LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIA Lucia – Presidente –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
Dott. ESPOSITO Lucia – rel. Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 20478/2018 proposto da:
D.B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 109, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI D’AMICO, rappresentato e difeso dagli avvocati FRANCESCO VINCENZO PAPADIA, MARIA ANTONIETTA PAPADIA;
– ricorrente –
contro
TRENITALIA S.P.A, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CLAUDIO MONTEVERDI 16, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE CONSOLO, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1851/2017 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 11/07/2017 R.G.N. 1637/2014;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 09/06/2021 dal Consigliere Dott. LUCIA ESPOSITO.
RILEVATO
Che:
La Corte d’appello di Bari confermava la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda avanzata da D.B.A., dipendente di Trenitalia s.p.a., volta ad accertare come dipendente da causa di servizio l’artrosi cervicale di cui era affetto (della quale aveva avuto consapevolezza nel *****, richiedendo l’equo indennizzo con istanza 13 febbraio 2006);
la Corte d’appello, come già prima il Tribunale, aveva posto a fondamento della decisione il rilievo in forza del quale con la L. n. 210 del 1985, istitutiva dell’Ente Ferrovie dello Stato, cui era subentrata Trenitalia s.p.a., la materia dell’equo indennizzo era stata delegificata e rimessa alla contrattazione collettiva e che con il CCNL 16 aprile 2003 l’istituto dell’equo indennizzo era stato soppresso per volontà delle parti collettive, rilevando, inoltre, che le argomentazioni del giudice di primo grado non erano state specificamente censurate, sicché la statuizione di prime cure, che la corte faceva propria, doveva essere confermata;
avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione D.B.A. con cinque motivi;
ha resistito Trenitalia S.p.a. con controricorso.
CONSIDERATO
Che:
Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 210 del 1985, artt. 1,14 e 21 e violazione di norme del CCNL, attraverso una corrispondente violazione dei criteri di ermeneutica di cui all’art. 12 preleggi e dell’art. 1362 c.c., contestando l’interpretazione della richiamata disciplina, anche contrattuale, in forza della quale i giudici di merito avevano affermato che la regolamentazione dell’equo indennizzo era stata delegificata e demandata totalmente alla disciplina pattizia, della quale rilevavano la mancata produzione da parte della società, a ciò onerata;
con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost. e del D.P.R. n. 1957, n. 3, art. 11, L. 6 ottobre 1981 e D.M. n. 1622, del 1983, rilevando che la Corte territoriale aveva ignorato le disposizioni richiamate, limitandosi a ritenere che la L. n. 210 del 1985, avesse operato la totale delegificazione delle norme e rimesso alla contrattazione collettiva la materia;
con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 118 disp att c.p.c., osservando che le motivazioni addotte dalla Corte erano apparenti, inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento;
deduce, ancora, violazione e falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c., poiché erroneamente la Corte aveva ritenuto che le argomentazioni contenute nell’atto d’appello fossero inidonee a integrare la richiesta specificità delle ragioni di censura;
deduce, infine, violazione dell’art. 2697 c.c., poiché non erano stati assolti gli oneri probatori circa le disposizioni della contrattazione collettiva che la controparte avrebbe dovuto depositare;
va affrontato per primo nell’ordine logico il motivo sub 3, del quale va rilevata l’infondatezza, perché la motivazione appare congrua e adeguata a esplicitare l’iter argomentativo a fondamento della decisione, nei termini enunciati da Cass. n. 8053 del 07/04/2014, rilevandosi che la nozione di motivazione apparente è circoscritta al caso in cui la stessa non consenta alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6 (Cass. n. 13248 del 30/06/2020);
segue, quindi, il motivo sub 4, riguardo al quale si osserva che lo stralcio dei motivi di appello riportato a confutazione della ritenuta inammissibilità dell’impugnazione per carenza di specificità non contiene alcuna argomentazione a confutazione della tesi giuridica a fondamento della decisione, quanto, piuttosto, rilievi circa i presunti oneri di produzione della contrattazione collettiva spettanti al convenuto, e, conseguentemente, deve essere confermato il giudizio di inammissibilità dell’impugnazione;
una volta confermata la decisione in punto di inammissibilità dell’appello per carenza di specificità, gli altri motivi, relativi ad argomenti di merito svolti dalla Corte ad abundantiam, restano preclusi in base al principio in forza del quale “ove il giudice, dopo avere dichiarato inammissibile una domanda, un capo di essa o un motivo d’impugnazione, in tal modo spogliandosi della “potestas iudicandi”, abbia ugualmente proceduto al loro esame nel merito, le relative argomentazioni devono ritenersi ininfluenti ai fini della decisione e, quindi, prive di effetti giuridici con la conseguenza che la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnarle, essendo invece tenuta a censurare soltanto la dichiarazione d’inammissibilità la quale costituisce la vera ragione della decisione. (Cass. n. 11675 del 16/06/2020);
sulla base delle svolte considerazioni il ricorso va complessivamente rigettato, con liquidazione delle spese secondo soccombenza;
in considerazione della statuizione, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 9 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021
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