Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.33534 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8733-2020 proposto da:

M.N.M.L., domiciliata ope legis in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato FULVIO LICARI;

– ricorrente –

contro

N.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DI VILLA MASSIMO 330, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO SICARI, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE LO MONACO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 492/2019 della CORTE D’APPELLO di CALTANISSETTA, depositata il 21/12/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 10/06/2021 dal Consigliere Relatore Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO.

RILEVATO

Che:

1. la Corte d’Appello di Caltanissetta, per quel che ancora interessa in questa sede, ha confermato con diversa motivazione la sentenza del Tribunale di Enna che aveva, tra l’altro, rigettato la domanda proposta da M.N.M.L., volta ad ottenere l’annullamento della sanzione disciplinare del rimprovero scritto irrogata il 28 marzo 2014 da N.G., dirigente del Comune di *****;

2. la Corte territoriale ha ritenuto che la nota n. 7400/2014, seppure qualificata nell’oggetto “rimprovero scritto”, non integrasse un provvedimento disciplinare e a dette conclusioni è pervenuta analizzando il testo complessivo della missiva e valorizzando il comportamento tenuto dall’autore dell’atto prima e dopo l’asserita irrogazione della sanzione;

3. in particolare il giudice d’appello ha evidenziato che:

a) la nota non era stata preceduta da un atto di contestazione b) nella stessa non erano state indicate disposizioni del codice disciplinare o delle norme di legge violate;

c) mancavano nel testo locuzioni o termini tipici del provvedimento disciplinare, quali “irroga”, “applica”, “sanzione”;

d) l’atto si concludeva con l’esortazione a tenere una condotta collaborativa e non era stato trasmesso all’Ufficio Risorse Umane affinché, nel rispetto delle disposizioni dettate dal regolamento dell’ente, acquisisse l’efficacia di sanzione;

4. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso M.N.M.L. sulla base di tre motivi ai quali ha opposto difese con tempestivo controricorso N.G., mentre è rimasto intimato il Comune di *****;

5. la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata notificata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata;

6. entrambe le parti costituite hanno depositato memoria.

CONSIDERATO

Che:

1. il primo motivo del ricorso denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. perché la Corte territoriale non poteva qualificare diversamente l’atto impugnato, sia perché la natura disciplinare non era stata contestata, nel giudizio di primo grado, né dal Comune né dal N., sia in quanto si era formato giudicato interno sul capo della sentenza del Tribunale che, pur rigettando la domanda, non aveva messo in discussione la qualificazione del provvedimento;

2. la seconda e la terza censura ripropongono le questioni non esaminate dal giudice d’appello, perché assorbite dalla diversa qualificazione dell’atto, e, denunciando la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 109, del regolamento di organizzazione degli uffici, art. 139, adottato con delib. n. 100 del 2005, del regolamento di disciplina, art. 9, nonché del CCNL 22 gennaio 2004, art. 24, insistono nella illegittimità della sanzione disciplinare perché non preceduta da contestazione e irrogata da responsabile della struttura, privo della qualifica dirigenziale;

3. il primo motivo di ricorso è inammissibile ex art. 360 bis c.p.c., n. 2, perché la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo è manifestamente infondata;

3.1. questa Corte ha da tempo affermato, ed il principio deve essere qui ribadito, che il giudicato interno si determina solo su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia, sicché l’appello motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi di quella statuizione riapre la cognizione sull’intera questione che essa identifica, così espandendo nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene ad essa coessenziali, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dal motivo di gravame (cfr. fra le più recenti Cass. n. 10760/2019; Cass. n. 24783/2018; Cass. n. 12202/2017);

3.2. e’, altresì, consolidato l’orientamento secondo cui “in tema di giudizio di appello, il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, come il principio del tantum devolutum quantum appellatum, non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, ovvero in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed all’applicazione di una norma giuridica diverse da quelle invocate dall’istante, né incorre nella violazione di tale principio il giudice d’appello che, rimanendo nell’ambito del petitum e della causa petendi, confermi la decisione impugnata sulla base di ragioni diverse da quelle adottate dal giudice di primo grado o formulate dalle parti, mettendo in rilievo nella motivazione elementi di fatto risultanti dagli atti ma non considerati o non espressamente menzionati dal primo giudice” (Cass. n. 513/2019);

3.3. in applicazione dei richiamati principi non era impedito alla Corte territoriale respingere l’appello, con il quale era stata riproposta la domanda volta ad ottenere l’annullamento della sanzione disciplinare asseritamente inflitta, escludendo la natura disciplinare dell’atto impugnato, posto che il principio di non contestazione ha rilievo sul piano probatorio e riguarda solo i fatti da accertare nel processo, non già la loro qualificazione giuridica (Cass. n. 15339/2020; Cass. n. 20998/2019);

4. per il resto il ricorso, con il quale si ribadisce la tesi della natura disciplinare del provvedimento impugnato, è inammissibile innanzitutto perché formulato senza il necessario rispetto dell’onere di specificazione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, da intendere nei termini precisati da Cass. S.U. n. 34469/2019, ed inoltre perché l’interpretazione dell’atto unilaterale, riservata al giudice del merito, può essere censurata in sede di legittimità solo per violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale, violazione non denunciata dalla ricorrente;

5. sono altresì inammissibili il secondo ed il terzo motivo che, sul presupposto della natura disciplinare dell’atto, ripropongono le censure di violazione della normativa di legge e delle disposizioni contrattuali che disciplinano il procedimento disciplinare;

5.1. nel giudizio di cassazione i motivi devono essere specificamente riferibili a statuizioni della sentenza impugnata, sicché non sono ammissibili se riguardano questioni sulle quali il giudice d’appello non ha pronunciato perché assorbite da una ragione giuridicamente e logicamente preliminare, sufficiente a giustificare l’accoglimento o il rigetto della domanda;

5.2. difetta, infatti, l’interesse all’impugnazione, che va verificato rispetto ad ogni singolo motivo di ricorso, perché nell’ipotesi di cassazione della pronuncia la questione andrà riproposta nel giudizio di rinvio, mentre resterà assorbita nella statuizione resa dal giudice del merito qualora su quest’ultima si formi il giudicato per l’infondatezza o l’inammissibilità del motivo formulato avverso la pronuncia assorbente;

6. in via conclusiva il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della parte costituita, liquidate come da dispositivo;

6.1. il principio della causalità comporta che, qualora l’attore convenga in giudizio, oltre al soggetto al quale è indirizzata la domanda, anche un terzo nei cui confronti ritiene che debba essere adottata o comunque avere effetto la pronunzia, in caso di non accoglimento della pretesa, le spese sopportate dal chiamato, fatta salva la ricorrenza di ragioni che giustifichino una pronuncia di compensazione, devono essere poste a carico dell’attore, sebbene nei confronti del terzo non risultino proposte specifiche domande, giacché, da un lato, la partecipazione di costui al giudizio è conseguente alla citazione o al ricorso notificati dall’attore, e, nel giudizio di impugnazione, trova giustificazione sotto il profilo del litisconsorzio processuale; dall’altro l’onere della rivalsa discende dal principio generale della soccombenza, pur mancando un diretto rapporto sostanziale tra attore e terzo, stante la responsabilità del primo per avere dato luogo, con una pretesa infondata, al giudizio nel quale il terzo è rimasto coinvolto ed ha dovuto svolgere le proprie ragioni e difese (Cass. n. 3642/2004; Cass. n. 2270/2006; Cass. n. 7401/2016);

7. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dalla ricorrente.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore di N.G., liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 10 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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