LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
Dott. VELLA Paola – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
Dott. FRAULINI Paolo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 05227/2014 R.G. proposto da:
FALLIMENTO ***** S.R.L., in persona del curatore p.t., rappr. e dif. dall’avv. Antonio Baccari, elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, alla via Monte Santo n. 52, come da procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
PRESTITALIA S.P.A. – SOCIETA’ PER AZIONI CON SOCIO UNICO, in persona del l.r.p.t., rappr. e dif. dall’avv. Ester Dattolo, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. Giancarlo Nuné, in Roma, Lungotevere Flaminio n. 34, come da procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
per la cassazione del decreto del Tribunale di Nola del 20/01/2014, n. 59/2014, rep. n. 277/14, in R.G. n. 1031 del 2012;
Letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. De Matteis Stanislao, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo di ricorso;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27 OTTOBRE 2021 dal Consigliere Dott. PAOLO FRAULINI.
FATTI DI CAUSA
1. Il Fallimento ***** s.r.l. impugna il decreto in epigrafe che ha accolto l’opposizione allo stato passivo proposta da Prestitalia S.p.A., così ammettendone al passivo il credito per Euro 62.827,41 in privilegio ex art. 2751-bis c.c., n. 1, dopo che il giudice delegato aveva riconosciuto – sulla maggiore domanda di complessivi Euro 108.871,85 – il minore importo di Euro 46.044,44;
2. il Tribunale, premesso che: a) la domanda aveva a oggetto il credito relativo a contratti di mutuo con cessione del quinto dello stipendio stipulati da sei lavoratori della società fallita, per le rate mensili di ammortamento fino alla data del fallimento della società datrice (30.3.2011); b) l’iniziale rigetto concerneva invece il medesimo credito fatto valere sul trattamento di fine rapporto (in prosieguo, breviter, t.f.r.) maturato (per cinque lavoratori) in corso di fallimento, stante la pendenza dei rispettivi rapporti; c) la curatela aveva avversato la domanda, rilevando che i predetti rapporti erano cessati dopo la dichiarazione di fallimento per effetto dell’ammissione della fallita alla cassa integrazione salariale, prima del fallimento e poi, in virtù della proroga richiesta dal medesimo organo, dal 30.3.2011 al 29.3.2012, conseguendone il difetto di legittimazione attiva dell’opponente e altresì la carenza di interesse ad agire, non avendo essa provato di aver escusso ovvero incassato la copertura assicurativa con cui i cedenti il medesimo credito avevano protetto il finanziamento dal rischio di perdita dell’occupazione, infine contestando il quantum e la qualità prelatizia;
3. tanto premesso, il Tribunale ha ritenuto che: 1) la cessione del credito futuro per t.f.r. era opponibile al fallimento del debitore, anche se il credito era divenuto esigibile dopo la relativa pronuncia, poiché stipulata, in epoca di data certa anteriore, come clausola inerente ai mutui, conclusi dalla società con ciascuno dei lavoratori; 2) la cessione e, per vero, la “costituzione in pegno” a favore della società mutuante “su parte del credito per t.f.r. dei lavoratori”, era stata notificata al datore (debitore ceduto), “unitamente alla lettera di benestare”, risultando così assolta la condizione di efficacia dell’art. 1264 c.c.; 3) accanto alla legittimazione passiva della fallita, sorta prima del fallimento, si poneva la sopravvenuta e opponibile legittimazione attiva della società cessionaria e così garantita, trattandosi di “credito certo, anche se non ancora determinato”, già “venuto ad esistenza”, non dissimilmente da quanto accade quando il trasferimento della titolarità avvenga direttamente in epoca post-fallimentare e ai fini dei riparti L.Fall., ex art. 115, comma 2; 4) le altre contestazioni di merito erano infondate, non avendo il curatore dimostrato altre cause di estinzione del debito, essendo sufficiente, per l’ammissione, provare il contratto e dedurne l’inadempimento;
4. il ricorso per cassazione è affidato a tre motivi, cui resiste con controricorso Prestitalia S.p.A.;
5. Con ordinanza interlocutoria n. 10211/2021 del 16 aprile 2021, resa all’esito dell’udienza camerale non partecipata dell’8 marzo 2021, la Corte ha ritenuto di dover disporre la trattazione della controversia all’odierna udienza pubblica.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso lamenta:
a. Primo motivo: “Violazione o falsa applicazione della L. Fall., art. 52, nonché degli artt. 1264,1265 e 2120 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, deducendo il mancato rispetto del principio della cristallizzazione del passivo, per aver ritenuto la società fallita passivamente legittimata, nonostante i lavoratori avessero maturato il t.f.r., in precedenza ceduto, solo in epoca successiva al fallimento e, dunque, per aver erroneamente ammesso al passivo un creditore che tale non era al momento della dichiarazione di fallimento, in quanto non titolare di alcun credito:
b. Secondo motivo: “Violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, deducendo l’erroneità del provvedimento impugnato per non avere il tribunale ammesso i mezzi istruttori richiesti, volti a dimostrare che il credito, garantito da un’assicurazione, poteva risultare già estinto con l’indennizzo incassato;
c. Terzo motivo: “Violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., comma 1, nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, deducendo l’erroneità del decreto, posto che l’ammontare dei t.f.r. maturati dai dipendenti-cedenti non si evinceva da alcun documento depositato dalla società Prestitalia, né era desumibile da altro.
2. Il ricorso va respinto.
3. Il primo motivo è infondato. Come già rilevato da questa Corte nella citata ordinanza interlocutoria:
a. risulta incontestato in atti che la cessione (rectius: la costituzione in pegno) anche del t.f.r., oltre che delle quote stipendiali, in ammortamento dei mutui stipulati dai dipendenti della fallita con la società Prestitalia S.p.A., è avvenuta nell’ambito di negozi conclusi anteriormente alla dichiarazione di fallimento del debitore ceduto; al fine di stabilire la legittimazione del cessionario, occorre, tuttavia, armonizzare il principio di eventuale opponibilità al fallimento del contraente ceduto con le regole di esigibilità del t.f.r., quale oggetto di credito e di successiva sua cessione a terzi;
b. il t.f.r. diviene esigibile integralmente (ai fini di trasferimento definitivo del bene), di regola (e cioè salvo le anticipazioni parziali ad istanza), solo con la cessazione del rapporto di lavoro, ex art. 2120 c.c. ed è pacifico che ben può essere oggetto di una cessione anticipata, quale credito futuro (con piena efficacia negoziale obbligatoria), operando in tema di crediti futuri il principio per cui “la mancanza dei requisiti di certezza e liquidità, così come non inficia l’efficacia traslativa dell’atto di cessione, purché si tratti di un credito non meramente eventuale, in quanto destinato a maturare nell’ambito di un rapporto identificato e già esistente, non incide neppure sulla pignorabilità del credito, e non preclude quindi l’azione esecutiva sullo stesso, posto che il pignoramento pone sul bene un vincolo che ha senso solo se ne sia ipotizzabile l’alienabilità” (Cass. 19501/2009, id. 1607/2017);
c. ne deriva che, stipulato il negozio di cessione, pur se le parti non debbono più negoziare il medesimo diritto e se anche il negozio sia opponibile al terzo, nel frattempo dichiarato fallito, il relativo acquisto non sarà immediato e automatico, in capo al cessionario, se non in virtù di una domanda.
Ritiene la Corte che il coordinamento, invocato nell’ordinanza interlocutoria, degli istituti del diritto del lavoro inerenti al t.f.r. e le modalità della sua cessione con quelli del diritto concorsuale in tema di ammissibilità dei crediti al passivo, possa declinarsi nei seguenti termini.
1) La disciplina della cessione a opera del lavoratore del proprio trattamento di fine rapporto, anche nell’interpretazione data da questa Corte regolatrice, è caratterizzata da particolare rigore, venendo in gioco le garanzie di effettività e di tutela che accompagnano tradizionalmente la posizione del dipendente nella complessa disciplina del diritto del lavoro.
2) In via generale, alla luce del diritto del lavoro, la facoltà del lavoratore di cedere il proprio t.f.r. non è soggetta a limitazioni quantitative (Sez. L, Sentenza n. 3913 del 17/02/2020), o tipologiche che ne differenzino la natura rispetto alla generalità dei crediti cedibili (Sez. L, Sentenza n. 4930 del 01/04/2003); la legislazione laburistica è intervenuta, tuttavia, a più livelli con la finalità di garantire che il t.f.r. maturato dal lavoratore, quale forma di retribuzione differita al momento della cessione del rapporto di lavoro, sia al massimo grado insensibile alle vicende che, per effetto delle sorti del contratto di lavoro o della solvibilità della parte datoriale, possano minarne l’effettiva possibilità di percezione. E ciò ha fatto sia istituendo forme di previdenza pubblica per le ipotesi di insolvenza del datore di lavoro, quali il Fondo di garanzia di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2 (Sez. L, Sentenza n. 10208 del 18/04/2008), sia prevedendo meccanismi di solidarietà tra cedente e cessionario in ipotesi di trasferimento di azienda, finalizzati a garantire che, al momento della risoluzione del rapporto di lavoro, il dipendente possa pretenderne il pagamento integrale indifferentemente nei confronti del cedente o del cessionario (Sez. L, Sentenza n. 19291 del 22/09/2011).
3) Corollario di tali premesse è l’affermazione, parimenti costante nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui dalla natura di retribuzione differita del t.f.r. deriva che la sua esigibilità si individua nel momento dello scioglimento del rapporto di lavoro (Sez. L, Sentenza n. 2827 del 06/02/2018; Sez. L, Sentenza n. 16845 del 07/07/2017; Sez. L, Sentenza n. 11579 del 23/05/2014), dal quale decorre altresì il termine prescrizionale della relativa pretesa di pagamento. Tanto comporta, sempre in ottica laburistica, che l’insolvenza del datore di lavoro, e le vicende connesse all’ammissione la passivo dei crediti per t.f.r. dei suoi dipendenti, siano legati alla stessa condizione e, in ogni caso, non possano incidere sulla piena legittimazione del Fondo di garanzia a eccepire l’inesigibilità del credito erroneamente ammesso al passivo (Sez. L, Sentenza n. 19277 del 19/07/2018; Sez. L, Sentenza n. 4897 del 23/02/2021).
4) La proiezione di siffatta ricostruzione nella disciplina del diritto concorsuale ha portato questa Corte ad affermare, in una logica di stretta coerenza con la citata ricostruzione dell’istituto, che, in ipotesi di insolvenza del datore di lavoro, il credito per t.f.r. possa essere ammesso al passivo, se del caso riserva, solo se il rapporto di lavoro sia già sciolto (Sez. 1, Ordinanza n. 5376 del 27/02/2020). Tuttavia, nella giurisprudenza di questa Corte, esistono precedenti che hanno ritenuto ammissibile e addirittura doverosa la domanda di ammissione al passivo per rivendicare il credito nei confronti della massa, qualificandosi, come è noto, non già come domanda di mero accertamento del credito, ma come costitutiva del titolo partecipativo al concorso fra creditori sul ricavato della liquidazione e dunque al suo effettivo soddisfacimento. In tale ottica, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che sussiste l’interesse del lavoratore a chiedere l’accertamento del “T.F.R. maturato fino al momento della vendita d’azienda… verso il datore di lavoro cedente…pur se esigibile dopo la futura cessazione del rapporto di lavoro subordinato, che funge da termine per l’adempimento” restando “azionabile contro il cessionario solo se risulti dallo stato passivo del fallimento dante causa”, al punto che la mancata ammissione allo stato passivo del cedente fallimento era – nel caso suscettibile di determinare la perdita definitiva del diritto al trattamento di fine rapporto, “parziale, per la parte maturata con la società fallita, o addirittura totale ove non avesse fatto seguito alla situazione interinale di affitto, senza accollo – vigente alla data di instaurazione dell’opposizione L.Fall., ex art. 98 – l’accordo contrario in sede di cessione definitiva di azienda” (Sez. 1, Sentenza n. 4736 del 23/03/2012, in motivazione).
5) Dunque, non può affermarsi che la preclusione alla legittimazione ad agire per l’accertamento del t.f.r. in ipotesi di mancato scioglimento del rapporto di lavoro sia assoluta. E’ ben vero che il principio di cristallizzazione dello stato passivo garantisce che la pronuncia di accertamento non possa estendere i suoi effetti su un credito non ancora completamente certo nel suo ammontare, se non ad un momento successivo alla dichiarazione di fallimento; ma è altrettanto vero che questa Corte (Sez. 1, Ordinanza n. 5376 del 27/02/2020) ha stabilito il principio della maturazione progressiva del credito da TFR sottolineando come esso maturi progressivamente in ragione dell’accantonamento annuale, divenendo esigibile solo al momento della cessazione definitiva del rapporto di lavoro. Dunque, l’esigibilità del credito è concetto diverso e autonomo rispetto all’accertamento in deroga al principio di cristallizzazione della massa passiva.
6) L’applicazione di tali considerazioni al caso di specie evidenzia come il Tribunale abbia correttamente applicato i principi sopra enunciati: nella fattispecie, infatti, è pacifico che i lavoratori avessero costituito il proprio t.f.r. – nella misura sino all’epoca maturata – in pegno a favore della società erogante il mutuo agli stessi concesso. Dunque, il credito da t.f.r. si era cristallizzato pro quota al momento della dichiarazione di fallimento e, per l’anno successivo a essa dichiarazione, avrebbe potuto dare luogo o a un incremento nullo (per sospensione del rapporto di lavoro), ovvero a un credito prededucibile, nell’ipotesi in cui la curatela avesse utilizzato i lavoratori in funzione delle proprie attività. Ne deriva che, nella specie, l’ammissione al passivo del credito oggetto di lite ha legittimamente avuto luogo con riferimento al segmento anteriore al fallimento, secondo i consueti principi di accertamento del passivo, non risultando violata alcuna regola, nemmeno nell’ipotesi in cui si sia computata anche l’annualità maturata dopo la dichiarazione di fallimento, atteso che quel credito avrebbe dovuto essere erogato in prededuzione. Siffatta conclusione non si pone in contrasto con quanto affermato da questa stessa Sezione (Cassazione Civile, Sez. I, 20 febbraio 2020, n. 4336), atteso che – diversamente che dal caso oggi deciso – in quella fattispecie il dipendente aveva continuato a lavorare per lo stesso imprenditore dopo l’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria; di talché, in quell’occasione, questa Corte ha correttamente deciso che il credito ceduto non fosse ammissibile al passivo giacché non era dato sapere quando il rapporto di lavoro del dipendente con l’impresa in A.S. sarebbe cessato, non potendo, pertanto, escludersi l’eventualità che il debito del medesimo verso il finanziatore si potesse estinguere senza intaccare il trattamento di fine rapporto. Del resto, come sopra evidenziato, l’assolutezza dell’argomento posto a base della tesi qui avversata può essere messa in discussione, sul presupposto che – rispetto al principio di cristallizzazione del passivo – la maturazione progressiva del t.f.r. esplica i suoi effetti, nel senso di rendere il credito certo, sebbene nella sua formazione progressiva, ed esigibile alla condizione che, al momento della decisione, sia verificata l’interruzione del rapporto di lavoro, che fa insorgere il diritto del lavoratore a percepire il suddetto trattamento. E’ ben vero che il richiedente l’ammissione allo stato passivo non può, nel corso del relativo giudizio, ottenere di più di quanto aveva diritto a vedersi riconoscere al momento della presentazione della relativa domanda; ma tale principio non confligge con la possibilità di ammettere al passivo anche crediti non ancora definitivamente accertati, come è ben noto, attraverso l’utilizzazione dell’ammissione con riserva. Ne deriva che è concettualmente ben possibile che l’accertamento del diritto del richiedente l’ammissione allo stato passivo – ferma la sua quantificazione collegata alla relativa domanda – possa essere differito a un momento successivo all’ammissione ed eventualmente anche in fase di opposizione allo stato passivo.
Da tanto deriva che, in relazione alla fattispecie che ne occupa, la già evidenziata natura a formazione progressiva del t.f.r., con conseguente diritto a disporne pro futuro, alla sola condizione del verificarsi del diritto alla percezione del trattamento, ben può ritenersi ammissibile, secondo le ragioni sopra esplicitate. Del resto, la diversa tesi finirebbe per subordinare il diritto del lavoratore a disporre del proprio t.f.r., in funzione di garanzia differita, al comportamento del curatore fallimentare che, in dipendenza della sua solerzia o inerzia a decidere sulla sorte dei rapporti di lavoro pendenti al momento della dichiarazione di fallimento, finirebbe per condizionare l’ammissibilità al passivo del credito del cessionario; con evidenti effetti di ripercussione anche sull’eventuale regresso di quest’ultimo nei confronti del lavoratore cedente, il che non sembra nemmeno in linea con il pieno riconoscimento a quest’ultimo della libera disponibilità delle somme accantonate nel t.f.r. come retribuzione differita, utilizzabili anche, come accaduto nella specie, con funzione di garanzia. Va, infine, precisato che le considerazioni sopra esposte riguardano i soli aspetti concorsuali dell’utilizzazione del t.f.r. e non vanno pertanto a porsi in contrasto con la giurisprudenza laburistica di questa Corte, specie in tema di natura previdenziale degli accantonamenti disposti dal datore di lavoro a tale titolo (Cass. 31 maggio 2012, n. 8695; Cass. 4 aprile 2013, n. 8228, Cass., SS.UU., 9 marzo 2015, n. 4684) o di implicazioni dell’istituto con il ruolo del Fondo di Garanzia dell’INPS (su cui, Cass. 28 novembre 2019, n. 31128).
7) La reiezione del primo motivo di ricorso comporta l’assorbimento delle altre due censure, che lamentano omissioni istruttorie la cui rilevanza sussisterebbe solo in ipotesi di fondatezza del primo mezzo di impugnazione.
8) Le spese di lite, liquidate come indicato in dispositivo, seguono la soccombenza.
9) Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto (Cass. S.U., n. 4315 del 20 febbraio 2020).
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il Fallimento ***** s.r.l. a rifondere a Prestitalia S.p.A. le spese della presente fase di legittimità, che liquida in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 27 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2021
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