LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –
Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 6886/2016 proposto da:
A.G., rappresentata e difesa dall’avvocato Gianpiero Balena, giusta procura speciale notarile del 7 giugno 2021;
– ricorrente –
contro
A.E.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSTANTINO MORIN 1, presso lo studio dell’avvocato WALTER FELICIANI, rappresentato e difeso dall’avvocato RICCARDO LEONARDI, giusta procura in calce al controricorso;
– ricorrente incidentale –
nonché
B.P., B.L., BL.LA., AL.GI., M.M., M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MAGLIANO SABINA 24, presso lo studio dell’avvocato LUIGI PETTINARI, e rappresentati e difesi dall’avvocato ANDREA MEDICI;
– controricorrenti –
e contro
A.M., AL.GI.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1300/2015 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 31/12/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/07/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie della ricorrente principale e dei controricorrenti.
RAGIONI IN FATTO DELLA DECISIONE 1. Con distinti atti di citazione A.A. proponeva opposizione avverso i decreti ingiuntivi separatamente ottenuti da Al.An., Ad. e Gi., per il pagamento della somma asseritamente dovuta dall’opponente, e corrispondente ad un quinto dell’indennità conseguita a seguito dell’espropriazione e dell’occupazione di urgenza di due compendi immobiliari siti in Ancona.
A fondamento dell’opposizione si deduceva l’inidoneità probatoria della documentazione posta a sostegno del ricorso monitorio, nonché, in uno dei giudizi di opposizione, l’incompetenza per territorio del giudice adito.
Nella resistenza degli opposti, disposta la riunione delle opposizioni, il Tribunale di Ancona con la sentenza del 7/8/2008 rigettava le opposizioni, confermando i decreti opposti.
Avverso tale sentenza proponeva appello A.A., che decedeva nel corso del giudizio di appello, succedendogli i tre figli, M., E.A. e G..
Quest’ultima si costituiva in giudizio chiedendo la prosecuzione dell’appello.
Decedeva anche l’appellata Al.An., cui subentravano le eredi B.P., L. e La..
Decedeva anche Al.Ad., cui subentravano gli eredi M.M. ed A..
Disposta la notifica dell’atto di prosecuzione anche a A.M. ed E.A., si costituiva solo quest’ultimo.
La Corte d’Appello di Ancona, con la sentenza n. 1300 del 31 dicembre 2015, ha rigettato l’appello.
Disatteso il motivo con il quale si contestava la dichiarazione di competenza del Tribunale adito, e ciò in quanto l’eccezione non era stata correttamente formulata in primo grado, era ritenuto inammissibile il secondo motivo di appello che, invece, contestava il rigetto dell’istanza di sospensione del giudizio in attesa delle determinazioni del giudice tributario in ordine alla controversia riguardante il corrispettivo liquidato a titolo di indennità di espropriazione.
Secondo il Tribunale la sospensione andava negata in quanto la pendenza di tale vertenza non integrava un antecedente logico – giuridico necessario alla definizione delle cause civili né era una pregiudiziale indefettibile rispetto all’accertamento delle volontà espresse dai coeredi nell’atto di divisione della massa ereditaria, su cui si fondava la domanda degli opposti.
Tuttavia, l’appellante non aveva mosso specifiche critiche alla motivazione del Tribunale, rivelandosi quindi l’appello inammissibile in parte qua.
Era altresì rigettato il terzo motivo di appello con il quale si contestava l’assenza di prova circa il fatto che l’appellante avesse effettivamente percepito le indennità, la cui quota era reclamata dagli opposti.
Era poi esaminato il motivo di gravame che contestava la corretta interpretazione della scrittura di divisione sulla scorta della quale era stata azionata la pretesa monitoria.
Secondo l’appellante la decisione del Tribunale aveva surrettiziamente mortificato il contenuto dell’accordo che si era limitato a porre a carico dell’opponente la sola quota parte dell’indennità di espropriazione percepita su due beni indicati nella scrittura, e non anche dell’indennità di occupazione.
La diversa soluzione raggiunta aveva spostato il peso del contratto unicamente sull’appellante, e senza tenere conto del fatto che i cespiti erano sempre rimasti nel possesso di quest’ultimo che ne aveva percepito i frutti e sopportato gli oneri, senza mai essere obbligato al rendiconto.
La Corte distrettuale opinava nel senso che la sentenza di primo grado avesse fatto corretta applicazione dei canoni di interpretazione contrattuale, e che quindi effettivamente le parti avessero inteso disporre la ripartizione in parti eguali di tutte le indennità percepite per effetto dell’occupazione e dell’espropriazione degli immobili.
Infatti, la scrittura aveva previsto la divisione di tutti i beni caduti nella successione paterna, con la sola eccezione di quelli indicati dalle lettere da a) a c).
Si era poi dato atto che l’immobile di ***** era da ritenersi ricompreso nell’asse ereditario, sebbene formalmente intestato ad A.A., in quanto era stato acquistato con denaro fornitogli dal genitore; lo stesso A.A. aveva poi riconosciuto pro bono pacis ed in via transattiva come ricompreso nell’asse ereditario anche il diverso immobile di *****, sebbene acquistato con denaro proprio frutto di un’operazione di mutuo fondiario, confermando però la volontà di attribuire ai fratelli un quinto dell’indennità che sarebbe stata liquidata dal Comune di Ancona.
Si trattava però, pur a fronte del formale riferimento alla sola indennità di esproprio, anche dell’indennità di occupazione, stante il richiamo nella scrittura alla procedura di occupazione d’urgenza che era in corso al momento dell’accordo, sicché il riferimento alla procedura ablativa in corso, con il rinvio a tutte le sue fasi, sottintendeva la volontà di includere nel riparto tutte le indennità in ogni caso suscettibili di corresponsione all’esito della procedura stessa.
Ne’ tale conclusione poteva essere inficiata per il fatto che l’opponente fosse poi rimasto nel possesso esclusivo dei beni, e ciò alla luce del fatto che per uno dei cespiti era stata riconosciuta la sostanziale appartenenza al de cuius e che l’accordo, a fronte dell’impegno a versare la quota parte dell’indennità di occupazione e di espropriazione, prevedeva come contropartita per l’appellante il diritto a trattenere quanto già incamerato per il passato.
Erano poi ritenuti privi di rilievo sia il fatto che A.A. avesse continuato a sostenere gli oneri fiscali, trattandosi di una conseguenza della titolarità formale dei beni, sia il richiamo alla previsione di cui all’art. 1020 c.c., che è norma specificamente dettata per il diritto di usufrutto.
Inoltre, doveva escludersi anche un ingiustificato aggravamento della posizione dell’appellante, e ciò in quanto aveva ammesso di aver sempre trattenuto per il passato i frutti prodotti dai beni, frutti che non erano stati oggetto di richiesta di restituzione da parte dei fratelli, e ciò sebbene per uno di tali cespiti si fosse dato atto dell’appartenenza ab origine al de cuius.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso A.G. sulla base di tre motivi, illustrati da memorie.
A tale ricorso hanno resistito con controricorso B.P., B.L., Bl.La., Al.Gi., M.M. e M.A., depositando anche memorie in prossimità dell’udienza.
Ha proposto controricorso anche A.E.A., che ha proposto altresì ricorso incidentale affidato ad un motivo.
Al ricorso incidentale hanno resistito con controricorso B.P. e B.L..
A.M. non ha svolto difese in questa fase.
In prossimità dell’udienza i controricorrenti hanno depositato memorie.
RAGIONI IN DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Preliminarmente deve ritenersi che il controricorso proposto da A.E.A., ancorché non rechi la formale indicazione della volontà di proporre ricorso incidentale, abbia effettivamente tale contenuto, posto che nel corpo dell’atto risulta pacificamente articolato un motivo di impugnazione e nelle conclusioni si sollecita la cassazione della sentenza impugnata.
Infatti, va ribadito che un controricorso ben può valere come ricorso incidentale, ma, a tal fine, per il principio della strumentalità delle forme – secondo cui ciascun atto deve avere quel contenuto minimo sufficiente al raggiungimento dello scopo – occorre che esso contenga i requisiti prescritti dall’art. 371 c.p.c., in relazione ai precedenti artt. 365,366 e 369 c.p.c. e, in particolare, la richiesta, anche implicita, di cassazione della sentenza, specificamente prevista dell’art. 366 c.p.c., n. 4 (Cass. n. 8873/2020; Cass. S.U. n. 25045/2016).
All’esito di tale qualificazione risulta altresì priva di fondamento l’eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale come sollevata in controricorso, per la sua asserita tardività, atteso che ad A.E.A. risulta che il ricorso principale sia stato notificato a mezzo pec in data 9/3/2016, sicché, essendo stato il controricorso contenente il ricorso incidentale notificato in data 18/4/2016 (come riconosciuto dalle stesse controricorrenti), risulta rispettato il termine di cui all’art. 370 c.p.c..
Non merita poi accoglimento la deduzione di inammissibilità dello stesso ricorso incidentale quanto alla pretesa violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, per non avere la parte specificato gli elementi per l’individuazione del documento di cui si contesta con il motivo la corretta interpretazione, atteso che trattasi di documento che risulta pacificamente oggetto della decisione gravata, che sul tenore dello stesso si è appunto fondata, e che risulta altresì riprodotto in ricorso incidentale per le parti rilevanti ai fini della comprensione della censura mossa.
2. Il primo motivo del ricorso principale denuncia la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia.
Si evidenzia che le clausole della scrittura divisionale intercorsa tra i germani A., e relativa alla divisione dei beni caduti nelle successioni dei genitori avevano anche carattere tra nsattivo.
La sentenza impugnata non ha motivato quanto alla corretta interpretazione della scrittura, disattendendo quindi l’argomento della ricorrente per cui l’accordo divisionale era relativo alla sola indennità di espropriazione.
I giudici di appello, invece, hanno immotivatamente accomunato le due indennità, trascurando quindi che la divisione della sola indennità di espropriazione era stata concessa in un’ottica transattiva della vicenda, senza però voler negare la proprietà del proprio dante causa sia sugli immobili di ***** che di *****.
Si deduce altresì che la sentenza avrebbe omesso di motivare quanto alla dichiarata inammissibilità del secondo motivo di appello, che investiva la mancata sospensione del giudizio in attesa della definizione del contenzioso tributario scaturente dal pagamento delle indennità di espropriazione e di occupazione da parte del Comune di Ancona.
Il motivo è inammissibile.
Infatti, trattandosi di ricorso avverso sentenza pronunciata in data successiva all’11 settembre 2012, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è più denunciabile il vizio di omessa motivazione, come invece consentito dalla norma previgente, occorrendo invece censurare la decisione del giudice di appello in relazione al vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.
La formulazione del motivo non si conforma quindi al dettato della norma applicabile ratione temporis, né la deduzione della ricorrente è suscettibile di rivalutazione alla luce del teso applicabile.
Infatti, l’interpretazione di questa Corte ha chiarito come l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U., 07/04/2014, n. 8053). Costituisce, pertanto, un “fatto”, agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. Sez. 1, 04/04/2014, n. 7983; Cass. Sez. 1, 08/09/2016, n. 17761; Cass. Sez. 5, 13/12/2017, n. 29883; Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152; Cass. Sez. U., 23/03/2015, n. 5745; Cass. Sez. 1, 05/03/2014, n. 5133. Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass. Sez. 2, 14/06/2017, n. 14802: Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152); gli elementi istruttori; una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (Cass. Sez. L, 21/10/2015, n. 21439); le domande o le eccezioni formulate nella causa di merito, ovvero i motivi di appello, i quali rappresentano, piuttosto, i fatti costitutivi della “domanda” in sede di gravame, e la cui mancata considerazione perciò integra la violazione dell’art. 112 c.p.c., il che rende ravvisabile la fattispecie di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e quindi impone un univoco riferimento del ricorrente alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (Cass. Sez. 2, 22/01/2018, n. 1539; Cass. Sez. 6 – 3, 08/10/2014, n. 21257; Cass. Sez. 3, 29/09/2017, n. 22799; Cass. Sez. 6 – 3, 16/03/2017, n. 6835).
La denuncia in esame, lungi dall’individuare il fatto storico di cui sarebbe stata omessa la disamina da parte del giudice di appello, si limita a riproporre una serie di argomentazioni difensive, che peraltro trovano sviluppo anche in occasione dei successivi motivi di ricorso, dolendosi della loro non adeguata valutazione da parte del giudice di appello, il che evidenzia quindi come il mezzo di impugnazione debba essere dichiarato inammissibile.
Lo stesso è a dirsi, anche in relazione al diverso punto che investe la declaratoria di inammissibilità del secondo motivo di appello, relativo infatti alla mancata sospensione del giudizio civile, in attesa della definizione della controversia tributaria scaturente dall’incasso da parte del dante causa della ricorrente delle indennità liquidate dal Comune di Ancona.
La Corte distrettuale ha ritenuto che il mezzo di impugnazione fosse privo di specificità, risolvendo quindi la controversia in parte qua facendo applicazione del disposto di cui all’art. 342 c.p.c..
A fronte della definizione in rito operata dalla sentenza impugnata, la ricorrente avrebbe quindi dovuto lamentare la violazione e falsa applicazione delle regole processuali, e quindi la commissione di un error in procedendo suscettibile di determinare la nullità della sentenza, ma invece si è limitata a dedurre il difetto di motivazione.
Giova sul punto far richiamo al principio espresso dalle Sezioni Unite secondo cui il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo all’art. 112 c.p.c., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (Cass. S.U. n. 17931/2013).
Ritiene la Corte che tale principio possa estendersi anche al diverso error in procedendo relativo alla riscontrata inammissibilità del motivo di appello, e che quindi sia inammissibile la denuncia limitata al solo difetto di motivazione.
3. Il secondo motivo del ricorso principale denuncia la violazione ed errata applicazione delle norme in tema di interpretazione del contratto previste dagli artt. 1362-1371 c.c., ed in particolare degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1371.
Si rileva che la sentenza ha offerto della scrittura divisionale una lettura non corrispondente alla effettiva volontà delle parti quale emergente dal significato letterale.
Infatti, la conclusione dei giudici di appello è stata quella di pervenire ad un’interpretazione che è favorevole solo per le controparti della ricorrente, con un integrale pregiudizio in danno di A.A.. Inoltre, non si è tenuto conto del complessivo comportamento delle parti, posto che delle sorti del procedimento di espropriazione gli altri condividenti si erano totalmente disinteressati.
Risulta violata anche la prescrizione di cui all’art. 1363 c.c., in quanto si è isolata una singola clausola a fronte della regolamentazione complessiva della divisone, nonché la prescrizione di cui all’art. 1366 c.c., in quanto è stato tradito quello che era il significato che alle clausole aveva inteso attribuire A.A..
Infine, è stata violata la regola di cui all’art. 1371 c.c., posto che la soluzione ermeneutica dei giudici di appello ha determinato un ingiustificato aggravamento della posizione del dante causa della ricorrente, che si troverebbe costretto a versare anche la quota parte dell’indennità di occupazione maturata per beni formalmente a lui intestati, senza però alcuna contropartita.
Di contenuto analogo è il motivo del ricorso incidentale che denuncia, in relazione alla medesima convenzione di divisione, la violazione delle medesime regole di ermeneutica contrattuale.
I motivi, che vanno congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono evidentemente privi di fondamento.
Va premesso che l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione). Sicché, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536). D’altra parte, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni (tra le altre: Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178). Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 7500/2007; 24539/2009).
Una volta poste tali premesse in punto di diritto, occorre evidenziare che con la scrittura divisionale del 1988 (essendo il comune genitore A.M. deceduto qualche anno prima), i cinque germani A. ( Ad., A., An., Ma. e Gi.) procedevano alla divisione fra loro degli immobili caduti in successione, escludendo da tale divisione solo i beni di cui alle lettere da a) a c) della stessa scrittura e precisamente: a) il fondo rustico di *****; b) l’area di ***** e i locali del piano seminterrato dell’edificio di *****; c) gli immobili siti in *****.
Nella stessa scrittura poi si precisava che gli immobili compresi nell’edificio di *****, pur essendo intestati ad A., andavano considerati come compresi nell’asse ereditario paterno, dato che furono acquistati con denaro da lui versato, e che gli immobili di *****, essendo stati costruiti su terreno acquistato dal Comune di Ancona, con denaro ottenuto attraverso un’operazione di mutuo ipotecario effettuata da A. con il Credito Fondiario Umbro-Marchigiano, avrebbero dovuto essere considerati fuori dall’asse ereditario.
Tuttavia, ” A. pro bono pacis ed in via transattiva si è dichiarato disposto ad attribuire ai fratelli i 4/5 della indennità di espropriazione che verrà liquidata dal Comune di Ancona, dato che tutti gli immobili di ***** e di ***** sono soggetti a procedura di occupazione di urgenza per ora, e di espropriazione forzata poi, per la realizzazione della Galleria *****, giusta ordinanza n. 383 emessa il 3/9/1987 dal Sindaco del Comune di Ancona…”.
La materia del contendere investe in particolare tale ultima previsione, in quanto mentre Al.Ad., An. e Gi. sostengono che la previsione del riparto pro quota non fosse limitato alla sola indennità di espropriazione, ma ricomprendesse anche quella di occupazione, la difesa dei ricorrenti limita la portata effettuale dell’accordo solo alla prima.
I giudici di merito hanno sposato la tesi ampliativa, evidenziando che, una volta operata la divisione di tutti i beni in comunione, con la sola eccezione di quelli espressamente contemplati, l’intento delle parti era stato quello di far emergere, quanto al bene di *****, come l’intestazione in capo ad A. fosse solo formale, ma che si trattasse di bene in realtà facente parte dell’asse ereditario in quanto frutto di acquisto operato con denaro fornito dal genitore. Quanto al diverso bene di *****, sebbene intestato al dante causa dei ricorrenti non solo dal punto di vista formale ma anche sostanziale, essendo il frutto di un acquisto operato solo con mezzi propri, la sentenza ha osservato che però, a fini transattivi, vi era stato il riconoscimento a corrispondere in favore dei germani la quota di 1/5 pro capite dell’indennità, sia di espropriazione (come letteralmente previsto in contratto) che di occupazione, e ciò alla luce del fatto che la relativa clausola faceva riferimento, in vista dell’individuazione della fonte dell’indennità oggetto della pattuizione contrattuale) ad una procedura di occupazione di urgenza, ancora non esitata nell’adozione del provvedimento di esproprio.
I giudici di appello hanno quindi sostenuto che il riferimento alla procedura ablativa, richiamata anche nei suoi potenziali e prevedibili sviluppi, induceva a ritenere che le parti avessero in realtà inteso prevedere il riparto di tutte le indennità comunque riconducibili alla stessa, e che quindi fosse legittima la pretesa degli altri fratelli a ricevere la quota parte anche dell’indennità di occupazione, ciò anche in considerazione del fatto che al momento della conclusione della scrittura era intervenuta la sola occupazione di urgenza.
La titolarità formale dei beni in capo al solo A. non aveva carattere dirimente per addivenire ad una diversa soluzione, posto che le parti non intendevano rinnegare tale situazione formale, ma avevano voluto regolare la vicenda dal punto di vista sostanziale affermando che l’immobile di ***** era da ritenere facente parte dell’asse (il che giustificava anche il fatto che gli oneri fiscali successivi dovessero essere sostenuti dall’intestatario formale).
Ancora è stato evidenziato che, proprio in ragione del fatto che A. aveva sempre incassato per il passato i frutti prodotti dai beni, anche relativamente a quello che si riconosceva essere invece appartenente al de cuius e, quindi, comune, una volta apertasi la successione, il fatto che i fratelli non avessero accampato pretese a tale titolo per il passato costituiva la giustificazione causale, in chiave transattiva, del riconoscimento da parte dello stesso A. dell’indennità di occupazione ed espropriazione pro quota anche per quanto concerneva il bene pacificamente di sua proprietà.
Rileva la Corte che l’interpretazione offerta dal giudice di merito sia incensurabile e che i motivi di ricorso, ancorché contenenti il richiamo a specifiche norme di ermeneutica contrattuale, non si rivelino idonei a denotare l’erroneità in diritto della soluzione del giudice di appello e soprattutto non denotino l’assoluta implausibilità dell’esito cui è pervenuta la sentenza di appello, presupposto necessario, come visto, per l’esito positivo della denuncia della violazione delle regole di ermeneutica contrattuale.
Quanto al profilo dell’interpretazione letterale, la sentenza impugnata ha dato adeguata giustificazione delle ragioni in base alle quali il riferimento espresso alla sola indennità di espropriazione dovesse essere inteso come esteso anche a quella di occupazione e ciò alla luce di un’esegesi non limitata al solo senso letterale delle parole ma estesa alla comune intenzione dei contraenti, la quale emergeva dal fatto che nella medesima clausola l’indennità fosse correlata ad una procedura ablativa che al momento si era manifestata nella sola occupazione, così che il richiamo all’indennità di espropriazione è una sorta di sineddoche, individuando una delle componenti delle indennità riconosciute al proprietario come idonea a designare però il complesso dei ristori patrimoniali dovuti per legge al proprietario del bene prima occupato e poi espropriato.
Una volta riscontrato il rispetto del canone di interpretazione letterale, deve escludersi anche la violazione delle ulteriori regole invocate dai ricorrenti.
Poiché, quanto all’immobile di ***** le parti avevano inteso dare atto che si trattava di bene in realtà sempre appartenuto al comune genitore, e solo quindi formalmente intestato al figlio A., e che l’immobile di ***** era anche dal punto di vista sostanziale appartenente al dante causa dei ricorrenti, alcuna rilevanza può attribuirsi alla circostanza che della procedura espropriativa si sia sempre interessato A., e ciò in quanto lo stesso, come intestatario formale, in un caso, e formale e sostanziale nell’altro, era l’unico interlocutore nei rapporti con la PA, a prescindere dal diverso assetto proprietario che era stato individuato nei rapporti interni con i fratelli.
Ne’ tale conclusione è destinata a mutare ove si ritenga che in realtà l’utilizzo del denaro da parte del genitore non abbia dato vita ad un fenomeno di interposizione fittizia, ma ad un’intestazione di beni a nome altrui, posto che in tal caso, la riconduzione del fenomeno alla liberalità indiretta, consente di ricondurre la dichiarazione di riconoscimento della titolarità del bene come comune ad una sorta di attuazione volontaria del meccanismo della collazione in natura, con la previsione però che, stante l’imminente intervento dell’espropriazione, la restituzione del bene alla massa sarebbe avvenuta mediante il riparto dell’equivalente monetario rappresentato dalle indennità complessivamente erogate dal Comune di Ancona.
Del pari priva di fondamento è la censura che investe la pretesa violazione dell’art. 1363 c.c., in quanto, l’estensione dell’indennità resa comune anche a quella di occupazione trova conforto nel complessivo tenore delle clausole come interpretate dal giudice di appello.
Ed, infatti, una volta evidenziato che le parti avevano inteso far rientrare tra i beni appartenuti al de cuius anche quelli di *****, formalmente intestati ad A., e ciò a far data dal loro acquisto risalente al 1960 (cfr. pag. 2 del ricorso principale), che la successione si era aperta nel 1985 e che la divisione recava la data del 1988, la sentenza ha puntualmente evidenziato che, quanto meno fino alla data della divisione, tutti i frutti, anche del bene ritenuto comune, erano stati ritratti unicamente da parte di A. che, in punto diritto avrebbe dovuto quindi compensare il reale titolare, prima, e gli altri condividenti, poi, una volta apertasi la successione, della mancata percezione dei frutti.
La previsione negoziale oggetto di causa, nel limitare i diritti degli altri fratelli alle sole indennità di occupazione e di espropriazione (per un’occupazione che peraltro era iniziata nel 1987, come riferito a pag. 21 del controricorso al ricorso principale) implicava quanto meno in maniera implicita una rinuncia ad accampare diritti sui frutti maturati per il passato, legittima la qualificazione data dalle parti in termini anche transattivi dell’accordo e giustifica, quindi, nella previsione dell’aliquid datum, aliquid retentum, l’estensione dell’indennità da ripartire anche per il diverso bene invece pacificamente di proprietà esclusiva di A.A..
Tali considerazioni danno altresì contezza della insussistenza della violazione dell’art. 1371 c.c., posto che proprio la presenza di una causa anche transattiva a fondamento dell’accordo, impone di dover valutare in questa diversa prospettiva causale l’esigenza di equo contemperamento che la norma pone, avendo le parti stesse inteso regolare tale aspetto con le reciproche concessioni a fondamento della transazione. Del pari priva di fondamento è poi la deduzione della previsione di cui all’art. 1366 c.c., soprattutto nell’accezione sostenuta dalla ricorrente principale secondo cui si imporrebbe in base al canone della buona fede l’interpretazione del contratto in maniera conforme alla volontà, non già emergente dal testo del contratto come interpretato alla luce delle espressioni utilizzate dalle parti, ma unilateralmente individuata da uno dei contraenti (così il ricorso a pag. 23), con una palese inversione di ordine logico, in quanto si pone come premessa la soluzione la ricostruzione della volontà delle parti che è invece l’esito dell’attività interpretativa.
Infine, del tutto privo di pertinenza rispetto alla vicenda in esame è l’argomento già disatteso dalla Corte d’Appello e richiamato nel ricorso incidentale, della applicazione dell’art. 1020 c.c., secondo cui in caso di requisizione o espropriazione l’usufrutto si traferisce sulla relativa indennità.
Infatti, oltre a doversi evidenziare che nella fattispecie non si dibatte dell’espropriazione di una cosa sulla quale le controparti avessero un diritto di usufrutto, ma di un bene di cui si riconosceva invece la proprietà comune, la norma richiamata evidentemente non si occupa dell’indennità di occupazione, atteso che, nel caso in cui il bene oggetto di usufrutto fosse sottoposto ad occupazione d’urgenza, la relativa indennità, come riconosciuto dalla unanime dottrina, in quanto volta a compensare la perdita della possibilità di godimento del bene, compete unicamente all’usufruttuario, il che porterebbe, ove si perseverasse nell’errore di inquadrare le controparti come una sorta di usufruttuari, a riconfermare la pretesa degli stessi a percepire, addirittura per intero la detta indennità di occupazione.
4. Il terzo motivo del ricorso principale denuncia la violazione o falsa applicazione della L. n. 327 del 2001, art. 22 bis, comma 5 e art. 50, comma 1.
La sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare che l’indennità di occupazione costituisce una voce disunita da quella di esproprio, come confermato dalle norme indicate che consentono oggi al proprietario di conseguirla nelle more della liquidazione della seconda.
Il motivo, in disparte il richiamo a norme che risultano non direttamente applicabili al procedimento di espropriazione oggetto di causa, conclusosi con il versamento dell’indennità di espropriazione nel 2001, attiene però essenzialmente alla regolamentazione delle due indennità nei rapporti con la PA espropriante, ma non è idoneo però ad attingere validamente la diversa ratio della sentenza gravata, che, partendo dalla incensurabile interpretazione delle volontà contrattuali, ha ritenuto che le parti, a prescindere anche dalle modalità di liquidazione, avessero inteso assicurare la eguale ripartizione di entrambe le indennità (nonché degli eventuali accessori correlati al ritardo nella corresponsione), una volta naturalmente liquidate in favore di colui che formalmente risultava intestatario dei beni sottoposti al procedimento ablatorio.
Anche tale motivo deve quindi essere rigettato.
5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, dovendo invece essere compensate tra la ricorrente principale ed il ricorrente incidentale.
Nulla a disporre quanto alla parte rimasta intimata.
6. Poiché il ricorso principale e quello incidentale sono stati proposti successivamente al 30 gennaio 2013 e sono rigettati, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale; condanna la ricorrente principale al rimborso delle spese del giudizio di legittimità, in favore dei controricorrenti B.P., B.L., Bl.La., Al.Gi., M.M. e M.A. che liquida in complessivi Euro 7.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori come per legge;
condanna il ricorrente incidentale al rimborso delle spese del giudizio di legittimità, in favore delle controricorrenti B.P., B.L. che liquida in complessivi Euro 7.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori come per legge;
compensa le spese del giudizio di legittimità tra la ricorrente principale ed il ricorrente incidentale;
ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale del contributo unificato per il ricorso principale ed incidentale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 21 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021
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