LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. TEDESCO Giovanni – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 4147-2019 proposto da:
F.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COLA DI RIENZO 180, presso lo studio dell’avvocato CARMELA SALVO, e rappresentata e difesa dall’avvocato GIUSEPPE PAVONE giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
D.G., D.C., rappresentate e difese dall’avvocato ANGELO VITARELLI giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 1028/2018 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 20/11/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/06/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie depositate dalle parti.
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE F.A.M. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Messina F.A. al fine di procedere allo scioglimento della comunione esistente sull’immobile sito in *****.
Si costitutiva la convenuta che insisteva sulla non comoda divisibilità del bene, chiedendone l’attribuzione per l’intero.
Il Tribunale, con sentenza non definitiva del 4/11/2015, dichiarava che l’attrice aveva diritto allo scioglimento della comunione e con separata ordinanza rimetteva la causa in istruttoria affinché il CTU predisponesse un progetto con l’individuazione delle due porzioni da attribuire ad ognuna delle condividenti.
Quindi, con sentenza definitiva del 2/8/2016, il Tribunale approvava il progetto redatto dall’ausiliario e disponeva che si procedesse all’attribuzione delle quote mediante sorteggio, ponendo le spese di CTU a carico della massa e le residue spese a carico della convenuta.
Avverso tale sentenza proponeva appello F.A. e la Corte d’Appello di Messina, nella resistenza di D.C. e D.G., quali eredi di F.A.M., con la sentenza n. 1028 del 20/11/2018, rigettava il gravame, condannando l’appellante anche al rimborso delle spese del grado di appello.
Quanto al primo motivo che contestava l’erroneità della sentenza definitiva nella parte in cui aveva affermato che già con la sentenza non definitiva era stato accertato il diritto dell’attrice di procedere alla divisione in natura, la Corte distrettuale riteneva che sebbene il dispositivo avesse solo dichiarato il diritto allo scioglimento della comunione, nella motivazione era stato chiaramente individuato il modo con il quale procedere in tal senso, sicché il supplemento di CTU era stato disposto al limitato fine di individuare le concrete porzioni da attribuire.
Poiché per stabilire la portata precettiva di una decisione bisogna non arrestarsi al solo dispositivo, ma verificare ance le enunciazioni contenute nella motivazione, il riscontro di entrambi permetteva di affermare che effettivamente la problematica della divisibilità in natura era stata esaminata e risolta con la pronuncia non definitiva che non era stata oggetto di impugnazione.
Peraltro, la sentenza definitiva si era limitata ad assegnare le due porzioni, quali individuate dal CTU, sebbene in motivazione avesse ribadito le ragioni che facevano propendere per la divisione in natura.
Infatti, quanto al costo dei lavori necessari ad assicurare la formazione di porzioni suscettibili di autonomo godimento, il CTU aveva indicato le opere da eseguire con un’indicazione di massima dei relativi costi, ipotizzando un esborso pari a circa il 10% del valore degli immobili, e quindi con un’incidenza limitata e coerente con l’affermazione circa la divisibilità in natura.
Ne’ poteva addursi l’incremento di valore del bene intervenuto nella more del giudizio, atteso che il progetto prevedeva due quote di valore pressoché corrispondente e che non richiedevano il versamento di conguagli, di modo che ogni incremento di valore riferito all’unità immobiliare nel suo complesso era destinato a riverberarsi anche sul valore delle due quote oggetto di frazionamento.
Quanto al terzo motivo che investiva l’erronea affermazione della natura definitiva della sentenza, rilevava la Corte che la sentenza che approva il progetto di divisione ha natura definitiva, giacché risolve tutte le questioni relative alla divisione.
Infine, era incensurabile anche il capo concernente la condanna alle spese che erano state poste a carico della massa, quanto a quelle di CTU, in quanto sostenute nell’interesse comune dei condividenti, ed a carco della convenuta per il resto, atteso la sua ingiustificata opposizione alla richiesta di addivenire alla divisione in natura, il tutto sulla base dello scaglione corrispondente al valore della massa, e secondo parametri più vicini ai minimi tariffari che a quelli medi.
F.A. ha proposto ricorso avverso la sentenza di appello sulla base di quattro motivi.
D.G. e D.C. hanno resistito con controricorso.
Le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.
Il primo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza ex art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., artt. 111 e 24 Cost., laddove si è affermato che già la sentenza non definitiva del Tribunale avesse statuito in merito alla divisibilità in natura del bene comune.
Si evidenzia che ad opinare in tal modo sarebbe del tutto incomprensibile il motivo per il quale è stato disposto un supplemento di CTU.
Il secondo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza ex art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., artt. 111 e 24 Cost., nella parte in cui la sentenza definitiva ha ritenuto che fosse da approvare il progetto di divisione in natura alla luce delle osservazioni e delle conclusioni dell’ausiliario d’ufficio. Tuttavia, la sentenza ha omesso di motivare in merito ai rilievi pur svolti dal CTU che aveva evidenziato come il frazionamento avrebbe modificato l’attuale conformazione del bene (il bene indiviso ha una tipologia di locale a salone, mentre le due unità frazionate assumono una tipologia di locale a corridoio). Ancora i due locali si differenziano anche per il fatto che uno è privo di aperture ed il valore delle due unità ricavate dalla divisione nell’insieme è inferiore al valore del bene unitariamente considerato.
Il terzo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza ex art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., art. 111 e 24 Cost., nella parte in cui si è affermato che la sentenza che approva il progetto di divisione abbia carattere definitivo, atteso che la sentenza impugnata in appello non aveva risolto alcuna contestazione tra le parti ed aveva anzi creato i presupposti per l’insorgere di ulteriori controversie.
Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 113 c.p.c. e del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sostenendosi che una volta riscontrata la nullità della sentenza impugnata in ragione dell’accoglimento dei primi tre motivi di ricorso, risulterà erronea la soccombenza della ricorrente e la sua condanna al versamento del raddoppio del contributo unificato.
In premessa, e tenuto conto del vizio denunciato con i primi tre motivi di ricorso, deve ricordarsi che ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo introdotto dalla L. n. 134 del 2012, il vizio di motivazione denunciabile è limitato all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione fra le parti, essendo stata così sostituita la precedente formulazione (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio). La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata (a prescindere dal confronto con le risultanze processuali). Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. S.U. 8053/2014). Pertanto, non possono essere sollevate doglianze per censurare, ai sensi dell’art. 360, n. 5 citato, la correttezza logica del percorso argomentativo della sentenza, a meno che non sia denunciato come incomprensibile il ragionamento ovvero che la contraddittorietà delle argomentazioni si risolva nella assenza o apparenza della motivazione (in tal caso, il vizio è deducibile quale violazione della legge processuale ex art. 132 c.p.c.).
Peraltro, ed in relazione ai primi due motivi, va evidenziato che, anche a voler ammettere la conversione del motivo proposto nella censura di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la stessa sarebbe inammissibile ex art. 348-ter c.p.c., u.c., avendo la sentenza d’appello confermato quella di primo grado sulla scorta delle stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto come decise in primo grado.
Quanto al primo motivo, va evidentemente esclusa la ricorrenza dell’anomalia motivazionale come denunciata, atteso che la sentenza impugnata, facendo richiamo alla costante giurisprudenza di questa Corte, a mente della quale (Cass. n. 21165/2019) l’interpretazione della portata del giudicato, sia esso interno od esterno, va effettuata alla stregua di quanto stabilito nel dispositivo della sentenza e nella motivazione che la sorregge, potendo farsi riferimento, in funzione interpretativa, alla domanda della parte solo in via residuale (conf. tra le più recenti, Cass. n. 19252/2018), ha rilevato che la sentenza non definitiva del Tribunale non si era limitata ad affermare il diritto a chiedere lo scioglimento della comunione in capo all’attrice, ma aveva altresì vagliato la concreta fattibilità della divisione in natura, avendo demandato al CTU il compito solo secondario di meglio descrivere le due porzioni da attribuire alle condividenti, ma sul presupposto che in ogni caso si dovesse addivenire ad un frazionamento in natura del bene indiviso.
Il motivo deve pertanto essere rigettato.
Del pari infondato si palesa il secondo motivo di ricorso, in quanto, ancorché per effetto del giudicato sceso sull’affermazione di comoda divisibilità in natura a causa della mancata impugnazione della sentenza non definitiva del Tribunale, inteso solo a contrastare la concreta individuazione delle due porzioni immobiliari, deve anche in tal caso escludersi la ricorrenza dell’anomalia motivazionale come sopra individuata.
Peraltro, deve ricordarsi che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 3635/2007) in tema di divisione giudiziale di compendio immobiliare ereditario, l’art. 718 c.c., il quale riconosce a ciascun coerede il diritto di conseguire in natura la parte dei beni a lui spettanti con le modalità stabilite nei successivi artt. 726 e 727 c.c., trova deroga, ai sensi dell’art. 720 c.c., non solo nel caso di mera “non divisibilità” dei beni, ma anche in ogni ipotesi in cui gli stessi non siano “comodamente” divisibili, situazione, questa, che ricorre nei casi in cui, pur risultando il frazionamento materialmente possibile sotto l’aspetto strutturale, non siano tuttavia realizzabili porzioni suscettibili di formare oggetto di autonomo e libero godimento, non compromesso da servitù, pesi o limitazioni eccessive, e non richiedenti opere complesse o di notevole costo, ovvero porzioni che, sotto l’aspetto economico-funzionale, risulterebbero sensibilmente deprezzate in proporzione al valore dell’intero (conf. Cass. n. 25888/2016).
Ma va altresì ricordato che (Cass. n. 12406/2007) la non comoda divisibilità di un immobile, integrando un’eccezione al diritto potestativo di ciascun partecipante alla comunione di conseguire i beni in natura, può ritenersi legittimamente predicabile solo quando risulti rigorosamente accertata la ricorrenza dei suoi presupposti, costituiti dalla irrealizzabilità del frazionamento dell’immobile, o dalla sua realizzabilità a pena di notevole deprezzamento, o dalla impossibilità di formare in concreto porzioni suscettibili di autonomo e libero godimento, non compromesso da servitù, pesi o limitazioni eccessivi (conf. Cass. n. 14577/2012; Cass. n. 16918/2015).
Il giudice di merito, con valutazione condivisa sia in primo che in secondo grado, ha reputato che il pur riscontrato deprezzamento delle unità scaturenti dal frazionamento rispetto al bene ancora in comunione, fosse limitato e comunque rientrante in un margine di tollerabilità in ragione della esigenza di assicurare la divisione in natura, essendosi del pari reputati contenuti i costi necessari per addivenire al frazionamento materiale, avuto riguardo in particolare all’elevato valore del bene (ubicato in una nota località turistica siciliana, particolarmente appetita dal punto di vista commerciale).
In tal senso deve altresì richiamarsi il principio affermato da questa Corte per cui (Cass. n. 1738/2002) la verifica della comoda divisibilità di un immobile, sotto l’aspetto strutturale, nel senso che il frazionamento del bene sia attuabile mediante determinazione di quote concrete suscettibili di autonomo e libero godimento, e sotto l’aspetto economico – funzionale, nel senso che la divisione consenta il mantenimento, sia pure in misura proporzionalmente ridotta, della funzionalità che aveva il tutto e non comporti un sensibile deprezzamento del valore delle singole quote rapportate proporzionalmente al valore dell’intero, tenuto conto della normale destinazione ed utilizzazione del bene stesso, implica un accertamento di fatto così che la conseguente decisione è incensurabile in sede di legittimità, salvo che sotto i profili della mancanza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione (non denunciabili sia per la mutata formulazione della norma, sia in ragione dell’applicabilità alla fattispecie della previsione di cui all’art. 348 ter c.p.c.).
Va rigettato altresì il terzo motivo di ricorso, avendo la Corte d’Appello, con motivazione in ogni caso esente dai vizi di forma denunciati in motivo, ribadito il tradizionale principio secondo cui (Cass. n. 15466/2016) la sentenza che approva il progetto di divisione e dispone il sorteggio dei lotti ha natura definitiva quanto alla domanda di scioglimento della comunione, giacché risolve tutte le questioni ad essa relative, senza che assuma contrario rilievo l’omessa pronuncia sulle spese di giudizio, non potendosi sovrapporre alla considerazione che effettivamente la sentenza in esame chiude ogni contestazione sul diritto alla divisione il personale convincimento della ricorrente secondo cui la soluzione adottata sarà foriera in futuro di incomprensioni tra gli assegnatari delle quote.
Il quarto motivo, evidentemente formulato sull’auspicato presupposto della cassazione della sentenza gravata, va disatteso, alla luce del rigetto dei primi tre motivi di ricorso.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al T.U.di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore delle controricorrenti che liquida in complessivi Euro 4.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021
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