Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.33677 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro Maria – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28877/2020 proposto da:

A.A., rappresentato e difeso per procura speciale dall’avv. Francesco Tartini, con domicilio eletto in Roma, via Casale Strozzi 31. presso lo studio legale Barberio;

– ricorrente –

contro

Commissione Territoriale Per il Riconoscimento Della Protezione Internazionale, Ministero Dell’Interno, *****;

– intimato –

avverso la sentenza n. 335/2020 della CORTE D’APPELLO di Venezia depositata in data 3.2.2020.

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 13/10/2021 da Dott. CAPRIOLI MAURA.

FATTO E DIRITTO

A.A., cittadino della Nigeria proponeva opposizione avanti il Tribunale di Venezia avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale emesso dalla competente Commissione Territoriale, chiedendo il riconoscimento del diritto al rilascio.

Il giudice di primo grado rigettava il ricorso.

Il richiedente proponeva appello avanti alla Corte di appello di Venezia che con la decisione qui impugnata lo respingeva ritenendo non credibile il suo racconto in ordine al suo orientamento sessuale in considerazione delle contraddizioni in esso rilevate e della genericità del narrato.

Il ricorrente propone ricorso per cassazione articolato in 7 motivi.

Il Ministero dell’interno, non costituito in termini mediante controricorso, ha depositato atto di costituzione ai fini dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa.

Con un primo motivo si censura la nullità della sentenza per motivazione apparente in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4 e dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione alla ritenuta non credibilità del richiedente.

Con un secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione di legge nella valutazione delle dichiarazioni del ricorrente e omessa collaborazione nell’accertamento dei fatti in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, con riferimento al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 1 e 5, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, art. 27, comma 1 bis e art. 35 bis, n. 9.

Con un terzo motivo si denuncia l’apoditticità della motivazione in relazione alla protezione umanitaria art. 5, comma 6 T.U. Immigrazione.

Con un quarto motivo si censura sempre con riferimento alla protezione umanitaria la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per la mancata valutazione dell’effettiva integrazione lavorativa in Italia del richiedente; la motivazione perplessa in relazione alla situazione della sicurezza interna della Nigeria e alla conseguente nullità della decisione(rubricato sotto motivo nr. 5); il non corretto richiamo alla non credibilità della vicenda personale violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (motivo sesto) e infine l’omessa comparazione fra la situazione in Italia del ricorrente e la prospettiva di rimpatrio in Nigeria (motivo 7).

Il primo motivo è infondato.

Non è configurabile il vizio di motivazione apparente.

non essendo ravvisabile, in relazione alle statuizioni contenute nella decisione impugnata, alcuna anomalia motivazionale destinata ad acquistare significato e rilevanza alla stregua delle pronunce a Sezioni Unite di questa Corte n. 8053 del 2014 e n. 22232 del 2016.

Ricorre infatti il vizio di motivazione meramente apparente allorquando il giudice omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione e di specificare ed illustrare le ragioni che sorreggono il decisum e l’iter logico seguito per pervenire alla pronuncia assunta, onde consentire di verificare se abbia giudicato iuxta alligata et probata, non può non rilevarsi che il giudice di appello ha compiutamente esplicitato il proprio iter argomentativo, esaminando in modo esaustivo i fatti oggetto di discussione e chiarendo le ragioni del suo convincimento.

Nella specie, anche in base alla stessa prospettazione del mezzo, non si può ritenere che la sentenza impugnata sia carente o incoerente sul piano della logica giuridica, né tanto meno che sia stata costruita in modo tale da rendere impossibile un controllo sulla esattezza del ragionamento decisorio e, quindi, tale da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6 (Cass., sez. 1, 30/06/2020, n. 13248).

Il giudice di appello ha ben spiegato le ragioni per le quali il racconto doveva ritenersi inattendibile, precisando le numerose contraddizioni in cui il richiedente era incorso e la lacunosità del narrato (cf. pag. 5 e 6).

Il secondo motivo è inammissibile.

Giova ricordare che, come ancora recentemente chiarito da Cass. n. 31481 del 2018 e da Cass. n. 16295 del 2018, in tema di valutazione della credibilità soggettiva del richiedente e di esercizio, da parte del giudice, dei propri poteri istruttori officiosi rispetto al contesto sociale, politico e ordinamentale del Paese di provenienza del primo, la valutazione del giudice deve prendere le mosse da una versione precisa e credibile, benché sfornita di prova (perché non reperibile o non richiedibile), della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è indispensabile perché il giudice debba dispiegare il suo intervento istruttorio ed informativo officioso sulla situazione persecutoria addotta nel Paese di origine (cfr. Cass. n. 21668 del 2015; Cass. n. 5224 del 2013. Principio affatto analogo è stato, peraltro, ribadito dalla più recente Cass. n. 17850 del 2018). Infatti, le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono un approfondimento istruttorio officioso, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (cfr. Cass. n. 16295 del 2018; Cass. n. 7333 del 2015).

Nella specie, la corte distrettuale ha espresso confermando l’analoga valutazione del tribunale – un giudizio negativo sulla credibilità del richiedente (cfr., amplius, pag. 5-6 della sentenza impugnata), in maniera del tutto conforme ai parametri cui l’autorità amministrativa e, in sede di ricorso, quella giurisdizionale, sono tenute ad attenersi ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.

Va rimarcato, allora, che la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente puntualizzato Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 17536 del 2020; Cass. n. 18446 del 2019) che: i) la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (cfr., ex multis, Cass. n. 6191 del 2020, in motivazione; Cass. n. 32064 del 2018; Cass. n. 30105 del 2018) e censurabile in Cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile (tutte fattispecie qui insussistenti), dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr., nel medesimo senso, Cass. n. 18550 del 2020; Cass. n. 17539 del 2020; Cass. n. 3340 del 2019).

Il terzo,quarto e quinto motivo afferenti alla questione della protezione umanitaria sono per un verso infondati e per altri inammissibili.

In primo luogo va escluso il vizio di motivazione apparente, non essendo ravvisabile, in relazione alle statuizioni contenute nella decisione impugnata, alcuna anomalia motivazionale destinata ad acquistare significato e rilevanza alla stregua delle pronunce a Sezioni Unite di questa Corte n. 8053 del 2014 e n. 22232 del 2016.

Ricorre infatti il vizio di motivazione meramente apparente allorquando il giudice omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione e di specificare ed illustrare le ragioni che sorreggono il decisum e l’iter logico seguito per pervenire alla pronuncia assunta, onde consentire di verificare se abbia giudicato iuxta alligata et probata, non può non rilevarsi che il giudice di appello ha compiutamente esplicitato il proprio iter argomentativo, esaminando in modo esaustivo i fatti oggetto di discussione e chiarendo le ragioni del suo convincimento.

Nella specie, anche in base alla stessa prospettazione del mezzo, non si può ritenere che la sentenza impugnata sia carente o incoerente sul piano della logica giuridica, né tanto meno che sia stata costruita in modo tale da rendere impossibile un controllo sulla esattezza del ragionamento decisorio e, quindi, tale da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6 (Cass., sez. 1, 30/06/2020, n. 13248).

Il giudice di appello ha infatti escluso profili di vulnerabilità soggettiva alla luce della non credibilità della storia narrata ritenendo irrilevanti ai fini della misura i disagi patiti nei paesi di transito.

Ha anche escluso che un qualche rilievo potesse assumere la mera allegazione di aver raggiunto un grado di integrazione sociale nel nostro Paese non desumbile da sporadiche prestazioni lavorative mettendo peraltro in evidenza la mancanza di una prova della compromissione del nucleo fondamentale dei diritti di cui all’art. 2 Cost., nel caso di specie mancanti per quanto si evince dalle Coi.

Con riferimento al motivo nr. 4 la censura è fondata nei termini di seguito esposti. Come è noto il diritto alla protezione umanitaria è in ogni caso collegato alla sussistenza di “seri motivi”, non tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore (prima della Novella di cui al D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018), cosicché essi costituiscono un catalogo aperto, tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità individuale attuali o pronosticate in dipendenza del rimpatrio: non può essere in nessun caso elusa la verifica della sussistenza di una condizione personale di vulnerabilità, occorrendo dunque una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio: i seri motivi di carattere umanitario possono allora positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti non soltanto un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, ma siano individuabili specifiche correlazioni tra tale sproporzione e la vicenda personale del richiedente, “perché altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al citato D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6” (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

Di recente le S.U. della Corte con sentenza nr. 24413/2021, ha ridisegnato i contorni della comparazione che il giudice di merito è chiamato a svolgere senza discostarsi dalla lettura offerta dalla precedente decisione nr. 29459/2019 in merito all’istituto della protezione umanitaria.

Il focus della comparazione, secondo il recentissimo indirizzo, va incentrato sul rispetto dei diritti umani senza che assuma rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto dal richiedente in Italia isolatamente considerato.

Tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese d’origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano. Situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese d’origine possono fondare il diritto del richiedente alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia. Per contro, quando si accerti che tale livello sia stato raggiunto, se il ritorno in Paesi d’origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare, sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’art. 5 T.U. cit., per riconoscere il permesso di soggiorno.

Nel caso di specie, emerge dalla lettura della sentenza impugnata che, nella valutazione in ordine al riconoscimento della misura di protezione umanitaria il giudice del merito non ha tenuto conto del livello di integrazione raggiunto dal richiedente omettendo di considerare la dedotta esistenza di un stabile rapporto lavorativo (contratto di apprendistato per cinque anni doc. 13 a doc. 16) nonché l’eventuale esistenza di rapporto locativo e di legami affettivi sorti nel Paese di accoglienza, ed e’, pertanto, incorsa nella violazione della norma censurata.

Resta da aggiungere che, come di recente pure chiarito da questa Corte (Cass. n. 11178/2019), la cassazione della pronuncia impugnata con rinvio per un vizio di violazione o falsa applicazione di legge che reimposti in virtù di un nuovo orientamento interpretativo i termini giuridici della controversia così da richiedere l’accertamento di fatti, intesi in senso storico e normativo, non trattati dalle parti e non esaminati dal giudice del merito, impone, perché si possa dispiegare effettivamente il diritto di difesa, che le parti siano rimesse nei poteri di allegazione e prova conseguenti alle esigenze istruttorie conseguenti al nuovo principio di diritto da applicare in sede di giudizio di rinvio.

Ogni altra considerazione sviluppata nel motivi nr. 5 e 6 resta assorbita.

P.Q.M.

La Corte accoglie nei termini di cui in motivazione il quarto motivo di ricorso, assorbiti il quinto e sesto, rigettati i primi tre cassa la decisione impugnata e rinvia alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, per un nuovo esame della questione umanitaria e per la liquidazione delle spese di legittimità.

Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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