Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.33506 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8846-2020 proposto da:

D.R.I., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE, 38, presso lo studio dell’avvocato MARIA LUCIA SCAPPATICCI, rappresentata e difesa all’avvocato SERGIO CAMPISE;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI CATANZARO, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata ope legis in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato SABRINA ANTONELLA CAGLIOTI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 963/2019 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 28/08/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non partecipata del 10/06/2021 dal Consigliere Relatore Dott. DI PAOLANTONIO ANNALISA.

RILEVATO

che:

1. la Corte d’Appello di Catanzaro ha respinto l’appello di D.R.I. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato la domanda, proposta nei confronti dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro di risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, asseritamente derivati dagli ordini di servizio del 7 e del 25 luglio 2008, illegittimi in quanto ispirati da intenti vessatori e lesivi della professionalità del dirigente medico;

2. la Corte territoriale, riassunti i fatti di causa, ha evidenziato che l’ordine di servizio del 7 luglio, con il quale la D.R. era stata assegnata ai turni del Pronto Soccorso, non aveva valore punitivo né impediva all’appellante di esercitare le prerogative afferenti il suo ruolo di dirigente responsabile del SUEM 118;

3. ha aggiunto che legittimamente l’azienda aveva provveduto in data 25 luglio alla sostituzione temporanea della dirigente, perché quest’ultima era rimasta assente per malattia in maniera continuativa fino al dicembre dell’anno successivo;

4. infine ha rilevato che non si potevano trarre argomenti utili alla tesi dell’appellante dalla sentenza penale di condanna del direttore sanitario per il reato di cui all’art. 589 c.p., in quanto relativa a vicenda del tutto diversa da quella oggetto di causa;

5. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Italia D.R. sulla base di due motivi, ai quali ha opposto difese l’Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro con tempestivo controricorso;

6. la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata notificata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di Consiglio non partecipata;

7. la ricorrente ha depositato memoria.

CONSIDERATO

che:

1. il primo motivo del ricorso denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione del CCNL 8 giugno 2000, art. 3 e art. 15 quinquies, comma 1 bis, per la dirigenza sanitaria, professionale, tecnica ed amministrativa del comparto sanità, del D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 15, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 13, comma 3, del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 63, dell’art. 2103 c.c., degli artt. 1418 e 1419c.c., degli artt. 23 e 97 Cost., dell’art. 2087 c.c. e addebita, in sintesi, alla Corte territoriale di non avere considerato il quadro normativo alla luce del quale la vicenda andava esaminata e di avere ritenuto legittimi gli ordini di servizio con i quali era stato impedito alla D.R. di assolvere in via esclusiva l’incarico dirigenziale che le era stato assegnato con il contratto individuale di lavoro sottoscritto il 9 maggio 2008;

2. il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti nonché la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell’art. 2087 c.c., del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 54 e 55;

3. il primo motivo di ricorso è inammissibile perché, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge, censura l’accertamento di fatto compiuto dalla Corte territoriale che, come riportato nello storico di lite, ha escluso sia l’intento vessatorio e punitivo sia l’asserita lesione della professionalità del dirigente medico, evidenziando che, al contrario, gli ordini di servizio erano stati motivati da ragioni organizzative e di servizio;

3.1. il motivo, che si risolve nella mera elencazione di norme di legge e di disposizioni contrattuali asseritamente violate, sovrappone e confonde profili di fatto (pretesa autonomia delle due strutture, impossibilità di assolvere pienamente all’incarico affidato, esclusività dell’incarico prevista nel contratto individuale) e questioni giuridiche e sviluppa argomenti che presuppongono una diversa ricostruzione sul piano fattuale rispetto a quella effettuata dal giudice di merito, che, invece, ha ritenuto l’assegnazione non dequalificante e del tutto indimostrata l’asserita incompatibilità con il ruolo apicale assegnato alla D.R.;

3.2. ciò fa, oltretutto, richiamando atti e documenti (atto aziendale, contratto individuale, ordini di servizio) rispetto ai quali non risultano assolti gli oneri di specifica indicazione e di allegazione imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e dall’art. 369 c.p.c., n. 4, nei termini precisati da Cass. S.U. n. 34469/2019;

4. non pertinente è il richiamo all’art. 2103 c.c. e al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, perché l’inapplicabilità ai dirigenti dell’art. 2103 c.c., sancita dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, era già stata affermata dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 19, come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 13, e discende dalle peculiarità proprie della qualifica dirigenziale che, nel nuovo assetto, non esprime più una posizione lavorativa inserita nell’ambito di una carriera e caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì esclusivamente l’idoneità professionale del soggetto a ricoprire un incarico dirigenziale, necessariamente a termine, conferito con atto datoriale gestionale, distinto dal contratto di lavoro a tempo indeterminato;

4.1. per le medesime ragioni non è applicabile al rapporto dirigenziale il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, riferibile al solo personale che non rivesta la qualifica di dirigente, al quale e’, invece, riservata la disciplina dettata dalle disposizioni del capo II;

4.2. quanto alla dirigenza sanitaria, inserita “in un unico ruolo distinto per profili professionali e in un unico livello” (D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 15), la giuridica impossibilità di applicare la disciplina dettata dall’art. 2103 c.c. è ribadita dal D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 15 ter, inserito dal D.Lgs. n. 229 del 1999, nonché dal CCNL 8 giugno 2000, art. 28, comma 7, per il quadriennio 1997/2001, secondo cui ” nel conferimento degli incarichi e per il passaggio ad incarichi di funzioni dirigenziali diverse le aziende tengono conto… che data l’equivalenza delle mansioni dirigenziali non si applica l’art. 2103 c.c., comma 1";

4.3. non si ravvisa, poi, l’asserita violazione della disciplina contrattuale dettata dai CCNL per la dirigenza medica e veterinaria del servizio sanitario nazionale (non dai CCNL per la dirigenza sanitaria, tecnica ed amministrativa erroneamente invocati dalla ricorrente) perché, al contrario, il CCNL 3 novembre 2005, art. 16, esclude solo i dirigenti di struttura complessa dai servizi di guardia, dei quali consente l’organizzazione in “unità operative appartenenti ad aree funzionali omogenee”, e lo stesso CCNL, art. 17, fa obbligo anche ai dirigenti di struttura complessa, se necessario, di assicurare la pronta disponibilità, che deve essere organizzata “utilizzando dirigenti appartenenti alla medesima disciplina”;

5. il secondo motivo è inammissibile innanzitutto perché ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato dopo l’entrata in vigore del n. 83 del 2012 (11 settembre 2012) si applica l’art. 348 ter c.p.c., comma 5, e, pertanto il ricorrente, per evitare l’inammissibilità del motivo, deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (cfr. fra le tante Cass. n. 20994/2019 e Cass. n. 26774/2016);

5.1. il ricorso nell’esposizione sommaria dei fatti di causa non fa neppure cenno al contenuto motivazionale della sentenza di primo grado né contiene argomentazioni volte a dimostrare la necessaria diversità della ricostruzione fattuale operata dai giudici di merito, diversità che non è desumibile dalla sentenza gravata la quale, al contrario, dichiara di condividere le valutazioni espresse dal Tribunale; 5.2. non si può sostenere, come fa la ricorrente nella memoria ex art. 380 bis c.p.c., che l’ammissibilità del motivo emergerebbe da “un attento esame della documentazione in atti e delle sentenze di primo e secondo grado” perché la struttura del giudizio di cassazione assegna al ricorso la funzione di sede esclusiva dell’attività di allegazione volta a sorreggere il mezzo di impugnazione ed a tal fine il legislatore ha prescritto a pena di inammissibilità i requisiti di completezza e di specificità di cui ai nn. 3, 4 e 6 che devono essere propri dell’atto, con la conseguenza che il loro difetto non può essere sanato né dalla parte con integrazioni o aggiunte contenute nella memoria (Cass. n. 3780/2015; Cass. n. 5355/2018) né, tantomeno, dalla ricerca e dall’esame diretto da parte della Corte degli atti rilevanti ai fini della decisione;

5.3. alle considerazioni che precedono, già assorbenti, si deve aggiungere che l’art. 360 c.p.c., n. 5, come interpretato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass. S.U. 34476/2019 che richiama Cass. S.U. n. 8053/2014, Cass. S.U. n. 9558/2018, Cass. S.U. n. 33679/2018), assegna rilievo solo all’omesso esame di un fatto storico principale o secondario decisivo ai fini di causa, dal quale esula l’omesso esame di elementi istruttori, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la decisione impugnata non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie;

5.4. la sentenza della quale si lamenta l’omessa valutazione non costituisce un fatto, da intendere nei termini sopra indicati, né tale può essere ritenuta la valutazione dei fatti espressa dal giudice penale;

6. e’, poi, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui una censura relativa all’errata applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può essere formulata per lamentare un’erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice d’appello, perché la violazione può essere ravvisata solo qualora il ricorrente alleghi che siano state poste a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o che il giudice abbia disatteso delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. fra le più recenti Cass. n. 18092/2020; Cass. n. 1229/2019, Cass. n. 23940/2017, Cass. n. 27000/2016);

6.1. è stato anche affermato, ed il principio deve essere qui ribadito, che la censura di violazione delle norme processuali predette non può legittimare una “trasformazione” in error in procedendo del precedente vizio di motivazione per “insufficienza od incompletezza logica”, vizio non più denunciabile in sede di legittimità (Cass. n. 23940/2017) e ciò perché, all’esito delle modifiche apportate al codice di rito dal D.L. n. 83 del 2012, “il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4 – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. n. 11892/2016 e negli stessi termini Cass. n. 23153/2018);

7. quanto a quest’ultimo aspetto va detto che la nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, che resta circoscritta alle ipotesi di mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, di motivazione apparente, di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile (cfr. Cass. S.U. n. 34476/2019 e la giurisprudenza ivi richiamata), deve essere denunciata mediante la foiniulazione di uno specifico motivo di ricorso, sicché nella fattispecie non sono ammissibili le considerazioni svolte nella memoria difensiva, la cui funzione, come già detto, è solo quella di illustrare e chiarire le ragioni giustificatrici dei motivi enunciati;

8. in via conclusiva il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

9. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dalla ricorrente.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 10 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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