LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIA Lucia – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 19380-2015 proposto da:
D.L.I., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA G. MAZZINI 27, presso lo studio dell’avvocato MARIO VINCOLATO, rappresentata e difesa dall’avvocato DOMENICO BUDINI;
– ricorrente –
contro
A.D.S.U. – AZIENDA PER IL DIRITTO AGLI STUDI UNIVERSITARI DI CHIETI, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SAVOIA 80, presso lo studio dell’avvocato ELETTRA BIANCHI, rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIO PIMPINI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1067/2014 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 11/12/2014 R.G.N. 1232/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/05/2021 dal Consigliere Dott. SPENA FRANCESCA;
il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MUCCI ROBERTO;
visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza in data 11 dicembre 2014 n. 1067 la Corte d’Appello di L’Aquila confermava la sentenza del Tribunale di Chieti, che aveva respinto la domanda proposta da D.L.I., dipendente della AZIENDA PER IL DIRITTO AGLI STUDI UNIVERSITARI – ADSU di CHIETI (in prosieguo: ADSU), inquadrata nella categoria D5, per la condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni derivati dalla condotta mobbizzante subita dal 6 gennaio 2007 ad opera del dirigente L.M.P. ed, in epoca successiva, del dirigente V.L..
2. La Corte territoriale premetteva che nelle conclusioni del ricorso di primo grado la D.L. aveva chiesto il risarcimento dei danni in ragione di una condotta di mobbing mentre nel grado di appello aveva dedotto la esistenza di una condotta di straining, con una rimodulazione non consentita della domanda.
3. Peraltro, la ricorrente indicava come comportamento vessatorio la circostanza che le fosse stata tolta dal 7 gennaio 2007 la responsabilità dell’ufficio “relazioni con il pubblico”, pur dando atto della conferma nell’incarico di responsabile dell’Ufficio “Affari generali, Segreterie, Protocollo, Personale”, senza indicare l’incidenza dell’incarico cessato nell’economia della funzione di responsabile dell’Ufficio Affari generali.
4. Sosteneva, ancora, che il dirigente dell’epoca, dottoressa L., aveva posto in essere altri comportamenti vessatori, consistenti in frasi ingiuriose pronunciate di fronte a terzi, in modo da screditarla, per il fatto che si era rifiutata di firmare il verbale di una riunione alla quale non aveva partecipato. Quest’ultimo episodio era rimasto sfornito di prova; i testi escussi avevano dato atto più che altro di una difficoltà di rapporti tra la D.L. e la dirigente, come risultava dalla deposizione del teste D.V., che aveva riferito di una riunione per risolvere tale contrasto.
5. Era rimasta sfornita di prova anche la circostanza della corresponsione della indennità di risultato a tutti i responsabili dell’ufficio salvo la D.L..
6. Quest’ ultima lamentava di essere stata oggetto di una serie di contestazioni anche da parte del nuovo dirigente, espresse con gli ordini di servizio prodotti, per avere evidenziato un’ attività, genericamente dedotta, in contrasto con la legge o il regolamento interno.
7. Si trattava di una elencazione di per sé priva di valore vessatorio, anche perché normalmente quelli che venivano qualificati come ordini di servizio erano sollecitati da osservazioni della stessa D.L..
8. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza D.L.I., affidato a quattro motivi di censura ed illustrato con memoria, cui ADSU ha resistito con controricorso.
9. Il PM ha chiesto il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la parte ricorrente ha dedotto- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 437 e 112 c.p.c. e dell’art. 2087 c.c., censurando la sentenza per avere ritenuto in via preliminare che la deduzione in appello di una fattispecie di straining, piuttosto che di mobbing, costituisse una modifica non consentita della domanda originaria.
2. Si assume che da tale erronea statuizione sarebbe derivato il vizio dell’intero ragionamento decisorio, condotto unicamente in relazione alla fattispecie del mobbing e non anche in relazione ad una ipotesi di straining.
3. Il motivo è inammissibile per difetto di decisività della censura.
4. La statuizione impugnata- secondo cui la qualificazione in appello della condotta illecita del datore di lavoro come straining invece che come mobbing configura una modifica non consentita della domanda- seppure erronea in diritto, per quanto già chiarito da questa Corte (Cass. Sez. lav. 10 luglio 2018 n. 18164; Cass. 20 marzo 2018 n. 7844; Cass. Nr. 3291/2016), costituisce mero obiter dictum.
5. La Corte di merito ha esaminato le condotte denunciate, respingendo la domanda non già sotto il profilo della mancanza di sistematicità degli atti vessatori né per difetto di prova dell’intento persecutorio- elementi caratteristici del mobbing e distintivi rispetto alla fattispecie dello strainingma, a monte, per avere ritenuto la carenza di allegazione specifica o, comunque di prova, di ciascuna delle condotte denunciate. E’ stata dunque esclusa ogni connotazione stressogena della condotta dei dirigenti Dott. L. e Dott. V..
6.Con il secondo mezzo si deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. nonché dell’art. 167 c.p.c., comma 1, art. 416 c.p.c., comma 3, art. 112 c.p.c..
7. La parte ricorrente ha esposto che le ragioni dell’attrito con la dirigente L. risalivano al 24 marzo 2006, allorquando ella si era rifiutata di firmare il verbale di una riunione alla quale non aveva partecipato; ha dedotto che tale circostanza non era stata specificamente contestata dalla difesa di ADSU e doveva ritenersi pacifica sicché era erronea la statuizione del difetto di prova.
8. Ha altresì censurato la sentenza per aver affermato esservi una mera difficoltà di rapporti con la dirigente L., lamentando l’esame parziale delle dichiarazioni del teste D.V. e del complesso delle deposizioni testimoniali (testi N., P. e D.V.).
9. Nell’assunto della parte ricorrente i testi avrebbe confermato le circostanze oggetto dei capitoli di prova ed, in particolare, il fatto che la dirigente in più occasioni, a seguito della manifestazione del suo disaccordo in ordine alla adozione di atti amministrativi, la aveva appellata come incapace ed affermato che non conosceva la lingua italiana.
10. La ricorrente ha assunto, altresì, che la revoca dell’incarico di responsabile dell’ufficio relazioni con il pubblico- servizio diverso rispetto a quello degli affari generali e dunque di autonoma rilevanza- costituiva atto ritorsivo, tanto che la dirigente l’aveva preannunciata quale conseguenza del suo dissenso, come confermato dai testi.
11. Quanto alla condotta del dirigente V., si assume infine che gli ordini di servizio, contrariamente a quanto affermato in sentenza, non erano mai stati da lei sollecitati e si evidenzia che in data 2.10.2007 ella aveva ricevuto ben sette ordini di servizio così come in data 25.10.2007, alcuni dei quali (protocollo n. 6466 e n. 6468 del 2.10.2007, protocollo n. 7058 del 25.10.2007 nonché altra nota della stessa data, non identificata nel protocollo) contenenti contestazioni infondate.
12. Il motivo è inammissibile.
13. La parte ricorrente, deducendo formalmente la violazione di norme di diritto, contesta l’accertamento dei fatti storici contenuto nella sentenza impugnata, censurabile in questa sede di legittimità unicamente con la deduzione di un vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5. La censura non si presta ad essere riqualificata in tali termini, in quanto la parte ricorrente non allega, con la necessaria specificità, un fatto storico di rilievo decisivo il cui esame sarebbe stato omesso nel ragionamento decisorio ma piuttosto, si duole del mancato esame di elementi istruttori relativi ai fatti accertati nella sentenza impugnata e dell’esito del complessivo apprezzamento del materiale istruttorio.
14. In sostanza, si contrappone all’accertamento del fatto storico effettuato dai giudice dell’appello un diverso apprezzamento, conforme alle allegazioni di parte, chiedendo a questa Corte un inammissibile riesame del merito.
15. Con la terza critica viene lamentata- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., nonché dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 167 c.p.c., artt. 115 e 116 c.p.c., per avere la Corte di merito omesso l’accertamento delle deposizioni dei testi in ordine alle frasi ingiuriose ed alle denigrazioni subite da parte della dirigente a far data dal 4 marzo 2006, nonché degli ordini di servizio del nuovo dirigente, in violazione dell’obbligo di valutazione delle prove.
16. Il motivo è inammissibile.
17. Esso non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha escluso il carattere offensivo e denigratorio della condotta della dirigente L., riconducendola, piuttosto, ad una difficoltà reciproca di rapporti con la odierna parte ricorrente ed ha altresì affermato che non vi era stata alcuna vessazione da parte del nuovo dirigente.
18. Ancora una volta la parte ricorrente contesta, formalmente deducendo la violazione di norme di diritto, l’accertamento di tali fatti storici senza illustrare in modo specifico un diverso fatto storico non esaminato nella sentenza impugnata, oggetto del contraddittorio e di rilievo decisivo.
19. Il quarto motivo è proposto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 2697 c.c. nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c.; si censura l’omesso esame e l’omessa pronuncia sul motivo di appello con il quale si impugnava la sentenza del Tribunale nella parte in cui affermava essere carente la prova del nesso di causalità tra il comportamento datoriale asseritamente illegittimo e le infermità documentate.
20. Il motivo è inammissibile.
21. Questa Corte ha chiarito che non ricorre il vizio di omessa pronuncia in caso di assorbimento; l’assorbimento sussiste anche quando la decisione cd. assorbente esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto di altre domande (Cass., Sez. 2, 9 ottobre 2012, n. 17219; sez. 5, 16 maggio 2012, n. 7663, sezione 1, 27 dicembre 2013, n. 28663; Cass., sez. Un., 27/11/2019, n. 3102).
22. Nella fattispecie di causa l’accertamento della assenza della condotta datoriale stressogena ha determinato l’assorbimento delle ulteriori questioni, come dà atto la sentenza impugnata (alla pagina 3: “restando assorbiti gli ulteriori motivi”).
23. Ne’ appare conferente alla questione posta con il motivo la deduzione del vizio di violazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c..
24. Il ricorso deve essere pertanto dichiarato nel complesso inammissibile.
25. Le spese di causa, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
26. Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater) della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la impugnazione integralmente rigettata, se dovuto (Cass. SU 20 febbraio 2020 n. 4315).
PQM
La Corte dichiara la inammissibilità del ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 200 per spese ed Euro 3.000 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 25 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021