LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DORONZO Adriana – Presidente –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 10016-2018 proposto da:
R.R.D., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA COLA DI RIENZO 69, presso lo studio dell’avvocato BRUNO DEL VECCHIO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente principale –
contro
EDISUD S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE 2021 MAZZINI 73 SC B INT.
2, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO AUGUSTO, che la rappresenta e difende;
– controricorrente – ricorrente incidentale –
contro
R.R.D.;
– ricorrente principale – controricorrente incidentale –
nonché contro P.P. e ASSOCIAZIONE STAMPA ROMANA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 2173/2017 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 28/09/2017 R.G.N. 2096/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/06/2021 dal Consigliere Dott. AMENDOLA FABRIZIO.
RILEVATO IN FATTO
CHE:
1. la Corte di Appello di Bari, con sentenza pubblicata il 28 settembre 2017, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato il 5 maggio 2005 dalla Edisud Spa, società editrice della “Gazzetta del Mezzogiorno”, nei confronti di R.R.D. e ha condannato la società al pagamento di cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori; la Corte ha confermato nel resto la sentenza impugnata, anche nella parte in cui – per quanto qui ancora interessa – ha negato che l’istante, inquadrato come caposervizio e successivamente come vice caporedattore, avesse conseguito il diritto alla superiore qualifica di caporedattore in ragione dello svolgimento in fatto di mansioni superiori;
2. circa l’impugnato licenziamento, la Corte territoriale ha argomentato: “l’Edisud non ha minimamente provato né la ricorrenza del giustificato motivo soggettivo (ossia l’assenza dal lavoro per malattie strumentalmente dirette al fine di sottrarsi all’esecuzione dell’attività) – atteso che le risultanze delle certificazioni mediche allegate dal lavoratore non sono state in alcun modo smentite – né di quello oggettivo (e cioè l’impossibilità di affidare al R.R. un incarico diverso)”;
3. per quanto riguarda, invece, il richiesto accertamento del diritto al superiore inquadramento, la Corte, ricordate le qualifiche previste dall’art. 11 del contratto collettivo nazionale lavoro giornalistico ritenute rilevanti, ha rilevato che la declaratoria rivendicata di caporedattore spetta a “colui al quale è stato attribuito il compito di dirigere, coordinandola, anche sotto il profilo del coordinamento dell’utilizzo delle tecnologie, l’attività di servizi”, ravvisando che, in base al tenore letterale della disposizione contrattuale, il caporedattore “ha il compito di dirigere ‘l’attività dei servizi redazionalì e non l’attività dei capi servizio”; richiamando Cass. n. 1965 del 2016, la Corte afferma che “deve pur sempre trattarsi di coordinamento non di più redattori bensì di più servizi, ossia di strutture redazionali preposte a specifici settori informativi aventi una loro autonoma rilevanza”; nella specie, ha rilevato come R.R. non solo non avesse dimostrato di aver coordinato più servizi come sopra intesi presso la sede romana, ma che neanche lo avesse allegato;
4. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso in via principale R.R.D. con un motivo, articolato in più censure; ha resistito con controricorso Edisud Spa, contenente ricorso incidentale affidato a 7 motivi, al quale ha resistito con controricorso il lavoratore; non hanno svolto attività difensiva l’Associazione Stampa Romana e P.P.;
il ricorrente principale ha anche comunicato memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
CHE:
1. con il ricorso principale R.R. denuncia: “Violazione dell’art. 2103 c.c.; dell’art. 11 del contratto collettivo nazionale di lavoro giornalistico del 30 luglio 1991, 16 novembre 1995 e 11 aprile 2001; degli artt. 1362 e 1363 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”; si sostiene che “per la qualifica di caporedattore ciò che rileva è la sua attività di coordinamento della redazione, a prescindere dal fatto che la medesima possa essere strutturata in specifici ‘servizi con autonoma rilevanza”‘; si eccepisce che, in ogni caso, al ricorrente “era comunque demandato il compito di coordinare il lavoro di ben cinque giornalisti, tra cui due con la qualifica di capo servizio (anche se non vi erano dei servizi strutturati in maniera formale)”; si deduce, poi, che “la dizione letterale della norma contrattuale (art. 11) è chiara e distingue due ipotesi: redazione centrale e redazione romana (ufficio di corrispondenza della capitale). Per la prima – di maggiore ampiezza e strutturazione essendo la redazione centrale – indica che se c’e’ un dirigente coordinatore di più servizi strutturati (ciascuno con un capo servizio e altre due unità) la qualifica corrispondente è quella superiore del caporedattore. Se la ratio della norma contrattuale fosse quella di richiedere obbligatoriamente- anche alla redazione romana una tale strutturazione in più servizi (ciascuno singolarmente organizzato, e cioè autonomo) non si comprenderebbe perché la norma contrattuale abbia bisogno di fare un riferimento alla redazione romana. E’ evidente infatti che il capo di una redazione (romana) che ha, al suo interno, più servizi, ciascuno organizzato da un proprio caso capo servizio, non potrebbe non avere la qualifica superiore di caporedattore”; si assume infine che, una volta riconosciuta la qualifica di capo redattore al R.R. dal 1995, il giudice del rinvio “dovrà valutare se nel periodo successivo al suo trasferimento a Bari le mansioni da(i svolte siano state o meno inferiori a quelle della qualifica caporedattore acquisita di diritto”;
2. il ricorso principale non può trovare accoglimento;
2.1. la sentenza impugnata sul punto è in linea con la giurisprudenza di questa Corte che, avuto riguardo all’art. 11, lett. f, del CCNL lavoro giornalistico del 16 novembre 1995, ha ritenuto che nella locuzione “coordinamento di servizi”, caratterizzante la qualifica di caporedattore, “siano comprese le strutture redazionali preposte a specifici settori informativi aventi una loro autonoma rilevanza” (in termini Cass. n. 1965 del 2016, che colloca tra essi anche “le rubriche di approfondimento informativo”);
già in precedenza si è affermato che per “servizio” deve intendersi un nucleo operativo dedito ad un determinato settore d’informazione (politica, cultura, cronaca nera, ecc.) (cfr. Cass. n. 109 del 1987);
in tema di rapporto di lavoro giornalistico, poi, nel distinguere i requisiti delle qualifiche di caposervizio e di caporedattore previsti dall’art. 11 del CCNL 10 gennaio 1959, reso efficace erga omnes con D.P.R. 16 gennaio 1961, n. 153, si era stabilito che la seconda qualifica richiedesse che le mansioni del dipendente abbracciassero “la sorveglianza e la coordinazione dell’intero lavoro redazionale in un determinato arco di tempo”, oltre che la sovraordinazione ad altri capi servizio (Cass. n. 4673 del 1987; Cass. n. 2383 del 1986; Cass. n. 3577 del 1.983);
2.2. evidentemente il verificare in fatto se il giornalista che agisce per rivendicare il superiore inquadramento abbia o meno svolto tali compiti di direzione al vertice della redazione, in rapporto immediato con le disposizioni impartite dalla direzione del giornale, mediante il coordinamento delle “attività di servizi” aventi le caratteristiche innanzi indicate, spetta al giudice del merito; nella specie la Corte territoriale, confermando l’assunto già espresso dal primo giudice, ha escluso che il R.R. coordinasse “diversi settori informativi”, piuttosto ripartendo compiti tra diversi redattori con mansioni compatibili con quelle di un capo servizio, mentre parte ricorrente pretende da questa Corte di legittimità un diverso apprezzamento, come è conclamato dal richiamo diffusamenteò contenuto nel motivo alle deposizioni testimoniali assunte in giudizio;
quanto poi alla questione del se pure il solo coordinamento “dell’ufficio di corrispondenza dalla capitale” potesse attribuire al R.R. il diritto alla qualifica di caporedattore, essa ha carattere di novità; come noto, secondo giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte, qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. SS. UU. n. 2399 del 2014; Cass. n. 2730 del 2012; Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 25546 del 2006; Cass. n. 3664 del 2006; Cass. n. 6542 del 2004; più di recente: Cass. n. 32084 del 2019; Cass. n. 20694 del 2018; Cass. n. 27568 del 2017); nella specie la questione non risulta affrontata nella sentenza impugnata e parte ricorrente si limita a richiamare alcune pagine dell’atto di appello, senza specificarne adeguatamente i contenuti, anche in relazione alla sentenza di primo grado, e senza neanche riferire come la questione fosse stata sottoposta al contraddittorio ed al giudice nell’atto introduttivo del giudizio;
3. disatteso il ricorso del lavoratore, quello incidentale della società impugna quella parte della sentenza della Corte distrettuale che ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato al giornalista e condannato la datrice di lavoro al pagamento di 5 mensilità della retribuzione globale di fatto;
3.1. il primo motivo lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. in quanto la Corte di Appello non si sarebbe pronunciata sulla “eccezione di inammissibilità della domanda” di accertamento dell’illegittimità del recesso per difetto di interesse che sarebbe stata avanzata anche in appello dalla società;
la censura, per come formulata, è inammissibile;
infatti il motivo è irrispettoso del canone di specificità del ricorso per cassazione, atteso che, nel caso in cui ci si dolga di una omessa pronuncia, è indispensabile innanzitutto dettagliare nel corpo del motivo i fatti processuali che la sostanziano e, quindi, i contenuti dell’atto che contiene la domanda o l’eventuale motivo di appello su cui il giudice non si sarebbe pronunciato (Cass. n. 2886 del 2014; Cass. n. 14561 del 2012); nel medesimo senso si è affermato (Cass. n. 317 del 2002 e Cass. n. 3547 del 2004) che la parte che impugna una sentenza con ricorso per cassazione per omessa pronuncia su di una domanda, ha l’onere, per il principio di autosufficienza del ricorso, a pena di inammissibilità per genericità del motivo, di specificare quale sia il “chiesto” al giudice del gravame sul quale questi non si sarebbe pronunciato, non potendosi limitare ad un mero rinvio all’atto di appello, atteso che la Corte di cassazione non è tenuta a ricercare al di fuori del contesto del ricorso le ragioni che dovrebbero sostenerlo, ma può accertarne il riscontro in atti processuali al di fuori del ricorso sempre che tali ragioni siano state specificamente formulate nello stesso;
nel motivo In esame parte ricorrente non si è peritata di riportare i passi dell’atto di appello con cui la questione era stata riproposta in sede di gravame, incorrendo così nella sanzione dell’inammissibilità della censura;
peraltro neanche è configurabile il vizio di omesso esame di una questione (connessa ad una prospettata tesi difensiva) o di un’eccezione di nullità (ritualmente sollevata o sollevabile d’ufficio), quando debba ritenersi che tali questioni od eccezioni siano state esaminate e decise implicitamente (ex plurimis, Cass. n. 7404 del 2014) e, nella specie, la Corte pugliese, avendo esaminato nel merito la questione del licenziamento ha implicitamente, quanto inequivocabilmente, ritenuto la sussistenza dell’interesse ad agire del licenziato;
3.2. il secondo motivo denuncia “omesso esame circa un fatto decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5)” perché, premesso che il licenziamento era stato intimato per giustificato motivo oggettivo, non sarebbe stata valutata l’incidenza dello stato morboso della malattia certificata “rispetto alla proseguibilità del rapporto di lavoro, sia in relazione alla compatibilità con l’esecuzione della prestazione, che in relazione alle stesse cause di detto stato patologico, come esternate e certificate proprio dallo stesso dipendente”; il terzo motivo eccepisce la nullità dello stesso capo di sentenza “per difetto di motivazione”, così come anche il quarto che denuncia “la violazione di legge”, avuto riguardo all’art. 132 c.p.c., n. 4, perché la decisione non sarebbe supportata “da ragioni di fatto e di diritto”;
le censure sono inammissibili perché il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. non viene declinato nel rispetto degli enunciati posti da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014, in particolare non viene adeguatamente enucleato il fatto storico decisivo di cui sarebbe stato omesso l’esame, mentre i pretesi difetti motivazionali della sentenza impugnata non sono di per sé più sindacabili innanzi a questa Corte, laddove non trasmodino nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; il che non ricorre nella specie, in quanto la Corte territoriale ha esplicitato chiaramente, seppur sinteticamente, il suo convincimento in ordine alla mancanza della prova di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, mentre la parte ricorrente si limita ad opporre un diverso convincimento;
3.3. il quinto motivo denuncia ancora omesso esame di un fatto decisivo “sull’asserito difetto di prova della impossibilità di assegnazione ad altro incarico”, assumendo che “la prova dei presupposto risolutivo emerge infatti dalla stessa ricostruzione contenuta nella sentenza, laddove dà conto dell’imponente intervento riorganizzativo imposto dalla soppressione della redazione romana; della scelta del ricorrente per il trasferimento presso la redazione di Bari; delle sue continue doglianze circa la posizione ed il ruolo affidatogli”; con il sesto mezzo si censura lo stesso passaggio della sentenza per violazione della L. n. 604 del 1966, art. 5 e dell’art. 2697 c.c., sostenendo che il lavoratore non avrebbe soddisfatto “lo specifico onere di collaborazione del dipendente nell’accertamento di un possibile repetchage, mediante la specifica allegazione di posti di lavoro alternativi, e di utile e di equivalente collocazione”;
le doglianze, che possono essere esaminate congiuntamente, sono in parte inammissibili ed in parte infondate;
inammissibili laiddove ancora una volta si richiama il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, senza rispettare gli enunciati dei precedenti delle Sezioni Unite già richiamati, nella sostanza invocando un nuovo apprezzamento dei fatti che hanno dato origine alla vicenda del recesso;
infondate, invece, perché non tengono conto del più recente, ma oramai consolidato, orientamento di legittimità, secondo cui: “In materia di licenziament6 per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di “repe’thage” del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri” (Cass. n. 5592 del 2016);
3.4. con il settimo motivo si denuncia la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, nel testo all’epoca vigente nella parte in cui ha liquidato il danno nella misura di 5 mensilità, sostenendo che il lavoratore non avrebbe sofferto alcun pregiudizio concreto;
la censura è priva di fondamento per il principio più volte affermato, con cui parte ricorrente neanche si confronta, in base al quale: “L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4, nel testo sostituito dalla L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 1, nel prevedere, in caso di invalidità del licenziamento, la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per effetto del licenziamento stesso, mediante corresponsione di una indennità commisurata alla retribuzione non percepita, stabilisce una presunzione “iuris tantum” di lucro cessante il cui presupposto è l’imputabilità al datore di lavoro dell’inadempimento, fatta eccezione per la misura minima del risarcimento, consistente in cinque mensilità di retribuzione, la quale è assimilabile ad una sorta di penale, avente la sua radice nel rischio di impresa” (tra molte: Cass. n. 1950 del 2011);
4. conclusivamente sia il ricorso principale che quello incidentale devono essere respinti e la reciproca soccombenza induce il Collegio a compensare integralmente le spese tra le parti;
occorre altresì dare atto poi della sussistenza, per il R.R. e per l’Edisud Spa, dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta entrambi i ricorsi e compensa le spese.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso principale e incidentale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 24 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021
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