LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5232-2020 proposto da:
INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale Dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati PAOLA MASSAFRA e ANGELO GUADAGNINO;
– ricorrente –
contro
C.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI DE LUCA, che la rappresenta e difende;
avverso la sentenza n. 2572/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 25/07/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 10/06/2021 dal Consigliere Relatore Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO.
RILEVATO
Che:
1. la Corte d’Appello di Roma, per quel che in questa sede rileva, ha respinto l’appello proposto dall’Inps, quale successore ex lege dell’Inpdap, avverso la sentenza del Tribunale di Roma che aveva parzialmente accolto il ricorso di C.P. e, ritenuti illegittimi gli atti di conferimento delle posizioni organizzative oggetto delle det. Dir. nn. 3, 4, 5 e 6 del 2010, aveva condannato l’istituto al risarcimento del danno da perdita di chances subito dalla C., quantificato in misura pari all’intero incremento economico che l’originaria ricorrente avrebbe percepito in caso di assegnazione della posizione organizzativa;
2. la Corte territoriale, richiamata la disciplina contrattuale nonché la circolare n. 25/2006 e la nota n. 269/2008, ha osservato che l’ente si era autovincolato, da un lato, a confermare l’incarico al dipendente già titolare di posizione organizzativa preesistente, dall’altro a conferire l’incarico stesso per le posizioni di nuova istituzione al dipendente in servizio presso l’unità interessata con inquadramento più elevato, fatta salva la verifica della “parità di attitudini e capacità professionali”;
3. il giudice d’appello ha evidenziato che nella specie il criterio preferenziale non era stato rispettato e l’Istituto, inoltre, non aveva effettuato alcuna valutazione comparativa specifica dei profili professionali né aveva esplicitato le ragioni per le quali la C. era stata esclusa;
4. ha evidenziato che solo nell’atto di impugnazione l’Inps aveva sostenuto che la scelta era stata effettuata nel rispetto del diverso criterio della conferma della titolarità della posizione organizzativa già assegnata ed ha aggiunto che quest’ultima affermazione era smentita dalla documentazione prodotta, dalla quale emergeva che si trattava di posizioni costituite ex novo a seguito di riassetto organizzativo;
5. infine la Corte territoriale ha ritenuto che non fosse stato censurato in modo specifico il capo della sentenza relativo al riconoscimento ed alla quantificazione del danno da perdita di chances che il Tribunale aveva motivato facendo leva sulla superiorità del livello di inquadramento della C. e sui titoli dalla stessa posseduti, ossia su circostanze dalle quali aveva desunto che, in caso di corretta applicazione dei criteri, l’appellata avrebbe avuto la certezza del conferimento;
6. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’INPS sulla base di tre motivi, ai quali C.P. ha resistito con tempestivo controricorso;
7. la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata notificata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata;
8. il ricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO
che:
1. il primo motivo del ricorso denuncia “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti accordi collettivi nazionali di lavoro, ovvero, in particolare, degli artt. 1362 e ss. c.c. – anche con riferimento alla circolare n. 25 del 6/12/06 Direttore Generale INPDAP ed alla nota n. 269 del 17/1/08 Direttore Generale INPDAP – del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 2, in relazione alla violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost. ed in particolare del comma 7 in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU”;
1.1. addebita, in sintesi, alla Corte territoriale di avere violato e, comunque, non correttamente interpretato la circolare n. 25/2006 e di non avere considerato che le quattro posizioni di responsabilità dovevano essere conferite ai dipendenti già titolari di posizioni organizzative;
1.2. aggiunge che nessun obbligo di specifica motivazione era stato imposto a carico dell’Istituto e precisa che la predeterminazione dei criteri di scelta non determina automatismo né limita la discrezionalità del datore di lavoro che non è tenuto a compiere alcuna valutazione comparativa;
2. con la seconda censura l’INPS si duole della “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti accordi collettivi nazionali di lavoro ovvero, in particolare, degli artt. 342 e 434 c.p.c., in reazione alla violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost. ed in particolare del comma 7 in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU” perché, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte romana, era stato specificamente censurato il capo della sentenza che aveva ritenuto provato il danno da perdita di chances e l’Istituto aveva dedotto che in ragione della genericità delle allegazioni contenute nel ricorso la domanda non poteva essere accolta;
3. con il terzo motivo, rubricato “nullità della sentenza o del procedimento (art. 360 c.p.c., n. 4) in relazione alla violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost. ed in particolare del comma 2 in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU” l’Istituto ricorrente insiste nel sostenere di avere debitamente esplicitato le ragioni poste a sostegno del gravame proposto avverso la sentenza del Tribunale di Roma;
4. il primo motivo di ricorso è inammissibile per plurime ragioni concorrenti;
e’ consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui le circolari non contengono norme di diritto e sono riconducibili alla categoria degli atti unilaterali negoziali o amministrativi, sicché la loro interpretazione costituisce un apprezzamento di fatto, istituzionalmente riservato al giudice del merito, sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica contrattuale o per vizio di motivazione, nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., n. 5 nel testo applicabile ratione temporis (Cass. n. 18723/2016; Cass. n. 16644/2015; Cass. n. 8296/2006);
4.1. pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. n. 17168/2012; Cass. n. 9054/2013; Cass. n. 10271/2016);
4.2. infatti la violazione delle regole di ermeneutica contrattuale non può dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un’altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non può la parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, limitarsi a denunciare in sede di legittimità il fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. n. 11254/2018), occorrendo, invece, che il ricorrente, oltre a fare esplicito riferimento alle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, precisi in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia dagli stessi discostato (cfr. fra le più recenti Cass. n. 27136/2017);
4.3. nel caso di specie il ricorso, pur denunciando nella rubrica la violazione degli artt. 1362 e ss. c.c., oltre a non indicare con chiarezza le ragioni per le quali la Corte territoriale avrebbe errato nell’interpretazione dei criteri di selezione (non è certo sufficiente a tal fine l’affermazione che si legge a pag. 11 secondo cui il giudice d’appello avrebbe travisato le disposizioni contenute nella circolare e nella nota), non individua in modo specifico, come sarebbe stato necessario, la regola violata e svolge considerazioni che sollecitano una revisione del giudizio di fatto espresso dalla Corte territoriale;
4.4. quanto poi al mancato rispetto del criterio preferenziale in favore dei soggetti già titolari di posizione organizzativa, il motivo non coglie pienamente la ratio decidendi della sentenza gravata perché la Corte territoriale, per affermare che nella specie si era in presenza di posizioni organizzative di nuova istituzione, non si è limitata a valorizzare la non contestazione delle circostanze allegate nel ricorso ma ha anche esaminato la determinazione dirigenziale n. 27/2009 per giungere alla conclusione che gli incarichi da conferire fossero stati istituiti ex novo a seguito di riorganizzazione amministrativa;
5. il primo motivo, poi, nella parte in cui denuncia la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, è inammissibile perché il legislatore con la disposizione richiamata, nel testo antecedente alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 165 del 2001, si è limitato a prevedere che “sono stabilite discipline distinte nell’ambito dei contratti collettivi di comparto” per “le figure professionali che, in posizione di elevata professionalità, svolgono compiti di direzione o che comportano iscrizione ad albi….”;
5.1. la Corte territoriale ha dato atto della disciplina dettata dalle parti collettive, richiamando sia il CCNL, per il quadriennio 1998/2001 (artt. 17 e 18) sia il C.C.I. del 2006 che, all’art. 16, ai fini del conferimento delle posizioni organizzative rinvia agli ordini di servizio ed alle direttive organizzative emanate dall’Istituto, e, quindi, ha seguito un percorso argomentativo pienamente rispettoso del precetto dettato dalla legge che, appunto, legittima l’intervento della contrattazione nella materia che qui rileva;
5.2. l’istituto ricorrente, nel denunciare la violazione del richiamato art. 40 (sulla quale ha insistito anche nella memoria depositata ex art. 380 bis c.p.c.), non precisa le ragioni per le quali la disposizione sarebbe stata erroneamente interpretata ed applicata sicché l’inammissibilità in parte qua del motivo discende dal principio di diritto, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui nella deduzione del vizio di violazione di legge o di disposizioni di contratto collettivo è onere del ricorrente indicare, non solo le norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, svolgere specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione (Cass. n. 17570/2020; Cass. n. 16700/2020);
6. infine non si sottrae alla sanzione dell’inammissibilità neppure la critica al punto della decisione inerente la necessità della motivazione e della valutazione comparativa, giacché il giudice d’appello si è attenuto al principio, da tempo consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui nelle procedure concorsuali o selettive nonché in quelle finalizzate al conferimento di specifici incarichi il potere discrezionale del datore di lavoro, pubblico e privato, incontra il limite della necessità che lo stesso fornisca, in conformità ai criteri precostituiti e, comunque, alla buona fede e correttezza, adeguata ed effettiva motivazione delle operazioni valutative e comparative connesse alla selezione effettuata (cfr. fra le tante Cass. n. 9814/2008; Cass. n. 5119/2010; Cass. n. 18972/2015; Cass. n. 6485/2021):
6.1. il motivo, dunque, in parte qua è inammissibile ex art. 360 bis c.p.c., n. 1;
7. il secondo ed il terzo motivo del ricorso, da trattare unitariamente in ragione della loro connessione logica e giuridica, sono formulati senza il rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 ed all’art. 369 c.p.c., n. 4;
7.1. il requisito imposto dal richiamato art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, deve essere verificato anche in caso di denuncia di errores in procedendo, rispetto ai quali la Corte è giudice del “fatto processuale”, perché l’esercizio del potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012);
7.2. la parte, quindi, non è dispensata dall’onere di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atri rilevanti, non essendo consentito il rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perché la Corte di Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (cfr. fra le più recenti Cass. S.U. n. 20181/2019; Cass. n. 20924/2019);
7.3. dal richiamato principio di diritto discende che, qualora, come nella fattispecie, il ricorrente assuma che il motivo di appello non poteva essere ritenuto privo della necessaria specificità, la censura potrà essere scrutinata a condizione che vengano riportati nel ricorso, nelle parti essenziali, non solo l’atto di appello ma anche la sentenza impugnata, dal cui contenuto non si può prescindere per valutare se l’iter logico e argomentativo seguito dal giudice di prime cure fosse stato adeguatamente censurato dall’appellante;
8. in via conclusiva il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna dell’Istituto al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;
9. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 10 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021
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