LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24361-2018 proposto da:
TELECOM ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI N. 22, presso lo studio degli avvocati ARTURO MARESCA, ROBERTO ROMEI, FRANCO RAIMONDO BOCCIA, ENZO MORRICO, che la rappresentano e difendono;
– ricorrente –
contro
C.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE n. 9, presso lo studio dell’avvocato ENRICO LUBERTO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 510/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 12/02/2018 R.G.N. 5510/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/09/2021 dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE.
RILEVATO
CHE;
1. La Corte di appello di Roma, con la sentenza n. 510/2018, in riforma della pronuncia del Tribunale della stessa sede n. 6655/2014, ha revocato il decreto ingiuntivo opposto dalla Telecom Italia spa n. 6521 del 2013 e ha condannato la società al pagamento, in favore di C.M., della somma di Euro 20.222,76 oltre interessi e rivalutazione come per legge.
2. La domanda monitoria era stata proposta perché Massimo C., ex dipendente Telecom ceduto alla ITS spa, poi SIRM spa (e da questa estromesso in data 2.1.2013), con cessione di contratto di lavoro dichiarata illegittima dal Tribunale di Roma con sentenza n. 19873 del 2012, aveva rivendicato il pagamento delle somme a titolo di mensilità di retribuzione maturate dal 29.11.2012 al 31.5.2013 nonché a titolo di rateo 13 mensilità 2012, stante il mancato ripristino del rapporto.
3. Per quello che ancora interessa in questa sede, la Corte territoriale ha escluso che il quantum dovuto al C. potesse essere oggetto dell’eccezione di aliunde perceptum sollevata da parte datoriale, relativamente alla indennità di disoccupazione erogata al lavoratore, sul rilievo che l’indennità di disoccupazione o altra analoga indennità erogata dall’INPS (come quella di mobilità), non sono detraibili perché esse non sono acquisite in via definitiva dal lavoratore, essendo ripetibili ove ne vengano meno i presupposti.
4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso Telecom Italia spa con un unico motivo, cui ha resistito con controricorso C.M..
5. Il PG non ha rassegnato conclusioni scritte.
6. Il controricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO
CHE:
1. Con l’unico motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1206,1207,1217 e 1223 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Si deduce che ai fini dell’aliunde perceptum devono essere computate anche le somme ricevute quale indennità di disoccupazione, in quanto le medesime somme rappresentano comunque un vantaggio economicamente valutabile scaturito da un presunto illecito e resosi possibile solo in ragione di tale presunto illecito. Il lavoratore, non prestando più attività lavorativa alle dipendenze di Telecom Italia s.p.a. e proprio in ragione della cessione di ramo d’azienda, ha intrattenuto il rapporto di lavoro con il cessionario, percependo a seguito della cessione di quest’ultimo rapporto, l’indennità di disoccupazione. Pertanto, le somme a tale titolo riscosse dal lavoratore, non hanno perso il loro fondamento giustificativo, risultando definitivamente acquisite al patrimonio dello stesso, così non potendo non tenersene conto in sede risarcitoria.
2. Il motivo è infondato, come già affermato da questa Corte in altri precedenti (per tutte Cass. n. 809/2021) con argomentazioni condivise da questo Collegio e che qui vanno richiamate.
3. Invero, secondo il più recente insegnamento della giurisprudenza di legittimità, il trasferimento del medesimo rapporto ai sensi dell’art. 2112 c.c. si determina solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al modello legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dalla richiamata disposizione codicistica) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), l’originario rapporto di lavoro con la cedente non si trasferisce e se ne instaura un altro in via di fatto con il destinatario della cessione e le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sull’altro rapporto lavorativo ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (cfr. Cass. 7/8/2019 n. 21161Cass. 28/2/2019 n. 5998).
4. Accanto al rapporto di lavoro quiescente con l’originaria impresa cedente, ripristinato de iure con la declaratoria giudiziale di invalidità del trasferimento, vi e’, quindi, una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d’azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro in via di fatto.
5. La questione della natura dei crediti vantati dal lavoratore per effetto del mancato ripristino del rapporto di lavoro nonostante la sentenza di accertamento della illegittimità della cessione del ramo d’azienda cui era addetto, rinviene, dunque, soluzione alla stregua del recente insegnamento delle Sezioni unite civili di questa Corte (sent. 7/2/2018, n. 2990) che ha affermato la natura retributiva e non più risarcitoria di detti crediti (come invece secondo un indirizzo precedente: Cass. 17/7/2008 n. 19740; Cass. 9/9/2014 n. 18955; Cass. 25/6/2018 n. 16694).
6. Tale pronuncia ha sancito il principio di diritto in tema di interposizione di manodopera, in base al quale ove ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni a decorrere dalla messa in mora.
7. A tale indirizzo è stato riconosciuto valore di diritto vivente dalla Corte costituzionale con la sentenza 28 febbraio 2019, n. 29, anche avuto riguardo alla fattispecie della cessione del ramo d’azienda.
8. La Corte costituzionale ha preso atto (al p.to 6.3. del Considerato in diritto) “che l’indirizzo interpretativo, indicato come diritto vivente allorché sono state proposte le questioni di legittimità costituzionale, risulta disatteso dalla suddetta pronuncia delle Sezioni unite, successiva all’ordinanza di rimessione. Tale pronuncia mira a ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto di lavoro e consente di risolvere in via interpretativa i dubbi di costituzionalità prospettati”.
9. Dalla “qualificazione retributiva dell’obbligazione del datore di lavoro moroso” il Giudice delle leggi ha tratto la conseguenza di “privare di fondamento,…, le questioni di legittimità costituzionale insorte sulla base di un’interpretazione di segno antitetico”.
10. In definitiva, alla luce delle considerazioni sinora esposte, deve affermarsi che l’unicità del rapporto venga meno, qualora, come appunto nel caso di specie, il trasferimento sia dichiarato invalido, considerata l’instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore “continui” di fatto a lavorare.
11. E’ bene al riguardo ribadire che l’unicità del rapporto presuppone la legittimità della vicenda traslativa regolata dall’art. 2112 c.c., sicché, accertatane l’invalidità, il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente, sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale.
12. Da ciò consegue che al dipendente spetta la retribuzione sia se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti (Cass. 23/11/2006, n. 24886; Cass. 23/7/2008, n. 20316), perché, una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di quest’ultimo rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare la controprestazione retributiva (cfr. Cass. 24/6/2020 n. 12442 in motivazione).
13. Una volta sancita la natura retributiva delle somme da erogarsi dal cedente inadempiente al comando giudiziale, ed escluso che la richiesta di pagamento del lavoratore abbia titolo risarcitorio, non trova, quindi, applicazione il principio della compensatio lucri cum damno su cui si fonda la detraibilità dell’aliunde perceptum o percipiendum dal risarcimento e, quindi, di detraibilità delle somme che il lavoratore, a qualunque titolo, avrebbe percepito o potuto percepire con l’ordinaria diligenza, non è dato parlare.
14. Tra l’altro, l’indennità di disoccupazione non è detraibile, in quanto ‘non sono deducibili a titolo di aliunde perceptum le somme che traggono origine dal sistema di sicurezza sociale che appronta misure sostitutive del reddito in favore del lavoratore, la cui eventuale non spettanza dà luogo ad un indebito previdenziale ripetibile, nei limiti di legge, dall’Inps (vedi Cass. 27/3/2017 n. 7794, Cass.18/4/2017 n. 9724, Cass. 8/3/2018 n. 14135).
15. Quanto al regime delle spese applicabile, l’orientamento solo di recente espresso dalla giurisprudenza di legittimità sulla tematica delibata, sottesa alla questione di cui al presente giudizio, che ha sovvertito quello in precedenza consolidatosi, ne consiglia la compensazione.
16. Le stesse ragioni inducono a non ritenere sussistenti, altresì, i requisiti dell’elemento soggettivo (mala fede o colpa grave) ed oggettivo (entità del danno sofferto) per ravvisare il carattere della temerarietà della lite ex art. 96 c.p.c. (oggetto di domanda da parte del controricorrente con la memoria), costituito dalla coscienza della infondatezza della domanda e delle tesi sostenute ovvero nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta consapevolezza (Cass. n. 9579/2000).
17. Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 14 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2021
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