Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.33367 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14665-2019 proposto da:

ISTITUTO VIGILANZA PRIVATA A.N. C.R. S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO ANDRONICO;

– ricorrente –

contro

– C.F., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato FEDERICO BIZZINI;

– S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PAOLO DI DONA 3/A, presso lo studio degli avvocati PAOLO DE BERARDINIS e VINCENZO MOZZI, rappresentato e difeso dall’avvocato CLAUDIO ZAMBRANO;

– A.D., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MASSIMO PANTANO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 235/2019 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 01/03/2019 R.G.N. 915/2017 + altre;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/06/2021 dal Consigliere Dott. LEONE MARGHERITA MARIA;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO RITA ha depositato conclusioni scritte.

FATTI DI CAUSA

La Corte di appello di Catania con la sentenza n. 235/2019 aveva accolto il reclamo e parzialmente riformato la decisione del tribunale, annullando i licenziamenti intimati a S.M., C.F. e A.D. ed aveva condannato la società Istituto di Vigilanza Privata A.N. C.R. srl a reintegrare i predetti nel posto di lavoro ed a pagare agli stessi un risarcimento del danno pari a sei mensilità commisurate all’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori.

La Corte aveva invece rigettato il reclamo proposto da T.A.. All’esito della valutazione delle risultanze istruttorie il Giudice del gravame aveva ritenuto che la contestazione mossa dalla società ai dipendenti S., C. e A., relativa all’allontanamento, in più giornate, dal posto di lavoro cui erano preposti quali guardie giurate per recarsi al bar o al tabaccaio, non fosse fondata.

In particolare, con riguardo alla posizione del C. rilevava che la contestazione di allontanamento/abbandono dal posto di lavoro fosse non coincidente con l’orario di lavoro in quanto non era ipotizzabile il contestato abbandono nel lasso di tempo anteriore (7.56) all’inizio del servizio (fissato alle ore 8.00). Alcun abbandono era dunque ipotizzabile, ma, al piu,’ un ritardo nell’inizio del servizio (circostanza, questa, estranea alla contestazione).

Con riferimento a S. ed all’ A. la Corte d’appello rilevava la inutilizzabilità della attività di vigilanza compiuta, accertativa dell’allontanamento, in quanto non comunicati i nominativi e le mansioni dei vigilanti in violazione della L. n. 300 del 1970, art. 3.

In modo differente era valutata la posizione del lavoratore T. il cui allontanamento durante il turno di lavoro era stato riscontrato dal superiore gerarchico S. che lo aveva incontrato personalmente nel mercato rionale, in divisa, ad effettuare acquisti. Nei suoi confronti il licenziamento era stato ritenuto legittimo in quanto provato l’abbandono del posto di lavoro.

Avverso tali decisioni l’Istituto di Vigilanza Privata proponeva ricorso affidato a 5 motivi cui resistevano con differenti controricorsi i lavoratori C., A. e S..

L’Ufficio del Procuratore generale depositava memoria concludendo per il rigetto del ricorso.

La società depositava memoria successiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1)- Con il primo motivo la società denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 3; artt. 2104,216 e 2697 c.c., dolendosi della errata interpretazione di tale disposizione in quanto richiamata in riferimento ad una fattispecie non inerente il controllo da parte di agenti di vigilanza, ma svolto attraverso la catena gerarchica dei dipendenti della società.

2) Con il secondo motivo è censurata la violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3 e art. 2697 c.c., circa l’acquisizione dei fatti posti a base del licenziamento (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 omesso esame di un fatto decisivo). La società lamenta l’errata valutazione circa l’oggetto dei controlli (attività lavorativa), a suo dire non sufficientemente avvalorata dalla motivazione della Corte di appello.

I due motivi possono essere trattati congiuntamente poiché coinvolgono, per differenti profili, la lettura ed applicazione della L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3, fatta dal giudice d’appello. Correttamente quest’ultimo ha declinato le disposizioni contenute nelle richiamate norme con riguardo ai limiti al potere di controllo datoriale; la Corte ha infatti individuato nella informativa sui nominativi dei soggetti incaricati di vigilare e nel contenuto del controllo, gli esatti termini della potestà datoriale.

In concreto ha accertato che non erano stati comunicati i nominativi degli agenti, che la società non aveva mai riferito che a controllare fossero i superiori gerarchici e che i controlli avevano riguardato l’espletamento dell’attività di lavoro.

Rispetto a tali valutazioni, ancorate alle risultanze istruttorie, le attuali doglianze risultano prive di sufficiente specificazione poiché non corredate dalla indicazione chiara degli elementi fattuali che, introdotti nel processo (dove e quando), avrebbero potuto inficiare la determinazione assunta della Corte di merito. I motivi sono pertanto inammissibili.

3) Con il terzo motivo è dedotta la violazione degli artt. 112 e 339 e segg. c.p.c., per aver, la Corte di merito, basato la decisione su un elemento non proposto dai lavoratori in sede di appello (inutilizzabilità degli accertamenti acquisiti). Sostiene la società la violazione del principio tantum devolutum quantum appellatum poiché i lavoratori avevano solo allegato la insufficienza degli elementi acquisiti e non la loro inutilizzabilità.

Deve rilevarsi che la Corte territoriale, nel motivare la sua decisione, riporta i motivi del gravame proposto dai lavoratori in cui è specificamente richiamata la inutilizzabilità per la mancata comunicazione dei nominativi e delle mansioni degli addetti alla vigilanza.

A fronte di tale specificazione le differenti prospettazioni contenute nelle doglianze risultano quindi in contrasto con la narrativa della Corte e prive di un diverso riscontro, restando indimostrate in quanto non accompagnate dal contenuto degli atti da cui dedurre l’ultrapetizione.

4) Con il quarto motivo è lamentata la violazione e/o errata applicazione delle disposizioni in tema di prova orale poiché, se pur non utilizzabili gli accertamenti svolti in sede di attività di vigilanza, gli stessi avrebbero potuto essere utilizzati attraverso le testimonianze confermative rese.

La censura è infondata poiché l’ammissione di una prova testimoniale su fatti accertati con modalità non consentita costituirebbe una modalità utile ad aggirare le specifiche disposizioni contenute nella L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3. Tali disposizioni definiscono l’ambito entro il quale possono articolarsi i controlli in questione; in particolare l’art. 3, che qui interessa, dispone che i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa devono essere comunicati ai lavoratori interessati. La Corte territoriale, richiamando i principi espressi sul punto dal Giudice di legittimità, (Cass. n. 3960/81; Cass. n. 7455/91; Cass. n. 7933/98), ha riaffermato la necessità della previa comunicazione richiesta dalla disposizione (da ultimo Cass. n. 21888/2020) escludendo, in concreto, che nel caso in esame fosse stata effettuata. Rispetto a tale accertamento di merito, indicativo della violazione della disposizione richiamata, nessun effetto “compensativo” o “sostitutivo” della comunicazione potrebbe assumere una eventuale prova testimoniale in quanto comunque in contrasto con la previsione di legge. Il motivo è pertanto da rigettare.

5) Con ultima censura è denunciata la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, con riguardo al lavoratore C. ed alla valutazione circa la erronea ed incongruente contestazione riferita ad un tempo/orario (7.56) in cui il lavoratore non era in servizio.

Parte ricorrente assume che la contestazione, se pur non correttamente esplicitata, riguarderebbe comunque, a diverso titolo, lo stesso oggetto (abbandono posto lavoro dalle ore 8.00 in poi) e dunque non sarebbe incongrua.

La Corte di merito ha ben spiegato che, a fronte di un turno di lavoro con inizio alle ore 8,00, risultava priva di fondamento la contestazione di abbandono del posto di lavoro riferita alle ore 7,56. La valutazione è pienamente condivisibile poiché assente il fatto materiale contestato. Quanto alla diversa ipotesi di ritardo nell’inizio della prestazione questa Corte anche di recente ha ribadito che “In tema di licenziamento disciplinare, il principio di immutabilità della contestazione attiene al complesso degli elementi materiali connessi all’azione del dipendente e può dirsi violato solo ove venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze di fatto nuove o diverse rispetto a quelle contestate, così da determinare una concreta menomazione del diritto di difesa dell’incolpato” (Cass. n. 11540/2020).

Nel caso in esame la contestazione riferita ad un momento in cui non era ancora iniziato il turno di lavoro deve ritenersi ultronea ed estranea al potere disciplinare del datore di lavoro, mentre la differente ipotesi di ritardo, oltre che di minore rilievo disciplinare e dunque punibile, secondo previsione contrattuale con la sanzione conservativa della multa, non ha trovato esito nel processo, così non consentendo al lavoratore specifica possibilità di difesa.

Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

Le spese seguono il principio della soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in E.4.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per spese oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge, in favore di ciascun controricorrente.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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