LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rosanna – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21950-2019 proposto da:
S.A., rappresentato e difeso dall’avvocato Roberto Maiorana del foro di Roma domiciliato in Roma, piazza Cavour presso la cancelleria della Corte di Cassazione ovvero all’indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente –
avverso il decreto n. 10533/2019 del Tribunale di ROMA, depositato il 04/06/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/01/2021 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.
OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO Ritenuto che:
– con provvedimento notificato il 21.02.2018 la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Roma rigettava la domanda del ricorrente, volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria;
– avverso tale provvedimento interponeva opposizione S.A., che veniva respinta dal Tribunale di Roma con decreto n. 10533 del 04.06.2019;
– la decisione evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, che pur esprimendo una valutazione di complessiva credibilità della vicenda narrata dal richiedente (rimasto coinvolto nel ***** in un incidente stradale nel quale erano morte due persone e di essere stato arrestato, su pressione dei parenti delle vittime, e tenuto in prigione per tre mesi durante i quali non era stato emesso a suo carico alcun mandato di cattura o alcuna convalida di fermo), le circostanze erano tali da non consentire di ravvisare, neanche sotto forma di astratta allegazione, motivi di persecuzione. Aggiungeva che anche dall’esame della condizione socio-politica del Paese di provenienza, il *****, e la singola posizione del richiedente (esposto a rischio concreto di sanzioni o pericoli per la integrità fisica o libertà personale) non consentivano di riconoscere allo stesso né lo status di rifugiato, trattandosi di problematiche connesse ad una vicenda personale con conseguenti risvolti penali, né forme di protezione sussidiaria non incorrendo il S. – a fronte delle asserite minacce di morte ricevute – il rischio di essere condannato a morte o all’esecuzione della pena di morte, non avendo peraltro lo stesso neanche richiesto protezione alle autorità del suo Paese. Dai siti internet di Amnesty International e del Ministero degli esteri pur segnalando il persistere in ***** di criticità in campo sociale e giuridico per talune categorie di soggetti (membri della stampa, attivisti dei diritti umani, degli oppositori politici, degli omosessuali), tuttavia non evidenziavano l’esistenza di un conflitto armato interno né sussistevano situazioni di violenza indiscriminata. Infine le specifiche vicende allegate non integravano un’ipotesi di vulnerabilità individuale, né era stato prodotto alcun documento attestante siffatto stato da parte del richiedente ovvero elementi di integrazione sociale nel nostro paese (non avendo egli a più di tre anni dal suo arrivo alcun lavoro ma solo frequentato corsi di italiano), sì da rendere difficile il reinserimento nel proprio paese;
– propone ricorso per la cassazione avverso tale decisione il S. affidato a quattro motivi;
– il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.
Atteso che:
– con il primo motivo il ricorrente lamenta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio relativamente alla condizione di pericolosità e alle situazioni di violenza generalizzata esistenti in ***** avendo sposato esclusivamente le promesse elettorali del neo Presidente eletto; diversamente il ***** sarebbe un Paese estremamente pericoloso, dove non risultano osservati i diritti umani, ove si pratica la tortura con violazione sistematica dei diritti umani con sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie.
Ritiene questa Corte che, anche a ritenere ammissibile a norma dell’art. 366 c.p.c., n. 3, il motivo e con esso il ricorso sotto il profilo del requisito dell’esposizione dei fatti di causa, la censura è comunque in parte inammissibile ed in parte infondata per quanto di seguito si esporrà.
Questa Corte ha ormai ritenuto in modo consolidato che nei procedimenti in materia di protezione internazionale, il dovere di cooperazione istruttoria del giudice si sostanzia nell’acquisizione di COI (“Country of Origin Information”) pertinenti e aggiornate al momento della decisione (ovvero ad epoca ad essa prossima), da richiedersi agli enti a ciò preposti (cfr. Cass. n. 8819 del 2020; Cass. n. 11312 del 2019; Cass. n. 13449 del 2019; Cass. n. 13897 del 2019; Cass. n. 9230 del 2020; Cass. n. 13255 del 2020) essendo il giudice tenuto ad indicare specificatamente le fonti aggiornate in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto. Cass. n. 4037/2020, infine, ha ritenuto che il motivo di ricorso per cassazione che mira a contrastare l’apprezzamento del giudice di merito in ordine alle c.d. fonti privilegiate, di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, deve evidenziare, mediante riscontri precisi ed univoci, che le informazioni sulla cui base è stata assunta la decisione, in violazione del c.d. dovere di collaborazione istruttoria, sono state oggettivamente travisate, ovvero superate da altre più aggiornate e decisive.
Ora, a fronte di tali indirizzi, il Tribunale per escludere la ricorrenza dei presupposti rispetto alla richiesta di protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14 lett. c) ha espressamente richiamato le COI relative all’anno 2017-2018, escludendo l’esistenza di violenza generalizzata in relazione alla persistenza di una condizione ritenuta non pericolosa per la generalità della popolazione, poi agganciandole alle informazioni più recenti ed evocando la perdita del potere da parte del presidente Y.J. e l’insediamento del nuovo presidente B.A. nell’anno 2016, per desumerne il cessato pericolo di violenze indiscriminate nel Paese. Tale ricostruzione è dunque esente dalle censure prospettate sotto il profilo dell’omesso esame di fonti informative attuali quanto rispetto al contenuto della decisione, per il resto invadendo il merito della pronunzia, risulta invece insindacabile in questa sede. Ne’ gli stralci di fonti informative riprodotte nelle censure dalla parte ricorrente consentono di ritenere che il Tribunale sia incorsa nel travisamento delle fonti dalla stessa esaminate;
– con il secondo motivo viene denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – l’omesso esame delle dichiarazioni rese dal ricorrente alla Commissione territoriale e delle allegazioni portate in giudizio per la valutazione della condizione personale del ricorrente. Ad avviso del ricorrente la sua situazione sarebbe ascrivibile a categoria debole non fosse altro per la sua giovane età, oltre ad essere assolutamente integrato in Italia. Peraltro egli assume che non potrebbe trovare tutela e protezione per la vicenda narrata nel suo Paese e l’esercizio dei poteri officiosi del giudice lo avrebbe dimostrato. La censura è totalmente destituita di fondamento, posto che il Tribunale ha espresso le ragioni poste a fondamento del mancato riconoscimento di ogni forma di protezione.
Ha escluso che le vicende narrate fossero idonee ad integrare una persecuzione rilevante ai fini del riconoscimento della protezione internazionale e valutandole nel merito ha in ogni caso ritenuto che le stesse esulassero dall’ambito di applicazione del riconoscimento della protezione internazionale non essendo il *****, Paese di provenienza del richiedente, area interessata da un conflitto armato interno o internazionale.
Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (da ultimo: Cass. n. 3340 del 2019; Cass. n. 20580 del 2019).
Rispetto all’indicato principio, che risponde a consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, fermo ogni altro profilo di critica, la censurabilità del racconto sub specie del vizio motivazionale, nella sua tendenziale insindacabilità nell’ambito del giudizio di legittimità, deve in ogni caso, ove introdotta, farsi carico di segnalare, nei termini sopra indicati, quale fatto sia stato omesso, nella sua decisività, nella valutazione del giudice del merito, non potendo limitarsi a denunciarne genericamente l’omissione.
Il ricorrente censura le affermazioni del giudice di merito ritenendo che non si sia valorizzato la reale condizione del suo Paese, senza però spiegarne le ragioni ovvero allegando fatti di rilevanza che sarebbero contenuti in fonti di informazione diverse, difettando, così, la doglianza di cui trattasi di sufficiente specificità e di autosufficienza.
Parimenti inammissibili sono le allegazioni operate con il secondo profilo del motivo, che vorrebbero rappresentare il richiedente quale soggetto appartenente a categoria debole, che oltre a costituire una critica puramente motivazionale, non più rappresentabile alla stregua del novellato disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 quale idoneo vizio cassatorio, sollecita – e peraltro in modo del tutto generico una rivisitazione delle risultanze di fatto della vicenda e del giudizio riguardo ad esse enunciato dal giudice di merito, che ha inteso escludere le ragioni di concessione della misura richiesta dando, tra l’altro, atto insieme all’insussistenza di oggettivi fattori di rischio in caso di rimpatrio, della situazione nella area di provenienza in ***** del S..
Invero, alla stregua del dato normativo il richiedente la protezione internazionale è tenuto a presentare “tutti gli elementi e la documentazione necessari” a motivare la domanda medesima, il cui esame è poi destinato ad essere “svolto in cooperazione con il richiedente”, e cioè in un’ottica di sinergica collaborazione, e “riguarda tutti gli elementi significativi della domanda”, misurandosi con l’intero ventaglio dei requisiti rilevanti, siccome presentati dall’interessato, perché la domanda di protezione internazionale, nelle sue diverse forme, riconoscimento dello status di rifugiato o protezione sussidiaria, possa essere accolta (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 1). Detto onere di presentazione degli “elementi” e della “documentazione” concerne, in specifico, oltre all’età, alla condizione sociale, se necessario anche dei congiunti, all’identità, alla cittadinanza, ai paesi e luoghi in cui il ricorrente ha soggiornato, le domande d’asilo pregresse, gli itinerari di viaggio, i documenti di identità e di viaggio, anche, e diremmo soprattutto, “i motivi della sua domanda di protezione internazionale” (comma 2).
La latitudine degli oneri di allegazione e prova a carico del richiedente emerge altresì dal comma 3 della disposizione, dall’angolo visuale della valutazione della domanda di protezione internazionale, da effettuarsi su base individuale, e cioè in relazione alle circostanze come allegate dal richiedente, valutazione che deve estendersi a tutti i fatti pertinenti concernenti il Paese d’origine; alle persecuzioni o danni gravi che egli deve rendere noto di aver subito o di rischiare di subire; alla situazione individuale ed alle circostanze personali rilevanti al fine di verificare se gli atti indicati, come subiti o paventati, si configurino effettivamente come persecuzione o danno grave; alla condotta del richiedente, ove egli abbia operato al fine di creare le condizioni necessarie alla presentazione della domanda di protezione internazionale, e se ciò lo esponga a persecuzione o danno grave in caso di rientro nel Paese; all’eventualità che il richiedente possa far ricorso alla protezione di un altro Paese.
Ebbene, laddove l’art. 3 citato stabilisce che il richiedente “e’ tenuto a presentare… tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda”, si riferisce, come si premetteva, tanto agli oneri di allegazione (per il che il richiedente deve presentare, ed in tal senso allegare, gli elementi dedotti a sostegno della domanda), quanto a quelli probatori (per il che il richiedente deve presentare, ed in tal senso produrre, la documentazione necessaria). E’ allora manifesto come le ragioni fondanti la domanda di protezione, sia sussidiaria sia umanitaria, debbano essere senz’altro anzitutto allegate dall’interessato.
Sicché, il richiedente ha il preciso onere di offrire agli organi del Paese al quale rivolge la domanda di protezione ogni elemento utile allo scrutinio di essa: e ciò egli deve fare in un’ottica di schietta collaborazione con tali organi, evidente essendo che la previsione normativa, laddove impone di procedere all’esame della domanda di protezione internazionale “in cooperazione con il richiedente”, richiede un atteggiamento collaborativo reciproco, giacché, sul piano della logica prima ancora che su quello del diritto, non è pensabile che la Commissione territoriale, come pure il giudice, possa cooperare, e cioè operare insieme, ad un richiedente che, al contrario, non offra la collaborazione dovuta.
Il principio è stato così massimato: la domanda di protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (cfr Cass. n. 19197 del 2015).
Una volta allegati, i fatti posti a sostegno della domanda di protezione internazionale vanno provati dal richiedente, sia pure entro speciali limiti, e con peculiari agevolazioni, come subito si vedrà: in linea di principio, cioè, il giudizio volto al riconoscimento della protezione internazionale, come si desume dalla già citata previsione che sollecita il richiedente a depositare la documentazione necessaria, non si sottrae, salvo quanto si dirà, all’applicazione delle regole generali dettate in ordine al riparto dell’onere probatorio dall’art. 2697 c.c., comma 1: con la conseguenza che, se la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale non sono provati, la domanda è da rigettare.
E difatti è ben possibile che il richiedente, dopo aver assolto l’ineludibile onere di allegare le circostanze poste a sostegno della domanda di protezione internazionale, sia talora in condizione altresì di comprovarne il fondamento; ma è ampiamente intuitivo che egli, proprio a cagione delle persecuzioni o danni gravi subiti nel Paese di provenienza, o anche solo paventati, possa non essere in grado di offrire la prova di dette circostanze: e tale è il contesto in cui la norma in esame tempera il principio dispositivo, disciplinando, tra l’altro, il dovere c.d. di cooperazione istruttoria.
Stabilisce difatti il menzionato art. 3, comma 5 che, qualora taluni elementi posti a sostegno della domanda di protezione internazionale non siano suffragati da prove, prove che dunque la norma ribadisce di porre di regola a carico dell’interessato, essi sono considerati veritieri ove possa ritenersi che il richiedente, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda, abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla e, così, abbia offerto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso ed abbia fornito una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi ovvero abbia fornito dichiarazioni coerenti e plausibili e non in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone, e risulti altresì, in generale credibile.
Tale disposizione, è stato detto in una nota decisione che ha enucleato il c.d. dovere di cooperazione istruttoria, “affida all’autorità esaminante un ruolo attivo ed integrativo nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, con la possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione reperibile per verificare la sussistenza delle condizioni della protezione internazionale” (Cass., Sez. Un., 17 novembre 2008 n. 27310).
Accanto al c.d. dovere di cooperazione istruttoria, peraltro, la norma contempla un ulteriore aspetto tale da comprimere il principio dispositivo, laddove consente altresì di porre a base del riconoscimento della protezione internazionale fatti che provati non sono, alla sola condizione che ricorrano le condizioni considerate dall’art. 3, comma 5 in esame.
Facendo il punto di quanto finora si è detto, è evidente, da un lato, che l’attenuazione del principio dispositivo in cui la c.d. “cooperazione istruttoria” si collochi non dal versante dell’allegazione, ma esclusivamente da quello della prova, dacché l’allegazione deve essere adeguatamente circostanziata; dall’altro lato, che il dovere di cooperazione istruttoria, collocato esclusivamente dal versante probatorio, trova per espressa previsione normativa un preciso limite tanto nella reticenza del richiedente (in ciò risolvendosi l’omissione di uno sforzo ragionevole per circostanziare i fatti) quanto nella non credibilità delle circostanze che egli pone a sostegno della domanda. Si tratta quindi di deficienze, reticenza e non credibilità, parimenti riferibili al quadro delle allegazioni, di guisa che, intanto si concretizza il dovere di cooperazione istruttoria, in quanto si sia in presenza di allegazioni precise, complete, circostanziate e credibili, e non invece generiche, non personalizzate, stereotipate, approssimative e, a maggior ragione, non credibili.
In altri termini, compete al richiedente innescare l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria, per cui egli non incontra difficoltà alcuna ove la sua narrazione sia vera e reale (cfr Cass. n. 15794 del 2019). La soggezione del richiedente alla valutazione di credibilità, per lo scopo dell’innesco del c.d. dovere di cooperazione istruttoria, lungi dal comprimere o limitare l’esercizio del diritto alla protezione internazionale, ne costituisce viceversa intensa agevolazione: a fronte della regola generale dettata dal citato art. 2697 c.c., in forza del quale l’attore è onerato della prova dei fatti costitutivi della domanda, la speciale disciplina dettata in materia di protezione internazionale offre al richiedente, come si è visto, non solo di cooperare con lui nella ricerca di quelle prove che egli non abbia potuto offrire, ma finanche di credergli pur in difetto di prova.
Nel provvedimento impugnato, il giudicante ha puntualmente scongiurato l’eventualità di un concreto rischio di persecuzione, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ed ha verificato l’assenza di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica del ricorrente per quanto sopra esposto, ragioni non condivise dal ricorrente;
– con il terzo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 per non avere riconosciuto la protezione sussidiaria cui egli avrebbe diritto ex lege in ragione delle attuali condizioni socio politiche del Paese di origine.
La doglianza è inammissibile per avere il provvedimento impugnato motivato il convincimento sulla base di accreditate fonti di informazione specificamente indicate, nel rispetto dunque del disposto sia del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 sia del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, e la critica svolta al riguardo in ricorso si sostanzia nella richiesta di un riesame di tale valutazione, non consentita in sede di verifica di legittimità, neppure sotto il profilo del vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ove come nella specie – la doglianza non attenga all’omesso esame di un fatto decisivo puntualmente indicato in ricorso (che si limita ad indicare una fonte di informazione e conoscenza che secondo il ricorrente avrebbero raggiunto conclusioni difformi da quella del provvedimento qui impugnato).
Quanto alla forma di protezione sussidiaria prevista dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), la doglianza, pur formulata nei termini della violazione di legge, si risolve nella denuncia di un vizio di motivazione neppure formalmente dedotto.
In ogni caso, l’obbligo del giudice di cooperare, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nell’accertare la situazione reale del paese di provenienza del richiedente mediante l’esercizio di poteri-doveri officiosi d’indagine, può dirsi adempiuto mediante la specifica indicazione delle fonti in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto (Cass. n. 11312 del 2019: nel caso di specie il report 2017 2018 di Amnesty International ed il sito del Ministero degli esteri in pari data).
A fronte di tale accertamento, le circostanze indicate dal ricorrente, non risultano decisive in quanto non vengono dedotte situazioni di violenza idonee ad integrare il presupposto previsto dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14.
Il ricorrente, infatti, si limita ad affermare che il ***** sarebbe ancora pericoloso e non vi sarebbe alcuna forma di tutela da parte delle autorità.
Questa Corte ha affermato, anche di recente, che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 14, la nozione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria (Cass. 2 ottobre 2019 n. 24647).
La situazione denunciata in ricorso, pur nella perturbata sua consistenza, non vale ad integrare l’indicato estremo e a censurare in modo concludente la decisione, per essere state esclusi rilievi ad evidenze di sostegno di ipotesi legittimanti il riconoscimento della protezione sussidiaria in tutte le fattispecie di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14.
Alla luce degli enunciati principi, la censura del ricorrente si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. 13 agosto 2018 n. 20721);
– con il quarto motivo è denunciata – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19 quanto alla mancata concessione della protezione umanitaria, che – ad avviso del ricorrente – avrebbe dovuto essere accordata proprio in ragione delle condizioni del suo paese di origine ed essendo egli ormai giunto in Italia.
Il motivo è generico e come tale inammissibile nel carattere meramente assertivo e descrittivo assolto dal medesimo che richiama contenuti di norme e principi di loro interpretazione non puntualizzati in relazione al caso concreto.
A siffatto rilievo si accompagna, altresì, la considerazione che la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore” (Cass. n. 21123 del 2019).
Il ricorrente denuncia la violazione dell’istituto senza indicare al di là della provenienza, il *****, i motivi di vulnerabilità della propria condizione, che resta genericamente dedotta a fronte di un sistema a tutele tipizzate.
Inoltre nessun dirimente rilievo dispiega, ai fini della prova del profilo dell’avvenuta integrazione sociale del richiedente in funzione del riconoscimento del presidio tutorio di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, la sola frequenza di corsi di italiano. Peraltro, quand’anche effettivamente conseguita, l’integrazione non risulta neanche allegata ed è ben lungi dall’esaurire la piattaforma dei presupposti richiesti per il riconoscimento della protezione minore, ai cui fini è necessaria, secondo la più autorevole interpretazione di questa Corte regolatrice: “la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato” (Cass., Sez. Un., n. 29459 del 2019).
Ne’ è possibile valutare la sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria dalle migliori condizioni di vita che sarebbero assicurate a lui e alla sua famiglia dalla permanenza in Italia piuttosto che nel Paese di origine, non costituendo siffatta sproporzione ragione per l’acquisizione di un diritto in tal senso (Cass. n. 32213 del 2018).
In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio ***** ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso;
condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore dell’Amministrazione che liquida in complessivi Euro 2.000,00 oltre a spese prenotate e prenotande a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, il 28 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021