Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.33610 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17746/2020 proposto da:

S.D., elettivamente domiciliata in Roma, Via Padre Perilli, n. 54, presso lo studio dell’avvocato De Julio Simonetta, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

e contro

L.M., elettivamente domiciliato in Roma Lido, Viale Paolo Orlando n. 111, presso l’avvocato Giandotti Massimiliano, che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

S.D., elettivamente domiciliata in Roma, Via Padre Perilli, n. 54, presso lo studio dell’avvocato De Julio Simonetta, che la rappresenta e difende, giusta procura sul controricorso al ricorso incidentale;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 910/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, pubblicata il 07/02/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/09/2021 dal cons. LAMORGESE ANTONIO PIETRO.

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Roma, con decreto del 23 marzo 2016, a parziale modifica delle condizioni di separazione personale tra L.M. e S.D., disponeva l’affidamento del figlio (allora) minorenne M. ai Servizi Sociali (collocato presso la madre); condannava la S. al risarcimento del danno in favore del L. nella misura di Euro 2500,00, oltre interessi legali, ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c.; rigettava la domanda riconvenzionale della S. di condanna del coniuge al risarcimento del danno arrecato al figlio.

La Corte d’appello di Roma, con decreto del 6 giugno 2018, dichiarava improcedibile il reclamo della S. avverso il predetto decreto, sul presupposto che fosse competente il giudice del procedimento di divorzio sulle statuizioni riguardanti l’affidamento del minore e i provvedimenti ex art. 709 ter c.p.c., essendo nel frattempo stato depositato il ricorso per la cessazione degli effetti civili del matrimonio; aumentava a Euro 700,00 mensili il contributo posto a carico del L. per il mantenimento del figlio.

Nel giudizio di divorzio la S. chiedeva la revoca della sanzione inflittale nella precedente fase ex art. 709 ter c.p.c., ma il Tribunale, con sentenza dell’11 aprile 2019, rigettava l’istanza, facendo proprie le valutazioni espresse nel decreto del 2016, evidenziando la sua condotta pregiudizievole verso il figlio e/o il coniuge; confermava l’affidamento del figlio ai Servizi Sociali e il contributo di mantenimento a carico del L.; revocava l’assegnazione della casa alla S. e dichiarava inammissibile la domanda risarcitoria proposta da quest’ultima.

In sede di gravame, la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 7 febbraio 2020, riassegnava alla S. la casa coniugale e lo rigettava nel resto.

La S. propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, resistiti dal L., il quale propone ricorso incidentale, affidato a un motivo, resistito dalla ricorrente principale.

MOTIVI DELLA DECISIONE

E’ pregiudiziale l’esame del secondo motivo del ricorso principale, con il quale la S. denuncia violazione dell’art. 113 disp. att. c.p.c., art. 51 c.p.c., comma 4, artt. 3,24,104 e 111 Cost., nonché della Cedu, per essere la sentenza dell’11 aprile 2019 emessa dal Tribunale nel presente giudizio stata deliberata da un collegio del quale faceva parte un giudice (Dott. Vitalone) che aveva composto anche il collegio giudicante che aveva emesso il decreto del 23 marzo 2016 di condanna della S. ex art. 709 ter c.p.c..

Il motivo è infondato.

La Corte territoriale ha escluso la violazione denunciata, rilevando che il collegio giudicante si era pronunciato non quale giudice del reclamo sul decreto del 2016, ma autonomamente, quale giudice competente sull’istanza di revoca della sanzione riproposta nel giudizio di divorzio; la Corte ha aggiunto che la S. avrebbe dovuto far valere il vizio proponendo ricorso per ricusazione del giudice Vitalone.

La decisione impugnata è in linea con la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale l’obbligo di astensione sancito dall’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, si impone solo al giudice che abbia conosciuto della stessa causa come magistrato in altro grado, posto che la norma è volta ad assicurare la necessaria alterità del giudice chiamato a decidere, in sede di impugnazione, sulla medesima “res iudicanda” in un unico processo; ne consegue che l’obbligo non può essere inteso nel senso di operare in un nuovo e distinto procedimento – come nel caso in esame – ancorché riguardante le stesse parti e pur se implicante la risoluzione di identiche questioni (cfr. Cass. n. 15268 del 2019, n. 22930 del 2017). All’argomento difensivo opposto alla seconda ratio decidendi, secondo cui la S. non era in condizione di conoscere la composizione del collegio sino alla comunicazione della sentenza e di proporre tempestiva istanza di ricusazione, la Corte territoriale ha replicato che la composizione dei collegi giudicanti è predeterminata e conoscibile con congruo anticipo.

Venendo agli altri motivi del ricorso principale, la S. denuncia, con il primo motivo, omesso esame di fatti decisivi, mancato esame della relazione del c.t.u., motivazione apparente e violazione dell’art. 709 ter c.p.c., art. 2 Cost., e Cedu, con cui si duole della condanna al risarcimento del danno a favore del coniuge ( L.) per imprecisati e indimostrati pregiudizi asseritamente causati al figlio minore da imprecisati inadempimenti a lei imputati (quali l’omessa comunicazione al L. della relazione sentimentale intrattenuta dalla S.), privi di rilevanza causale rispetto al pregiudizio denunciato dal L. che consisteva nell’avere svilito la figura paterna agli occhi del (e frapposto ostacoli agli incontri con il) figlio. La ricorrente sostiene di non avere mai ostacolato il rapporto del padre con il figlio, essendo egli stesso responsabile dell’atteggiamento di rifiuto oppostogli dal figlio; rimprovera ai giudici di merito di non avere valutato la questione della incapacità genitoriale del padre e di avere omesso di valutare il comportamento pregiudizievole tenuto dal L., il quale aveva ugualmente intrattenuto una relazione sentimentale nella quale aveva inopportunamente coinvolto il figlio.

Il motivo è inammissibile.

La statuizione di condanna della S. alla sanzione patrimoniale ex art. 709 ter c.p.c., è contenuta nel decreto del Tribunale del 23 marzo 2016, divenuto definitivo, essendo il reclamo stato dichiarato dalla Corte d’appello, con decreto del 6 giugno 2018, “improcedibile… limitatamente alle statuizioni concernenti l’affidamento del minore e i provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c., essendo competente il giudice del divorzio L. n. 898 del 1970, ex art. 6”.

Il suddetto decreto del 2018, non impugnato, è divenuto definitivo: ne consegue il consolidamento degli effetti della condanna, senza possibilità per la S. di veicolare le ragioni impugnatorie per il tramite di una atipica istanza di revoca dinanzi a un giudice dello stesso grado, cioè al medesimo Tribunale nel diverso e successivo giudizio di divorzio. Ne’ rileva che la predetta istanza sia stata comunque esaminata dal Tribunale e dalla Corte d’appello nel giudizio di divorzio (con la sentenza ora impugnata per cassazione), in presenza di una preclusione determinata dalla statuizione definitiva del 2016. La decisione della Corte d’appello del giugno 2018 non può, in effetti, essere intesa come una statuizione di incompetenza in senso tecnico (con conseguente legittima riassunzione davanti al giudice competente, il giudice del divorzio, appunto, poi adito con la richiesta di “revoca”), sia perché una statuizione di incompetenza del giudice dell’impugnazione con indicazione di un giudice competente del medesimo grado del giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato risulterebbe eccentrica nell’ordinamento, sia perché la Corte, sebbene adita quale “giudice del procedimento in corso” (art. 739 ter, comma 1) in sede impugnatoria, aveva omesso di esaminare il reclamo nel merito, incorrendo in un vizio di attività censurabile e non censurato (nonostante la previsione di impugnabilità “nei modi ordinari” ex art. 709 ter c.p.c., comma 3).

Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 148,316 bis e 337 ter c.c., e omesso esame di fatti decisivi, per avere nel confermare l’entità del contributo di mantenimento a favore del figlio ignorato o disatteso i criteri legali di quantificazione (attuali esigenze e tempi di permanenza del figlio presso ciascun genitore, risorse economiche di entrambi, valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore) e per non avere considerato che il L. non aveva depositato la documentazione reddituale ordinatagli con il decreto di fissazione dell’udienza.

Il motivo è inammissibile. Esso si risolve in una impropria richiesta di rivisitazione di incensurabili apprezzamenti di fatto compiuti dai giudici di merito, i quali hanno valutato le esigenze del figlio e le risorse di entrambi i genitori sulla base della documentazione prodotta, risultando priva di specificità la doglianza riguardante il mancato deposito di imprecisata documentazione ulteriore. Il riferimento contenuto nella sentenza al beneficio economico ricevuto grazie all’apporto economico della compagna, con la quale conviveva, inutilmente è stato criticato dalla S., non avendo avuto rilievo ai fini della decisione, trattandosi di una mera argomentazione aggiuntiva e di contorno.

Con il quarto motivo, la S. denuncia omesso esame di fatto decisivo circa il rigetto della sua domanda riconvenzionale di condanna del L. al risarcimento del danno arrecato al figlio, per la violazione del diritto all’affettività e degli obblighi di cura, istruzione ed educazione.

Il motivo è inammissibile per un duplice ordine di considerazioni. In primo luogo, il motivo non si confronta con – né censura – la ratio decidendi della sentenza impugnata con la quale la Corte territoriale, condividendo il giudizio del Tribunale, ha affermato trattarsi di domanda non proponibile nel giudizio di divorzio, in quanto non cumulabile con l’azione di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Tale ratio – integrabile alla luce del rilievo del Tribunale (decreto 11 aprile 2019, pag. 8) circa la tardività della proposizione della medesima domanda – si è dunque consolidata e non è suscettibile di riesame. In secondo luogo, la statuizione (di rigetto) resa dal Tribunale nel decreto del 23 marzo 2016 sulla suddetta domanda della S. si è consolidata per mancato esperimento di una utile impugnazione (valgono le considerazioni svolte in relazione al primo motivo).

Venendo al ricorso incidentale tardivo, contrariamente a quanto sostenuto dalla S., esso è ammissibile ed efficace ex art. 334 c.p.c., ma infondato.

Il L. censura la decisione con cui la Corte territoriale ha disposto la riassegnazione della casa coniugale al coniuge affidatario ( S.). La tesi sostenuta dal ricorrente incidentale è che la “casa familiare” non potrebbe più essere considerata tale, e dunque suscettibile di assegnazione al coniuge affidatario del figlio, in quanto non più rispondente all’interesse di quest’ultimo, nel caso in cui non sia riconoscibile (dal minore) come ambiente domestico, da intendere come luogo della memoria familiare, in presenza di una diversa composizione della famiglia nella quale egli si troverebbe a vivere dopo la separazione, in considerazione della presenza in quell’ambiente del nuovo partner femminile della propria madre, come accaduto nella specie. Questa tesi non è condivisibile.

L’assegnazione al genitore collocatario di figli minori della casa familiare (nella specie, in comproprietà delle parti) che abbia costituito il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza, è dettata nell’esclusivo interesse della prole e risponde all’esigenza di conservare l'”habitat” domestico, inteso come centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare (ex plurimis Cass. n. 34431 del 2018, n. 3331 del 2016). L’instaurata convivenza della S. nell’abitazione familiare con altra persona, quantunque dello stesso sesso, deve essere – e nella specie è stata correttamente – valutata dai giudici di merito nell’ottica esclusiva dell’interesse del minore, i quali non hanno ravvisato controindicazioni di alcun genere, neppure del resto dedotte dal ricorrente incidentale, in termini di pregiudizi o turbamenti subiti dal minore a causa della nuova convivenza della madre. E’ un esito coerente con la giurisprudenza costituzionale, la quale ha chiarito che “l’evoluzione normativa e giurisprudenziale evidenzia come non solo la decisione sulla assegnazione della casa familiare, ma anche quella sulla cessazione della stessa, sono sempre state subordinate, pur nel silenzio della legge, ad una valutazione, da parte del giudice, di rispondenza all’interesse della prole, la norma censurata (art. 155 quater, comma 1, c.c., corrispondente al vigente art. 337 sexies, comma 1, c.c., in tema di separazione; principi analoghi valgono in sede divorzile, ex art. 6, comma 6, L. n. 898 del 1970) non viola gli indicati parametri ove sia interpretata nel senso che l’assegnazione della casa coniugale non venga meno di diritto al verificarsi degli eventi di cui si tratta (nel caso in cui l’assegnatario conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio), ma che la decadenza dalla stessa sia subordinata ad un giudizio di conformità all’interesse del minore” (Corte Cost. n. 308 del 2008).

In conclusione, entrambi i ricorsi sono rigettati. La soccombenza reciproca giustifica la compensazione delle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi e compensa le spese.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

Così deciso in Roma, il 20 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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