LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LEONE Margherita Maria – Presidente –
Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –
Dott. BUFFA Francesco – Consigliere –
Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –
Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3223-2020 proposto da:
M.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell’avvocato PAOLO PANARITI, rappresentato e difeso dagli avvocati GIOVANNI BETTA, EDOARDO RIGHETTI;
– ricorrente –
contro
INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale procuratore della SOCIETA’ DI CARTOLARIZZAZIONE DEI CREDITI INPS (SCCI) SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONINO SGROI, ANTONIETTA CORETTI, CARLA D’ALOISIO, EMANUELE DE ROSE, LELIO MARITATO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 605/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 09/07/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 17/06/2021 dal Consigliere Relatore Dott. ALFONSINA DE FELICE.
RILEVATO
che:
la Corte d’appello di Bologna, a conferma della sentenza del Tribunale di Piacenza, ha rigettato l’opposizione agli avvisi di addebito notificati dall’INPS ad M.A. a titolo di versamento dei contributi dovuti alla gestione commercianti;
il M. aveva dedotto in giudizio di essere amministratore unico della società “CMZ s.r.l.” operante nel settore immobiliare, presso la quale non svolgeva attività lavorativa, nonché di essere socio delle società “AEMME s.r.l.” e ” M.P. e S.C. s.n.c.” la cui attività era gestita in conto terzi;
la Corte territoriale, richiamando Corte Cost. n. 354 del 2001, ha dichiarato dovuti i contributi sui redditi d’impresa percepiti per la partecipazione a società di persone, provati in via documentale dalle dichiarazioni dei redditi – Modello Unico relative alle annualità controverse (2010 e 2012), motivando che, per le società di persone, diversamente che per quelle di capitali, non rileva lo svolgimento dell’attività lavorativa in quanto tale;
la cassazione della sentenza è domandata da M.A. sulla base di cinque motivi, illustrati da successiva memoria;
l’INPS ha depositato tempestivo controricorso;
e’ stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di consiglio.
CONSIDERATO
che:
col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente contesta “Violazione e falsa applicazione della L. 27 novembre 1960, n. 1397, e della L. n. 88 del 1989, art. 49 – Omessa valutazione dei principi di cui alla L. 2 novembre 1960, n. 1397, e alla L. n. 88 del 1989, art. 49”; sostiene che la Società M. e S. s.n.c. non presenta le caratteristiche previste dalla legge, poiché appartiene alle società che operano nel campo industriale per le quali non è previsto nessun obbligo di iscrizione alla gestione commercianti;
col secondo motivo, ancora formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6”; l’eventuale attività lavorativa sarebbe stata di natura industriale e non commerciale, pertanto, nessun reddito utile alla maturazione dei contributi “a percentuale” avrebbe potuto determinarsi in riferimento alla partecipazione del ricorrente alla società ” M. e S. s.n.c.”;
col terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lamenta “Omesso esame di fatto storico decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”; il motivo contesta l’accertamento istruttorio svolto su base testimoniale dal giudice del merito, sempre in relazione all’erroneo accertamento dell’elemento personale, non avendo mai svolto, il ricorrente, attività lavorativa, all’interno della società ” M. e S. s.n.c.”;
col quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, contesta “Violazione e falsa applicazione della L. n. 233 del 1990, art. 1 – Omesso esame di fatto storico decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”;
lamenta che dalle testimonianze sarebbe emerso come non vi sia stata nessuna partecipazione agli utili della società e che, ai sensi della L. n. 233 del 1990, art. 1, il reddito d’impresa, imputato per trasparenza al socio, fino all’effettiva distribuzione, non genera obblighi contributivi, rimanendo all’interno della diversa sfera patrimoniale della società, soggetto giuridico distinto dalla persona fisica;
col quinto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, contesta “Violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per avere, la Corte di merito del tutto omesso le ragioni di fatto e di diritto della decisione”; denuncia la nullità della sentenza per motivazione apparente, non avendo, la Corte territoriale, argomentato in modo logico la ratio decidendi posta alla base della decisione;
il primo motivo è inammissibile, in quanto non rende intelligibile la dedotta violazione di legge;
in base a quanto stabilito dalle Sezioni Unite nella recente sentenza n. 23745 del 2020, in tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa;
la genericità della prospettazione, nella specie, non consente a questa Corte di rilevare l’asserito contrasto fra le norme violate e i passaggi argomentativi che la censura intenderebbe contestare;
il secondo motivo è infondato;
parte ricorrente non coglie la ratio decidendi del provvedimento impugnato che ha affermato, dando concreta attuazione al principio di diritto stabilito in sede di legittimità, che per le società di persone l’obbligo di contribuzione alla gestione commercianti prescinde dall’esercizio di un’attività lavorativa;
in fattispecie riguardante i redditi percepiti da un socio accomandante di una società di accomandita semplice, questa Corte ha, affermato che “Ai fini della determinazione dei contributi dovuti dagli artigiani ed esercenti attività commerciali, vanno computati anche i redditi percepiti in qualità di socio accomandante, ai sensi del D.L. n. 384 del 1992, art. 3 bis, conv. con modif. in L. n. 438 del 1992, e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 3, la cui interpretazione letterale e sistematica, avallata anche dalla Corte Cost. (sentenza 7 novembre 2001 n. 354), conduce ad includere nella base imponibile la totalità dei redditi d’impresa, fra i quali vanno considerati anche quelli delle società in accomandita semplice.”(Cass. n. 29779 del 2017);
il principio di diritto, da considerarsi ormai pacifico, ha trovato conferma nella sentenza Cass. n. 21540 del 2019, con cui si è stabilito che “Il lavoratore autonomo, iscritto alla gestione previdenziale in quanto svolgente un’attività lavorativa per la quale sussistono i requisiti per il sorgere della tutela previdenziale obbligatoria, deve includere nella base imponibile sulla quale calcolare i contributi la totalità dei redditi d’impresa così come definita dalla disciplina fiscale, vale a dire quelli che derivano dall’esercizio di attività imprenditoriale (D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55), restando esclusi i redditi di capitale, quali quelli derivanti dalla mera partecipazione a società di capitali, senza prestazione di attività lavorativa (D.P.R. n. 917 del 1986, art. 44, lett. e);
il terzo e il quarto motivo, esaminati congiuntamente per intrinseca connessione, sono inammissibili;
innanzitutto, secondo il costante orientamento di legittimità “Nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5 (applicabile, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno *****), il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (nel testo riformulato dal citato D.L. n. 83, art. 54, comma 3, ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) – deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse.”(Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 19001 del 2016; Cass. n. 5528 del 2014);
in ogni caso, va evidenziato come la deduzione dell’omesso esame di un fatto storico decisivo, qualora riferita ad elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio in parola, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Sez. Un. 8053 del 2014);
ciò è quanto avviene nei motivi da ultimo esaminati, con i quali il ricorrente si limita a denunciare la mancata valorizzazione di risultanze istruttorie che si assumono erroneamente valutate dalla Corte territoriale;
il quinto ed ultimo motivo è inammissibile;
la denuncia di motivazione apparente risulta generica; il ricorrente contesta come erroneo il riferimento giurisprudenziale posto dalla Corte territoriale a base della decisione, ma non prospetta nessuna soluzione alternativa idonea a porre in condizione questa Corte, investita quale giudice del fatto, a rilevare il denunciato error in procedendo;
secondo il supremo insegnamento di legittimità, “La Corte di cassazione, allorquando debba accertare se il giudice di merito sia incorso in “error in procedendo”, è anche giudice del fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa; tuttavia, non essendo il predetto vizio rilevabile “ex officio”, né potendo la Corte ricercare e verificare autonomamente i documenti interessati dall’accertamento, è necessario che la parte ricorrente non solo indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame, ma anche che illustri la corretta soluzione rispetto a quella erronea praticata dai giudici di merito, in modo da consentire alla Corte investita della questione, secondo la prospettazione alternativa del ricorrente, la verifica della sua esistenza e l’emenda dell’errore denunciato”(Cass. n. 20181 del 2018);
in definitiva, il ricorso va rigettato; le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
in considerazione del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 2.200,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, all’Adunanza camerale, il 17 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021