Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.33520 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11344-2019 proposto da:

R.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SECCHI 9 presso lo studio dell’avvocato ZIMATORE, e rappresentata e difesa dall’avvocato ADOLFO PROCOPI giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

REGIONE CALABRIA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SABOTINO 12, presso lo studio dell’avvocato GRAZIANO PUNGI’, che la rappresenta e difende giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 286/2019 della CORTE d’APPELLO di CATANZARO, depositata il 14/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del 24/06/2021 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO.

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE R.G., con ricorso D.Lgs. n. 150 del 2011 ex art. 6, proponeva opposizione avverso l’ordinanza ingiunzione dell’8 ottobre 2012, adottata dal Dirigente del settore “area controlli” del Dipartimento della Salute e delle Politiche sanitarie della Regione Calabria, notificatale in data 25 ottobre 2012, con la quale le veniva applicata la sanzione di Euro 24.599,75 per la violazione della L.R. n. 24 del 2008, art. 3, comma 2, per avere attivato uno studio odontoiatrico attrezzato per erogare prestazioni di chirurgia ambulatoriale, in mancanza della prescritta autorizzazione, il tutto a seguito di verbale di accertamento dei NAS di Catanzaro del 1/7/2011.

Contestava la sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento opposto, ritenendo che lo studio non necessitasse della previa autorizzazione sanitaria, in quanto nello stesso non erano eseguite prestazioni di chirurgia ambulatoriale né effettuate procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità.

Nella resistenza della Regione, il Tribunale di Catanzaro con la sentenza n. 470/2014 accoglieva l’opposizione, annullando l’ordinanza ingiunzione.

Proponeva appello la Regione cui resisteva la R..

La Corte d’Appello di Catanzaro, con la sentenza n. 286 del 14 febbraio 2019, ha accolto il gravame ed ha pertanto rigettato l’opposizione.

A tal fine riteneva che la questione oggetto di causa avesse ricevuto soluzione da parte della Corte di Cassazione con la pronuncia n. 23575/2018, che, in una fattispecie analoga, aveva ritenuto che la L.R. n. 24 del 2008, art. 3, comma 2, lett. r), ancorché in larga misura riproduttivo del D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 8 ter, aveva rispetto a quest’ultimo previsto che la necessità dell’autorizzazione non fosse limitata alle sole ipotesi di pratica ambulatoriale di prestazioni chirurgiche, ma si imponesse anche laddove fossero svolte procedure diagnostiche di particolare complessità e procedure terapeutiche che comportino un rischio, non solo per la sicurezza, ma anche per la salute del paziente.

In tal senso, la sentenza di primo grado aveva proceduto ad una lettura riduttiva della norma regionale che ha a cuore non solo la sicurezza ma anche la salute del paziente, nozione questa da intendersi in senso più ampio in quanto comprensiva dello stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non già come semplice assenza id malattia.

Quindi anche le normali pratiche odontoiatriche, come le estrazioni dentarie e la cura delle comuni patologie dentarie, implicano interventi cruenti, ed in quanto tali atti ad alterare la salute del paziente, con potenziale suo rischio.

Poiché l’ispezione sanitaria condotta presso lo studio dell’opponente aveva evidenziato la presenza di due riuniti con relative poltrone, un’autoclave e la macchina radiologica, attrezzature che inducono a ritenere che nello studio potessero essere praticate procedure diagnostiche e terapeutiche comportanti un rischio per la salute e per la sicurezza del paziente, era corretta la contestazione oggetto dell’ordinanza opposta.

R.G. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi.

La Regione Calabria resiste con controricorso.

Il primo motivo denuncia la violazione della L.R. Calabria n. 24 del 2008, art. 3, commi 2, lett. r) e 3, lett. b), per non avere la sentenza impugnata interpretato in maniera corretta il contenuto della normativa regionale includendo nel suo ambito di applicazione l’attività odontoiatrica.

Si evidenzia che il disordine creato da tale normativa aveva indotto la Regione ad intervenire ex novo nella materia con la L.R. n. 10 del 2016, che aveva escluso la necessità di autorizzazione per gli studi dentistici nei quali si effettuano solo visite e/o diagnostica strumentale non invasiva.

E’ pur vero che tale previsione è stata dichiarata incostituzionale, con la sentenza n. 106/2017 della Corte Costituzionale, ma per ragioni legate all’interferenza della legge con i poteri del commissario ad acta nominato per la Regione per l’attuazione del piano di rientro del disavanzo sanitario, ma la norma dichiarata incostituzionale depone per la correttezza della tesi che nega la necessità dell’autorizzazione. Il secondo motivo denuncia la falsa applicazione delle norme regionali di cui al primo motivo nonché degli artt. 2697 e 2729 c.c. e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6.

Si evidenzia che le attrezzature rinvenute nello studio della ricorrente non erano idonee a consentire l’esecuzione di interventi per i quali era imposta la previa autorizzazione, non potendosi reputare che la sola presenza di riuniti con poltrone implichi anche che siano funzionanti trapani e frese.

Del pari non è stata riscontrata la presenza di un ortopantomografo, del quale si fa menzione solo nell’atto di appello della Regione, né di anestetici, così come si ricava dalla lettura del verbale dei NAS, con la conseguenza che il ragionamento della Corte d’Appello è frutto di un’erronea applicazione delle norme in materia di prova, essendosi pervenuti al rigetto dell’opposizione sebbene l’Amministrazione non avesse offerto la prova di fatti idonei a rappresentare l’illiceità della condotta in capo alla ricorrente.

Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. per l’omessa pronunzia sulla questione relativa all’elemento soggettivo della condotta illecita e la violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 3, comma 2.

Infatti, nell’atto di opposizione si era dedotto che il dubbio legittimo posto dalla normativa regionale era idoneo ad escludere la colpevolezza della ricorrente, che peraltro aveva confidato anche sulle indicazioni impartite dal proprio ordine professionale.

Su tale questione la Corte d’Appello ha del tutto omesso di statuire, dovendo in ogni caso ravvisarsi la propria buona fede. Il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 429 e 437 c.p.c. in connessione con il D.Lgs. n. 150 del 2011, artt. 2 e 6, con la nullità della sentenza attesa l’omessa lettura del dispositivo in udienza.

Nella sentenza gravata si legge che la causa è stata decisa all’esito della concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. Tuttavia, trattandosi di causa sottoposta D.Lgs. n. 150 del 2011 ex art. 6, alle regole di rito di cui agli artt. 409 c.p.c. e ss., il giudice di appello avrebbe dovuto decidere la causa dando lettura del dispositivo all’esito dell’udienza di discussione.

Ciò ha determinato la nullità della decisione adottata.

Il quinto motivo denuncia la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 9, comma 2 e subordinatamente della medesima L., art. 24, sul presupposto che, pur configurandosi il giudizio di opposizione come giudizio legato ai motivi proposti, deve però reputarsi sussistente la rilevabilità d’ufficio delle norme in concreto applicabili alla fattispecie.

Pertanto, attesa la riconducibilità dei fatti oggetto dell’ordinanza opposta anche a varie fattispecie penali incriminatrici, si sarebbe dovuto dare prevalenza a queste ultime, con esclusione dell’applicazione della sanzione amministrativa.

Ritiene il Collegio che sia fondato e che rivesta efficacia assorbente anche rispetto ai restanti motivi di ricorso, il quarto motivo.

Infatti, come di recente affermato da questa Corte con la sentenza n. 72/2018, nei procedimenti di opposizione ad ordinanza-ingiunzione introdotti nella vigenza del D.Lgs. n. 150 del 2011, trovano applicazione, in virtù di quanto disposto dal medesimo D.Lgs. n. 150, art. 2, comma 1, le previsioni di cui all’art. 429 c.p.c., comma 1, e all’art. 437 c.p.c., comma 1, sicché il giudice nel pronunciare la sentenza deve, anche in grado di appello ed a pena di nullità insanabile, dare lettura del dispositivo all’esito dell’udienza di discussione.

In tale occasione, questa Corte ha dapprima ricordato che con riferimento ai giudizi di opposizione ad ordinanza-ingiunzione introdotti nella vigenza della L. n. 689 del 1981, art. 23, si era affermato come le regole speciali dettate per il giudizio di primo grado non fossero automaticamente estensibili anche a quello d’appello in mancanza di una espressa previsione normativa in tal senso (Cass., Sez. un., n. 23285 del 2010; Sez. un., n. 2907 del 2014). Pertanto, i principi enunciati in riferimento alla (in)ammissibilità della difesa personale delle parti in sede di gravame, nonché in relazione alla forma dell’atto introduttivo del giudizio di appello, consentivano tra l’altro di affermare che, in mancanza di espressa menzione, non trovasse applicazione la previsione che richiede, a pena di nullità, la lettura del dispositivo in udienza (Cass. n. 12954 del 2015).

Tuttavia laddove il procedimento, come anche quello in esame, sia stato iniziato in primo grado, dopo l’entrata in vigore (in data 6 ottobre 2011) del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, che ha abrogato il citato art. 23 ed ha disposto, all’art. 6, comma 1, che “le controversie previste dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 22 (opposizione ad ordinanza-ingiunzione), sono regolate dal rito del lavoro, ove non diversamente stabilito dalle disposizioni del presente articolo”, sebbene l’art. 6 non contenga una specifica disposizione, nel senso della espressa previsione, a pena di nullità (tanto nel giudizio di primo grado, quanto in quello d’appello), della pronuncia della sentenza mediante lettura del dispositivo, tuttavia, per effetto della regola generale dell’applicabilità alle suddette controversie del rito del lavoro, salva espressa eccezione, la previsione della lettura del dispositivo si applichi ora anche nei giudizi d’appello. Il medesimo D.Lgs., art. 2, infatti, dispone, al comma 1, che “nelle controversie disciplinate dal Capo 2 (rubricato Delle controversie regolate dal rito del lavoro, tra cui appunto le opposizioni ad ordinanza ingiunzione di cui all’art. 6), non si applicano, salvo che siano espressamente richiamati, l’art. 413 c.p.c., art. 415 c.p.c., comma 7, artt. 417,417-bis e 420-bis c.p.c., art. 421 c.p.c., comma 3, artt. 425,426 e 427 c.p.c., art. 429 c.p.c., comma 3, art. 431 c.p.c., commi 1, 2, 3, 4 e 6, art. 433 c.p.c., art. 438 c.p.c., comma 2, e art. 439 c.p.c.”. Il che comporta che alle medesime controversie siano invece applicabili, in mancanza appunto della previsione in senso contrario, le altre disposizioni per le controversie in materia di lavoro dettate dal codice di rito. Tra le quali, appunto quelle di cui all’art. 429 c.p.c., comma 1, e art. 437 c.p.c., comma 1, che – rispettivamente per il giudizio di primo grado e per quello d’appello – dispongono che il giudice pronunci sentenza dando lettura del dispositivo nell’udienza di discussione.

Nel caso in esame, si rileva che, nel contesto della sentenza impugnata, lo stesso giudice estensore precisa in fatto che “all’udienza dell’8.2.2017, la causa veniva trattenuta a sentenza con concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.” (cfr. pag. 4), in assenza di qualsiasi attestazione dell’avvenuta lettura del dispositivo della relativa decisione nella pubblica udienza, deve ritenersi che ciò non sia avvenuto.

Orbene, nelle controversie soggette al rito del lavoro, l’omessa lettura del dispositivo all’udienza di discussione determina, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 2, la nullità insanabile della sentenza, per mancanza del requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto, in quanto si traduce nel difetto di un requisito correlato alle esigenze di concentrazione del giudizio che connotano tale rito e soprattutto di immutabilità della decisione rispetto alla successiva stesura della motivazione (Cass. n. 13165 del 2009; v. anche Cass. 25305 del 2014).

La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata, e ciò determina l’assorbimento degli altri motivi.

Il giudice di rinvio che si designa nella Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il quarto motivo del ricorso, ed assorbiti gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 24 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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