Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.34072 del 12/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25073-2017 proposto da:

FINCANTIERI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI GIUSEPPE FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ENZO MORRICO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

G.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO 58, presso lo studio degli avvocati BRUNO COSSU, SAVINA BOMBOI, che lo rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 215/2017 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 26/04/2017 R.G.N. 21/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/03/2021 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE.

PREMESSO che con sent. n. 215/2017, depositata il 26 aprile 2017, la Corte di appello di Genova ha confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della medesima sede, pronunciando nel giudizio promosso da G.M. nei confronti di Fincantieri S.p.A., aveva accertato il diritto dell’attore al superiore inquadramento nella Quarta categoria del c.c.n.l. Industria metalmeccanica, in luogo della Terza che gli era stata assegnata, nonché il diritto al compenso per lavoro straordinario in relazione al tempo impiegato a inizio e fine turno per indossare la tuta e i dispositivi di protezione individuale previsti, con la condanna della società al pagamento delle conseguenti differenze retributive;

– che a sostegno della propria decisione la Corte territoriale ha osservato, riguardo al superiore inquadramento richiesto, previo esame delle declaratorie e del materiale di prova, come tra i compiti preminenti assegnati al ricorrente vi fossero quelli di rilasciare i “permessi di fiamma” per i lavori all’interno della nave, di coordinare le varie lavorazioni a bordo affinché le stesse avvenissero in sicurezza e di controllare l’impianto antincendio provvisorio e come tali mansioni fossero maggiormente corrispondenti a quelle descritte nel c.c.n.l. per la Quarta categoria, sia sotto il profilo del controllo di altri lavoratori, elemento invece del tutto assente nella Terza categoria, sia sotto il profilo delle attività esecutive svolte, attinenti alla sicurezza e alla prevenzione degli incendi;

– che la Corte ha, inoltre, osservato, quanto al compenso per il “tempo tuta”, che si trattava di indumenti (divisa di guardia fuoco fornita dal datore di lavoro, caratterizzata dal colore arancione e barre catarifrangenti, conservata negli armadietti all’interno degli spogliatoi aziendali e da indossare obbligatoriamente, unitamente a guanti, casco e scarpe antinfortunistiche) certamente diversi da quelli abitualmente indossati nella vita di tutti i giorni e il cui utilizzo era reso necessario sia per motivi di sicurezza, sia per distinguere i lavoratori addetti alle specifiche funzioni di guardia fuoco dagli altri operai: era, quindi, da considerarsi ininfluente che non vi fosse prova dell’esistenza di un ordine o di una direttiva esplicita di indossare tali indumenti negli spogliatoi siti all’interno dello stabilimento, né che vi fosse alcun obbligo al riguardo, come affermato da alcuni testi, poiché ciò che rilevava, tenuto conto degli orientamenti in materia della giurisprudenza di legittimità, era che le operazioni di vestizione fossero necessarie per l’esecuzione della prestazione, non potendosi, d’altra parte, pretendere che i lavoratori giungessero in azienda con indumenti tanto visibilmente caratterizzati sul piano tecnico-funzionale e comunque non utilizzati, né utilizzabili, nella ordinaria quotidianità;

– che avverso detta sentenza della Corte di appello di Genova ha proposto ricorso per cassazione Fincantieri S.p.A., con quattro motivi, cui il lavoratore ha resistito con controricorso;

– che risulta depositata memoria nell’interesse della società.

RILEVATO

che con il primo, il secondo e il terzo motivo, censurando la sentenza impugnata nella parte relativa all’accertato diritto al compenso per il “tempo tuta”, la società ricorrente deduce rispettivamente: (1) con il primo, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c., nn. 4 e 5 e art. 420 c.p.c., oltre che dell’art. 2697 c.c., per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto assolto l’onere di allegazione e di prova che incombe sul lavoratore, nonostante che nella specie il G. avesse omesso di fornire elementi concreti idonei a dimostrare che le operazioni di vestizione e di svestizione degli indumenti di lavoro e degli altri dispositivi di protezione individuale fossero soggette a eterodirezione da parte della datrice di lavoro; (2) con il secondo, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 1 e dell’art. 1, Titolo III, Sez. IV, c.c.n.l. del 5 dicembre 2012, per avere la Corte, ritenendo sussistente il requisito della eterodirezione pur in difetto di specifiche direttive da parte del datore di lavoro, omesso di considerare che il legislatore non prevede la computabilità del tempo di vestizione/svestizione degli indumenti di lavoro nella definizione di “orario di lavoro” e che anche in base alle norme del c.c.n.l. di settore il tempo di lavoro coincide con quello effettivo della prestazione lavorativa, così come contrattualmente definita e misurata; (3) con il terzo, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., oltre che degli artt. 1374,2104 e 2697 c.c., per avere la Corte, là dove aveva ritenuto che il potere di eterodirezione nelle operazioni di vestizione/svestizione fosse implicitamente desumibile dalla natura degli indumenti e dalla specifica funzione che gli stessi devono assolvere nell’esecuzione della prestazione lavorativa, omesso di compiere una puntuale verifica della reale e concreta esistenza di tale potere, sull’erroneo presupposto che, al fine di ricondurre tali operazioni nella nozione di orario di lavoro, fosse sufficiente constatare l’esistenza al riguardo di un interesse datoriale;

– che con il quarto motivo di ricorso la società censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto comprovato il diritto del lavoratore all’inquadramento superiore e, in particolare, deducendo violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., oltre che dell’art. 1, Sez. IV, Titolo II, c.c.n.l. per gli addetti all’industria metalmeccanica, si duole che la Corte di appello avesse erroneamente individuato i tratti distintivi tra la Quarta e la Terza categoria, omettendo di specificare le mansioni che si sarebbero concretizzate nelle attività di particolare rilievo svolte dal G.;

osservato:

che il primo motivo è inammissibile, dovendosi ribadire il principio, secondo il quale “La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del nuovo art. 360 c.p.c., n. 5): Cass. n. 13395/2018, fra le numerose conformi;

– che, in ogni caso, il motivo in esame è infondato, come lo sono il secondo e il terzo, da esaminarsi tutti congiuntamente per ragioni di connessione;

– che, infatti, la Corte di appello si è uniformata al principio, per il quale “Nel rapporto di lavoro subordinato, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva n. 2003/88/CE (Corte di Giustizia UE del 10 settembre 2015 in C-266/14), il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro; l’eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento” (Cass. n. 1352/2016, già richiamata in sentenza; conforme Cass. n. 7738/2018);

– che il quarto motivo è inammissibile, risolvendosi in una diversa lettura delle risultanze istruttorie, contrapposta a quella della Corte di merito, né essendo indicati fatti decisivi dalla medesima non esaminati;

– che, d’altra parte, per il riferimento in esso contenuto alla violazione dell’art. 2697 c.c. valgono le stesse considerazioni già svolte a proposito del primo motivo e della sua inammissibilità, dovendosi comunque rilevare che la Corte di appello, in applicazione del procedimento c.d. trifasico (Cass. n. 30580/2019, fra le più recenti), ha, con adeguata motivazione, ricostruito l’attività concretamente svolta dal lavoratore e quindi ricondotto la stessa alla superiore categoria (Quarta), previa individuazione dei tratti differenziali e qualificanti di quest’ultima rispetto alla categoria di appartenenza;

ritenuto:

conclusivamente che il ricorso deve essere respinto;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;

– che di esse va disposta ex art. 93 c.p.c. la distrazione in favore dei difensori del controricorrente, avv.ti Bruno Cossu e Savina Bomboi, come da loro dichiarazione e richiesta.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge, somma di cui dispone la distrazione in favore degli avv.ti Bruno Cossu e Savina Bomboi.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 23 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2021

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