di omessa precisazione delle conclusioni in udienza.

4 Col quarto motivo il ricorrente denunzia violazione degli artt. 115,116 c.p.c., artt. 1027,1155,1158,1165 e 1167 c.c., per avere la Corte d’Appello individuato un motivo di sospensione del possesso ad usucapionem nella missiva a firma di un, terzo estraneo al processo, tale T.L.. Critica, inoltre, la Corte d’Appello per avere negato l’esistenza dell’apparenza della servitù contestando il relativo giudizio.

5 Col quinto ed ultimo motivo il ricorrente denunzia violazione degli artt. 132,115 e 116 c.p.c., nonché art. 111 Cost., rilevando che la sentenza impugnata è priva di motivazione attesa la manifesta illogicità sulla data delle opere. Deduce ancora una volta l’irrilevanza della missiva a firma del terzo estraneo.

6 Il terzo motivo è fondato.

Secondo l’orientamento di questa Corte, la parte che si sia vista rigettare dal giudice le proprie richieste istruttorie ha l’onere di reiterarle, in modo specifico, quando precisa le conclusioni, senza limitarsi al richiamo generico dei precedenti atti difensivi, poiché, diversamente, le stesse devono ritenersi abbandonate e non potranno essere riproposte in sede di impugnazione. Tale principio deve essere esteso anche all’ipotesi in cui sia stato il giudice di appello a non ammettere le suddette richieste, con la conseguenza che la loro mancata ripresentazione al momento delle conclusioni preclude la deducibilità del vizio scaturente dall’asserita illegittimità del diniego quale motivo di ricorso per cassazione. (tra le varie, Sez. 2 -, Sentenza n. 5741 del 27/02/2019 Rv. 652770; v. anche Sez. 2, Ordinanza n. 15029 del 31/05/2019 Rv. 654190, Sez. 3 -, Ordinanza n. 19352 del 03/08/2017 Rv. 645492; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 3229 del 05/02/2019 Rv. 653001).

Occorre però, per ragioni di coerenza sistematica e nell’ottica di una interpretazione costituzionalmente orientata sull’effettività del diritto di difesa (artt. 24 e 111 Cost.), coordinare tale principio con gli altri principi, pure rinvenibili nella giurisprudenza di legittimità in tema di interpretazione del contegno processuale del difensore in sede di precisazione delle conclusioni e cioè:

– con il principio secondo cui quando la causa viene trattenuta in decisione senza che il giudice istruttore si sia pronunciato espressamente sulle istanze istruttorie avanzate dalle parti, il solo fatto che la parte non abbia, nel precisare le conclusioni, reiterato le dette istanze istruttorie, non consente al decidente di ritenerle abbandonate, ove la volontà in tal senso non risulti in modo inequivoco (cfr. Sez. 1 -, Ordinanza n. 4487 del 19/02/2021 Rv. 660569);

– con il principio secondo cui, affinché una domanda possa ritenersi abbandonata della parte, non è sufficiente che essa non venga riproposta nella precisazione delle conclusioni, costituendo tale omissione una mera presunzione di abbandono, in quanto invece è necessario accertare se, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla stretta connessione della domanda non riproposta con quelle esplicitamente reiterate, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla domanda pretermessa (Sez. 3, Sentenza n. 1603 del 03/02/2012 Rv. 621711 Sez. 1, Sentenza n. 15860 del 10/07/2014 Rv. 632116; Sez. 2 Sentenza n. 17582 del 14/07/2017 Rv. 644854; Sez. 1 -, Ordinanza n. 31571 del 03/12/2019 Rv. 656277);

– con il principio secondo cui nell’ipotesi in cui il procuratore della parte non si presenti all’udienza di precisazione delle conclusioni o, presentandosi, non precisi le conclusioni o le precisi in modo generico, vale la presunzione che la parte abbia voluto tenere ferme le conclusioni precedentemente formulate (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 22360 del 30/09/2013 Rv. 627928; Sez. 3, Sentenza n. 10027 del 09/10/1998 (Rv. 519576; nello stesso senso, Sez. 3 Sentenza n. 26523 del 20/11/2020 Rv. 659790 secondo cui in caso di mancata partecipazione del procuratore di una parte all’udienza di precisazione delle conclusioni, debbono intendersi richiamate le richieste precedentemente formulate, ivi comprese le istanze istruttorie che la parte abbia reiterato dopo che ne sia stata rigettata l’ammissione);

– con il principio secondo cui quando la causa viene trattenuta in decisione perché sia decisa immediatamente una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito, ai sensi dell’art. 187 c.p.c., il solo fatto che la parte non abbia, nel precisare le conclusioni, reiterato le istanze istruttorie già formulate non consente al giudice di ritenerle abbandonate, se una volontà in tal senso non risulti in modo inequivoco (Sez. 3, Sentenza n. 8576 del 29/05/2012 Rv. 622631).

Come si vede, il tema della presunzione di rinuncia/abbandono delle domande o eccezioni non riproposte in sede di precisazione delle conclusioni viene prevalentemente risolto dalla giurisprudenza di questa Corte nel senso di una ricerca ricostruttiva dell’effettiva volontà della parte.

E, quanto all’assenza del difensore della parte all’udienza di precisazione delle conclusioni, si è precisato che essa non implica alcuna volontà di rinuncia alle domande e alle eccezioni in precedenza proposte, dovendosi invece presumere che la parte stessa abbia inteso tenere ferme, senza variarle/le conclusioni formulate in precedenza formulate negli atti tipici a ciò destinati e, quindi, nell’atto introduttivo del giudizio o nella comparsa di risposta, come anche nell’udienza o nei termini ex art. 183 c.p.c. (così Sez. 3, Sentenza n. 5018 del 2014 non massimata).

Anche nella giurisprudenza di legittimità più risalente si rinvengono principi improntati ad una valutazione globale della volontà della parte in sede di conclusioni disancorata da rigidi formalismi. Ad esempio, secondo Sez. 3, Sentenza n. 1480 del 14/06/1962 Rv. 252362, il principio che la precisazione delle conclusioni ha lo scopo di fissare definitivamente la volontà delle parti in relazione all’oggetto della controversia, per cui si debbono considerare rinunciate tutte le domande ed eccezioni che non siano state espressamente ribadite e richiamate in tale sede, presuppone che la parte abbia specificamente formulato ex novo tutte le conclusioni, mentre l’espressione di rigetto della domanda o delle eccezioni del convenuto, comprendendo, per la sua assoluta genericità tutte le ragioni già fatte valere in ordine ai presupposti ed alle condizioni dell’azione, non consente di ritenere abbandonata alcuna delle conclusioni precedentemente adottate dalla parte al fine di ottenere una pronuncia ad essa favorevole. E analogamente, secondo Sez. 3, Sentenza n. 136 del 26/01/1962 Rv. 250210 si deve ritenere rinunziata e quindi estranea al thema decidendum qualsiasi domanda ed eccezione che non sia stata espressamente ribadita o richiamata nelle nuove e definitive conclusioni precisate dalle parti all’udienza all’uopo fissata. Tale principio, tuttavia, non si applica quando manchi una nuova e completa enunciazione delle conclusioni, nel qual caso si presume che le parti abbiano inteso riportarsi senza varianti a quelle formulate in precedenza.

Si segue dunque sempre un criterio meno rigoroso e improntato alla ricerca della volontà della parte.

Così ricostruito il panorama giurisprudenziale, ritiene il Collegio che anche una presunzione di abbandono di istanze istruttorie in sede di precisazione delle conclusioni non possa, in taluni casi, prescindere da una doverosa indagine volta ad accertare se, effettivamente, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa, attraverso l’esame degli scritti difensivi quali la comparsa di costituzione, le memorie di cui all’art. 183 c.p.c. (o art. 184 c.p.c., nella formulazione ratione temporis applicabile), e poi con la comparsa conclusionale di cui all’art. 190 c.p.c., la cui funzione tipica – è bene rimarcarlo – è proprio quella di illustrare le domande e le questioni già proposte e che la parte intende sottoporre al giudice.

E un caso classico può essere proprio quello che ricorre nella fattispecie in esame, in cui all’udienza del 12.3.2008 fissata per la precisazione delle conclusioni nel giudizio n. 12551/05 (in cui si discuteva della inesistenza di servitù di passaggio e sosta di veicoli e, in riconvenzionale, dell’esistenza della relativa servitù acquistata per usucapione), non si presentò il dominus, ma un suo delegato, che si riportò “ai propri scritti e atti”, omettendo però di reiterare espressamente la richiesta di ammissione di prova che però era già stata formulata nella comparsa di costituzione e nella memoria ex art. 184 c.p.c. (cioè negli “atti” processuali) e, successivamente, venne ribadita dal difensore nella comparsa conclusionale e nell’atto di appello.

Ritorna insomma anche in tal caso il problema della significatività da attribuire a quello che la dottrina ha chiamato un “silenzio di pochi minuti” (per riprendere un’efficace espressione delle sezioni unite in tema di mero silenzio della parte in sede di precisazione delle conclusioni nel vecchio rito a fronte della introduzione di una domanda nuova: cfr. Sez. U, Sentenza n. 4712 del 22/05/1996 Rv. 497727).

Sarebbe stato allora necessario, proprio nell’ottica di una effettività del diritto di difesa in giudizio, svolgere un approfondimento sul contegno processuale della parte convenuta, che aveva imperniato tutta la sua linea difensiva sull’apparenza della servitù e sul concreto esercizio del passaggio, cioè su circostanze la cui prova la stessa Corte d’Appello aveva ritenuto indispensabile, ma comunque preclusa (cfr. pag. 8 sentenza impugnata).

Del resto, se all’udienza di precisazione delle conclusioni, il difensore impedito non si fosse ugualmente presentato, senza però nominare un delegato in sua vece (tenendo così un comportamento meno diligente), avrebbero potuto trovare applicazione i principi, meno rigorosi, sulla omessa partecipazione del difensore all’udienza.

Tirando le fila del discorso, il Collegio ritiene di affermare il seguente principio di diritto: la parte che si sia vista rigettare dal giudice le proprie richieste istruttorie ha l’onere di reiterarle, in modo specifico, quando precisa le conclusioni, senza limitarsi al richiamo generico dei precedenti atti difensivi, poiché, diversamente, le stesse devono ritenersi abbandonate e non potranno essere riproposte in sede di impugnazione; resta salva però la possibilità per il giudice di merito di ritenere superata tale presunzione qualora dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa, attraverso l’esame degli scritti difensivi.

La sentenza va pertanto cassata per nuovo esame sulla scorta del citato principio, restando così logicamente assorbito l’esame delle restanti doglianze.

Il giudice di rinvio, che si individua nella Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

la Corte rigetta il primo e secondo motivo di ricorso, accoglie il terzo e dichiara assorbiti i restanti; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 4 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021

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