LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 16602/2016 proposto da:
CONSORZIO STABILE IMPRESE TERZIARIO INNOVATIVO TERIN, IN PERSONA DEL LEGALE RAPP.TE PRO TEMPORE, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA’, 20, presso lo studio dell’avvocato MAURO VAGLIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato VITTORIO PICECI;
– ricorrente –
contro
BE THINK SOLVE EXECUTE SPA, IN PERSONA DELL’AMM.RE DELEGATO E LEGALE RAPP.TE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 267, presso lo studio dell’avvocato LUCA SAVINI ZANGRANDI, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 403/2016 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 18/04/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 15/04/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.
FATTO E DIRITTO
ritenuto che la vicenda, per quale che qui ancora rileva, può riassumersi nei termini seguenti:
– la s.p.a. Data Service (poi rinominata Bee Team s.p.a. e attualmente Bee Think, Solve, Execute s.p.a.) propose opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale in favore del Consorzio Stabile Imprese Terziario Innovativo – Terin, con il quale le era stato ingiunto il pagamento della complessiva somma di Euro 352.000,00, oltre interessi di mora maturati e maturandi pari al TU più 3 punti percentuali, oltre accessori;
– l’opponente aveva dedotto che l’importo non era dovuto poiché l’opposta, che si era obbligata per contratto alla fornitura di un prodotto informatico, frutto di analisi, progettazione e realizzazione del software, costituito da 2.000 unità di FP (punti funzione), al prezzo unitario di Euro 200,00, per un totale, quindi, di Euro 400.000,00 oltre IVA, aveva fornito FP di “complessità inferiore”, con un valore unitario, che era da determinarsi in Euro 125,00 e che le unità non potevano numerarsi in 3.150 (come indicato in ricorso), e, a maggior ragione, in 5.630, come preteso nelle missive stragiudiziali, bensì, come da contratto, in 2.000, poiché la fornitura era da intendersi a corpo, restando a carico dell’opposta l’esubero della lavorazione; dall’ammontare di Euro 250.000,00 andava sottratto quanto speso dall’opponente per gli interventi per eliminare i riscontrati vizi, ammontante a Euro 63.900,00 e poiché era già stata versata la somma di Euro 340.000,00, l’opponente aveva chiesto che le fossero restituite Euro 163.900,00, o, in subordine Euro 15.975,00, ove si fosse inteso ricalcolare il numero delle FP in 3.109;
– il Consorzio, oltre al rigetto dell’avverse pretese, in via riconvenzionale, aveva domandato che l’opponente fosse condannata al pagamento degli interessi convenzionali nella misura del TUS più 3 punti percentuali per il ritardo nel pagamento, nonché al pagamento della somma di Euro 1.130.200,00 per n. 5.651 F.P. realizzate, al costo unitario di Euro 200,00, importo dal quale andava detratta la somma di Euro 268.320,00 già corrisposta per sorte capitale e IVA, oltre interessi, oltre ancora a Euro 124.858,00 per i servizi richiesti;
– il Tribunale di Brindisi, revocato il decreto ingiuntivo, condannò l’opponente a corrispondere al Consorzio la somma di Euro 906.000,00, oltre agli interessi nella chiesta misura dalla scadenza delle fatture prodotte e dalla domanda per i maggiori importi riconosciuti in giudizio; condannò, inoltre, l’opposta al pagamento della somma di Euro 20.000,00 ai sensi dell’art. 96 c.p.c.;
– la Corte d’appello di Lecce rigettò l’impugnazione avanzata dal Consorzio, il quale, con i primi due motivi, aveva lamentato che il Giudice di primo grado aveva omesso di pronunciarsi sulla domanda di condanna al pagamento degli interessi moratori nella misura convenzionale in relazione alle fatture tardivamente pagate ed erroneamente reputato che l’appellante avesse rinunziato in corso di causa al pagamento degli FP nel maggior numero di 5651; infine rigettò la doglianza con la quale l’appellante aveva lamentato la quantificazione in sole Euro 20.000,00 l’ammontare del danno per lite temeraria, che era stata chiesta nella ben maggiore misura di Euro 520.000,00;
– la Corte d’appello disattendeva i primi due motivi qualificando come nuove le relative domande proposte dall’opposta, la quale, attrice in senso sostanziale, “non può avanzare domande diverse da quelle fatte valere con l’ingiunzione”, essendo consentito di derogare a tale principio solo laddove per effetto di una “riconvenzionale” l’opposto abbia necessità di proporre una “reconventio reconventionis”; alla luce dell’affermato principio doveva reputarsi tardiva la domanda riconvenzionale di pagamento degli interessi convenzionali riguardanti fatture pagate in ritardo, che non avevano formato oggetto della richiesta monitoria; del pari tardiva era da considerarsi la domanda riconvenzionale di pagamento di FP ulteriori rispetto a quelli per i quali era stata richiesta l’ingiunzione; disattendeva, inoltre, il terzo motivo, giudicando non provato il maggior danno ipotizzato;
ritenuto che l’insoddisfatta appellante ricorre avverso la sentenza d’appello sulla base di due articolati motivi, che la controparte resiste con controricorso e che entrambe le parti hanno depositato memorie illustrativa;
ritenuto che con il primo motivo la ricorrente prospetta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 167 c.p.c., art. 183 c.p.c., comma 5 e art. 645 c.p.c.; nonché nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli artt. 112,113,132,156 c.p.c., motivazione omessa, inesistente o apparente, in relazione all’art. 167 c.p.c., art. 183 c.p.c., comma 5, art. 645 c.p.c., comma 2; nonché omesso esame di un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, assumendo che:
– il Tribunale aveva riconosciuto alla ricorrente il diritto al pagamento di 4.533 F.P., a fronte dei soli 1.467 di cui al decreto ingiuntivo e ai 1.683 a suo tempo pagati dalla controparte e sul punto, in mancanza di appello, si era formato il giudicato, e negato il pagamento per la maggior quantità di 5651 unità, avendo affermato erroneamente che vi fosse stata rinuncia al pagamento dei dispositivi eccedenti il numero di 4533; la Corte d’appello, affermando la novità della domanda, non aveva preso in esame la richiesta di pagamento di tutti i 5651 dispositivi prodotti; la “reconventio reconventionis” trovava piena giustificazione nell’opposizione al decreto ingiuntivo con domanda riconvenzionale proposta dalla opponente, stante che con quell’atto si era eccepito che il contratto prevedeva pagamento a corpo e non a misura, si contestava la quantità dei punti funzione, nonché il coefficiente di complessità, e perciò si chiedeva il ricalcolo quantitativo e qualitativo, con conseguente riduzione del singolo prezzo e della complessiva fornitura, si chiedeva, infine, il rimborso di spese sostenute per l’eliminazione di vizi;
– l’opponente, in conclusione aveva ampliato “enormemente il tema di indagine oggetto del giudizio estendendolo all’accertamento della “natura del contratto”, all’accertamento qualitativo, quantitativo ed alla valutazione estimativa della “intera fornitura del contratto””, nonché, all’accertamento di vizi e al risarcimento del danno;
– in conformità ai principi enunciati in materia dalla Cassazione, nel rispetto dell’art. 183 c.p.c., la ricorrente aveva esercitato a pieno titolo il proprio diritto allo “ius variandi”, giustificato dalle altrui nuove domande;
– ove poi, come nella specie, l’opponente ponga un ulteriore tema d’indagine, le difese della controparte, del tutto giustificate, neppure potrebbero inquadrarsi nel perimetro della “reconventio reconventionis”;
– analogamente, reputa il ricorrente, debba ragionarsi a riguardo della domanda per gli interessi convenzionali di mora per le fatture pagate in ritardo;
– infine, il motivo affrontata la declaratoria di rinuncia sul punto di domanda del primo Giudice, ne sostiene l’illegittimità;
considerato che la doglianza non può essere accolta, valendo quanto segue:
a) al contrario di quel che afferma la ricorrente l’opponente con l’atto di opposizione non allargò il tema della decisione, così da giustificare quella che la ricorrente qualifica “reconventio reconventionis”, stante che l’opposizione, lungi dal prospettare un titolo o anche solo una vicenda alternativa, si era incentrata nella contestazione del numero degli FP da pagare, della loro qualità, e, quindi, del loro prezzo individuale e nella richiesta di danni pretesamente procurati dai vizi dai quali i prodotti sarebbero stati affetti;
b) di conseguenza correttamente nuova, e come tale inammissibile, risulta essere stata giudicata la domanda con la quale l’opposta aveva avanzato la pretesa di veder condannata l’opponente al pagamento di un numero di FP superiore a quello esposto nella domanda d’ingiunzione e rispetto all’ancor maggiore quantitativo riconosciuto dalla sentenza del Tribunale (non appellata dall’opponente) e, a fortiori, nuova la domanda con la quale la odierna ricorrente aveva chiesto condannarsi la controparte agli interessi, a riguardo di forniture le cui fatture erano state pagate e a riguardo del corrispettivo delle quali non era stata chiesta ingiunzione, dovendo trovare applicazione il principio enunciato da questa Corte a S.U. (sentenza n. 26128/2010);
c) come si è visto la ricorrente insiste nel sostenere che il Tribunale avrebbe errato nel reputare rinunziata la domanda nuova dell’opposta; ovviamente, il vaglio della critica in parola è precluso dal giudizio d’inammissibilità di essa domanda espresso dalla Corte d’appello, nel legittimo esercizio di potere officioso;
ritenuto che con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 96,112 e 114 c.p.c., in reazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; nullità della sentenza o del procedimento in relazione agli artt. 112,113,132 e 156 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4; nonché omesso esame di un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, assumendo che la Corte locale aveva errato a confermare l’entità del danno da lite temeraria nella ridotta misura determinata dal Tribunale, senza tenere conto del fatto che la controparte aveva resistito e agito in giudizio nella piena consapevolezza di avere torto e al solo fine di ritardare il proprio adempimento; che i danni procurati erano stati evidenziati già con la memoria autorizzata dal Tribunale e la condotta temeraria, sintetizzata nella comparsa conclusionale d’appello; che, avendo la controricorrente ingiustamente “tesoreggiato” per circa dodici mesi la somma di Euro 352.000,00 e per circa quarantasette mesi l’ulteriore somma di Euro 331.920,00, la quantificazione nella misura deliberata era ben lungi dal remunerare il danno patito;
ritenuto che il motivo non supera lo scrutinio d’ammissibilità per il concorrere di una pluralità di convergenti ragioni:
a) l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (si rimanda alla sentenza delle S.U. n. 8053/2014);
b) con l’esposta doglianza la ricorrente, peraltro sulla base di pretesi elementi fattuali qui non conoscibili (le durate degli inadempimenti), mira a un improprio riesame di merito; a una critica inammissibilmente diretta al controllo motivazionale, in quanto, la deduzione del vizio di violazione di legge non determina, per ciò stesso, lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, occorrendo che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente (da ultimo, S.U. n. 25573, 12/11/2020, Rv. 659459);
considerato che le spese legali debbono seguire la soccombenza e che le stesse possono liquidarsi siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle attività espletate;
considerato che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte della ricorrente, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021
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