Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.33108 del 10/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14671/2017 proposto da:

T.G., T.D., e T.V., rappresentati e difesi dall’Avvocato ANTONELLO LINETTI, e dall’Avvocato DANIELE MANCA, per procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

S.E. e A.E., rappresentati e difesi dall’Avvocato LUCA PERUGINI, e dall’Avvocato ARTURO PERUGINI, per procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1060/2016 della CORTE D’APPELLO DI BRESCIA, depositata il 3/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nell’adunanza non partecipata del 14/7/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

FATTI DI CAUSA

1. T.G. e T.A. hanno proposto appello avverso la sentenza con la quale il tribunale di Brescia, in data 21/11/2007, aveva accolto la domanda proposta nei loro confronti, con atto di citazione notificato il 12/7/2000, da S.E. e da A.E., chiedendone il rigetto sul rilievo che la costruzione che gli appellanti avevano realizzato al confine è autorizzata ed, in ogni caso, non viola le distanze legali sia dal confine, che dalla costruzione limitrofa.

S.E. e da A.E., dal canto loro, hanno resistito al gravame, chiedendo l’integrale conferma della sentenza impugnata.

Interrotto il giudizio a seguito del decesso di T.A. e riassunto da T.G. nonché da T.D. e T.V., quali eredi di T.A., la corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello.

2. La corte, in particolare, per quanto ancora rileva, ha esaminato il primo motivo, con il quale gli appellanti avevano dedotto la legittimità dell’autorimessa realizzata “sulla proprietà T.”: e ne ha ritenuto l’infondatezza sul rilievo che, sulla base della consulenza tecnica d’ufficio disposta dal tribunale, la distanza legale minima era, al momento della costruzione (1992), di cinque metri dal confine e che l’autorimessa dei T. aveva violato tale limite legale.

La corte, poi, ha esaminato il secondo motivo, con il quale gli appellanti avevano lamentato l’illegittimità dell’ampliamento realizzato da S.E. ed A.E. ed avevano chiesto la sua riduzione a distanza legale mediante arretramento dell’edificio di 70 cm. per il mancato rispetto della distanza di dieci metri tra i due fabbricati: e ne ha parimenti ritenuto l’infondatezza sul rilievo che: – il Comune, all’epoca dell’edificazione (1974-1975), non aveva ancora recepito il disposto del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 e della L. n. 765 del 1967; – la consulenza tecnica d’ufficio ha accertato che il piano di fabbricazione all’epoca in vigore prevedeva una distanza inferiore a quella della normativa sopra indicata e che, le distanze dei manufatti realizzati, con riferimento alla normativa tecnica locale vigente al momento dell’esecuzione dei lavori ed al quella attuale, sono state rispettate; – il consulente ha precisato che l’ampliamento dell’edificio eretto dall’attore nel 1974-1975 verso sud, ossia verso la proprietà di controparte, fu costruita in modo conforme al regolamento edilizio in vigore ma è stato realizzato a distanza di 9,3 metri dal fabbricato del T., in violazione della normativa del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 e della L. n. 765 del 1967, sulle distanze dai fabbricati, che stabilisce la distanza minima delle nuove costruzione a 10 metri. Sennonché, ha osservato la corte, il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9 (emanato in esecuzione della norma sussidiaria della L. 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41 quinquies, introdotto dalla L. 6 agosto 1967, n. 765), prescrive la distanza minima inderogabile di metri dieci tra pareti finestrate o pareti di edifici antistanti, impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o nella revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante nei rapporti tra private e che, di conseguenza, l’eventuale previsione, negli strumenti urbanistici locali, di distanze inferiori a quelle prescritte dall’art. 9 del D.M. citato sono illegittime e vanno disapplicate e sostituite ex lege con quelle di detta normativa statuale, mentre queste ultime non sono immediatamente applicabili nei rapporti tra privati finché non siano state inserite negli stessi strumenti adottati o modificati, a differenza delle prescrizioni della L. n. 765 del 1967, art. 17, comma 1, che sono immediatamente applicabili nei comuni sprovvisti di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione.

3. T.G., T.D. e T.V., con ricorso notificato l’1/6/2017, hanno chiesto, per due motivi, la cassazione della sentenza della corte d’appello, dichiaratamente non notificata.

S.E. e da A.E. hanno resistito con controricorso.

I ricorrenti hanno depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

4.1. Con il primo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione degli artt. 100 e 102 c.p.c. e la conseguente nullità del procedimento e delle sentenze di primo e di secondo grado, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non ha disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti del comproprietario F.P.S., essendo stato il de cuius T.A. mero titolare del diritto di abitazione e non comproprietario del manufatto da demolire e, come tale, non legittimato a resistere in giudizio.

4.2. La domanda di demolizione dell’autorimessa, in quanto realizzata in violazione delle distanze legali, infatti, introduce un giudizio che, a norma dell’art. 102 c.p.c., dev’essere necessariamente introdotto nei confronti di tutti i comproprietari.

4.3. Le eredi di T.A., del resto, avevano eccepito la carenza della propria legittimazione passiva, essendo il de cuius T.A. titolare unicamente del diritto di abitazione, laddove, alla luce dell’atto divisione del 21/12/1998, che le stesse avevano prodotto in giudizio, il comproprietario nei confronti del quale, insieme all’appellante T.G., il contraddittorio doveva essere integrato era F.P.S., come del resto le stesse avevano evidenziato nella comparsa conclusionale.

4.4. La corte d’appello, però, hanno concluso i ricorrenti, ha omesso di pronunciarsi sulla questione, peraltro rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento.

4.5. Con il secondo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e/o la falsa applicazione della L. n. 1150 del 1942, art. 41 quinquies e del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha rigettato la domanda di demolizione dell’ampliamento del corpo di fabbrica operato dagli attori.

4.6. Così facendo, infatti, hanno osservato i ricorrenti, la corte d’appello non ha considerato che, come accertato dal consulente tecnico d’ufficio, tale ampliamento, pur avendo rispettato la distanza all’epoca contemplata dal piano di fabbricazione del Comune, non risulta, tuttavia, rispettoso della distanza di dieci metri tra edifici aventi pareti finestrate prevista dalla normativa nazionale la quale, nonostante la diversa statuizione della corte d’appello, risulta immediatamente applicabile nei rapporti tra privati pur se non recepita dai regolamenti locali, i quali, comunque, ove prescrivano una distanza inferiore, devono essere disapplicati dal giudice e sostituiti con la norma statale.

5.1. Il primo motivo è fondato, con assorbimento del secondo.

5.2. Gli atti del giudizio di merito, ai quali la Corte accede direttamente per la natura processuale del vizio (rilevabile, peraltro, d’ufficio in ogni stato e grado del processo, anche in sede di legittimità: Cass. n. 4665 del 2021, per cui, quando risulta integrata la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, non rilevata né dal giudice di primo grado, che non ha disposto l’integrazione del contraddittorio, né da quello di appello, che non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354 c.p.c., comma 1, resta viziato l’intero processo e s’impone, in sede di giudizio di cassazione, l’annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383 c.p.c., comma 3), dimostrano, in effetti, che, con atto del 21/12/1998, trascritto in data 28/12/1998, T.A., per la quota dei 12/18 in nuda proprietà, T.D. e T.V., per la quota indivisa di 2/12 ciascuna in nuda proprietà, avevano venduto, con la riserva del diritto di abitazione vita natural durante, a T.G. e a F.P.S. la nuda proprietà della quota indivisa complessiva pari ai 16/18 dell’unità immobiliare di cui fa parte l’autorimessa della quale gli attori hanno, poi, chiesto, con atto di citazione notificato il 12/7/2000, l’abbattimento per violazione delle norme sulle distanze legali. In conseguenza di tale atto, quindi, T.G. e F.P.S. sono diventati gli (unici) comproprietari dell’immobile mentre T.A. è rimasto titolare del solo di diritto di abitazione che, con il suo decesso, si è estinto.

5.3. L’atto di citazione che ha introdotto il giudizio di primo risulta, tuttavia, notificato esclusivamente a T.G. e ad T.A.: non anche, pur se (all’epoca già nuda) comproprietaria dell’immobile, a F.P.S., nei confronti della quale, peraltro, il contraddittorio non risulta integrato nel corso del giudizio di primo grado, né tale mancanza è stata rilevata dalla corte d’appello ai fini di cui all’art. 353 c.p.c. e art. 354 c.p.c., comma 2.

5.4. L’azione diretta alla demolizione di un bene comune a più persone, dovendo necessariamente essere proposta nei confronti di tutte, dà luogo, infatti, ad una ipotesi di litisconsorzio necessario, con la conseguenza che, ove, nel giudizio di primo grado, sia mancata l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli interessati non citati a comparire, il giudice di appello è tenuto a rimettere la causa al primo giudice a norma dell’art. 354 c.p.c., per la riassunzione del giudizio nei confronti di costoro (Cass. n. 23564 del 2019; Cass. n. 5603 del 2001; Cass. n. 1158 del 1999).

5.5. Ne’ può rilevare in senso contrario il fatto che il giudizio sia stato proposto nei confronti dell’habitator T.A. (e poi, a seguito della sua morte, sia stato riassunto dai suoi eredi). La legittimazione passiva in ordine alla riduzione in pristino conseguente all’esecuzione, su immobile concesso in usufrutto, di opere edilizie illegittime, perché realizzate in violazione delle distanze legali, spetta, infatti, al nudo proprietario, potendosi riconoscere all’usufruttuario il solo interesse a spiegare nel giudizio intervento volontario ad adiuvandum, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., comma 2, volto a sostenere le ragioni del nudo proprietario alla conservazione del suo immobile, anche quando le opere realizzate a distanza illegittima abbiano riguardato sopravvenute accessioni sulle quali si sia esteso il godimento spettante all’usufruttuario in conformità all’art. 983 c.c. (Cass. n. 5900 del 2010). A tale principio (che, a norma dell’art. 1026 c.c., si applica a fortiori anche al diritto di abitazione) il collegio ritiene di aderire e dare continuità in quanto più specifico e coerente alla natura delle facoltà, di mero godimento e non anche comportanti poteri di diretto intervento, modificativo o additivo, sulla cosa che ne forma oggetto, spettanti all’usufruttuario (ed, a maggior ragione, al titolare del diritto di abitazione), in considerazione delle quali l’interesse alla partecipazione al giudizio (in funzione dell’incidenza negativa sulle suddette facoltà dell’eventuale statuizione restitutoria) è da ritenersi meramente riflesso e, pertanto, tutelabile nelle sole forme di un facoltativo intervento adesivo dipendente: e tali, comunque, da non escludere la necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti del nudo proprietario nell’ipotesi in cui l’azione diretta alla riduzione in pristino sia stata spiegata soltanto contro l’usufruttuario o, come nel caso in esame, l’habitator, posto che il proprietario, ancorché nudo, è l’unico soggetto titolare delle facoltà di modificare e incrementare la cosa a lui appartenente e, pertanto, il naturale responsabile dei relativi interventi interessanti il bene, (salvi i casi, comunque non comportanti litisconsorzio necessario ma solo facoltativo dell’usufruttuario, in cui le opere modificative o additive siano state realizzate dall’usufruttuario: Cass. n. 8008 del 2011; conf. Cass. n. 22466 del 2014, in motiv.).

6. La sentenza impugnata, pertanto, dev’essere cassata.

7. La causa, previa dichiarazione della nullità degli atti del giudizio di primo grado, dev’essere, quindi, rinviata, ai sensi dell’art. 383 c.p.c., comma 3, al tribunale di Brescia che, in persona di diverso magistrato, provvederà anche liquidare le spese relative al presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte così provvede: accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, e, per l’effetto, cassa la sentenza impugnata; dichiara la nullità degli atti del giudizio di primo grado e rinvia la causa, ai sensi dell’art. 383 c.p.c., comma 3, al tribunale di Brescia che, in persona di diverso magistrato, provvederà anche liquidare le spese relative al presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 14 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021

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