LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 9662/2016 proposto da:
M.A., M.B., Ma.Bi., e M.M., tutte rappresentate e difese dagli Avv.ti Paolo Piva, e Antonio Andreoli, anche disgiuntamente, giusta procura speciale in calce al ricorso per cassazione.
– ricorrenti –
contro
Comune di Montechiarugolo, nella persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso, congiuntamente e disgiuntamente, giusta procura speciale in calce al controricorso, dal Prof. Avv. Giorgio Pagliari, e dall’Avv. Francesco Braschi, ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma, Viale Parioli, n. 180.
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna n. 1691/2015, pubblicata il 13 ottobre 2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 20/09/2021 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna.
RILEVATO
Che:
1. Con la sentenza impugnata, la Corte d’appello di Bologna ha determinato l’indennità di espropriazione, relativa al terreno di proprietà di Ma.Ma.Ro., M.A., M.B., Ma.Bi. e M.M., sito nel Comune di Montechiarugolo al foglio *****, particella *****, di mq 4.228, destinato a parcheggio pubblico, nella somma di Euro 27.500,00.
2. Il giudizio era stato promosso sia dal Comune di Montechiarugolo, che aveva ritenuto eccessiva l’indennità determinata dalla Commissione Provinciale Espropri con verbale n. 6 del 19 gennaio 2010, in Euro 295.960,00, sul presupposto della natura edificabile dell’area espropriata, sia dalle proprietarie che avevano chiesto il riconoscimento della somma di Euro 951.000,00.
3. La Corte di appello di Bologna, dopo avere espletato la consulenza tecnica d’ufficio, ha affermato che:
-la originaria destinazione urbanistica dell’area (zona G5, ossia zona per parcheggio pubblico di tipo P1-aree di sosta mista con mezzi leggeri e pesanti) comportava una cosiddetta zonizzazione che non recava alcuna localizzazione lenticolare dell’opera pubblica, che si era verificata soltanto con l’approvazione del progetto dell’opera pubblica, con la conseguenza che il vincolo di destinazione esistente al momento della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera aveva natura meramente confermativa;
– in ogni caso, anche i precedenti strumenti urbanistici, sia il P.R.G. del 1983, approvato nel 1985, che quello del 1989, approvato nel 1991, avevano destinato il terreno espropriato a verde pubblico;
– la L.R. n. 20 del 2000, art. 6, comma 1, prevedeva che l’oggetto della normativa legislativa statale o regionale non fosse il vincolo, ma l’interesse pubblico insito nelle caratteristiche del territorio e relativo alla tutela dei beni ambientali e culturali e, nel caso in esame, era indubbio che l’interesse pubblico, derivante dalla collocazione del terreno, era quello connesso alla tutela del castello di *****, la cui appartenenza al patrimonio culturale trovava disciplina nel D.Lgs. n. 42 del 2004, ed era tale normativa che integrava la fonte di previsione dello specifico interesse pubblico insito nelle caratteristiche del territorio e ispirato alla tutela dei beni culturali menzionato dalla L.R. n. 20 del 2000, art. 6, comma 1;
– il terreno in esame aveva natura non edificabile e l’esistenza del vincolo imposto dall’art. 18 del R.U.E. non poteva non condizionare in modo definitivo la suscettibilità edificatoria dell’area, finendo per vanificarla;
– il consulente d’ufficio aveva escluso concrete utilizzazioni a fini di lucro (quali la destinazione ad attività sportiva o a posti auto scoperti da rendere commerciabili) differenti da una ipotetica destinazione agricola e la possibilità, affermata dalle proprietarie, di realizzare strutture sportive dotate di fabbricati idonei ad ospitare spogliatoi, attività accessorie per il tempo libero e punti di ristoro, realizzabili in fabbricati aventi quattro metri di altezza, era generica e non supportata da una rigorosa indagine tecnica idonea a contrastare le conclusioni condivise del consulente tecnico d’ufficio.
4. M.A., M.B., Ma.Bi. e M.M. hanno impugnato la sentenza della Corte d’appello di Bologna con ricorso per cassazione affidato a due motivi.
5. Il Comune di Montechiarugolo ha resistito con controricorso.
6. Le parti hanno depositato memoria.
7. Con ordinanza interlocutoria n. 11494 del 30 aprile 2021, questa Corte ha inviato la causa a nuovo ruolo, in attesa della decisione della Corte Costituzione sulla questione di legittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., comma 1 e art. 117 Cost., comma 3, L.R. Emilia Romagna 19 dicembre 2002, n. 37, art. 20, comma 1.
8. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
CONSIDERATO
Che:
1. Con il primo motivo le ricorrenti lamentano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione ed erronea applicazione della L.R. n. 20 del 2000 e della L.R. n. 37 del 2002; la violazione di norme regolamentari con particolare riferimento al vigente RUE del Comune di Montechiarugolo.
Le ricorrenti censurano la ritenuta non edificabilità dell’area in esame e l’erroneità delle valutazioni giuridiche del consulente d’ufficio, che non aveva tenuto in considerazione il concetto di “edificabilità” previsto della L.R. n. 37 del 2002, artt. 20,21 e 22 e che aveva richiamato la “precedente destinazione a verde pubblico” attribuendole natura conformativa, dato che l’area era destinata a parcheggio a far tempo dal P.R.G. del 1998; che il vincolo in esame non era conformativo e che l’area pertanto doveva essere considerata dotata di edificabilità legale e di fatto alla luce degli artt. 21 e 22 della Legge Regionale; il consulente tecnico d’ufficio aveva peraltro, in modo non comprensibile, escluso l’edificabilità dell’area pur in presenza dell’art. 18 del RUE e poi aveva riconosciuta a pag. 18 della perizia una determinata edificabilità dell’area.
2. Con il secondo motivo le ricorrenti lamentano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, in quanto la Corte di appello non aveva considerato il valore comprensoriale, anche tenuto conto della L.R. n. 37 del 2002, art. 21, che, rimandando alla L.R. n. 20 del 2000, art. 6, comma 1, stabiliva che la pianificazione urbanistica accertava i limiti e i vincoli che derivavano da uno specifico interesse pubblico stabilito da leggi statali o regionali che, nel caso in esame, non imponevano alcuna limitazione; che il consulente tecnico d’ufficio non aveva mai fornito una risposta univoca al quesito limitandosi ad elaborare tre potenziali risposte tra di loro in evidente contrasto.
2.1 Le censure esposte, che vanno esaminate unitariamente perché connesse, sono in parte infondate e in parte inammissibili.
2.2 Deve premettersi che questa Corte, con ordinanza interlocutoria del 15 gennaio 2020, n. 726, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, per contrasto con l’art. 3 Cost., comma 1 e art. 117 Cost., comma 3, la questione di legittimità costituzionale della L.R. Emilia Romagna 19 dicembre 2002, n. 37, art. 20, comma 1, nella parte in cui stabilisce che, ai fini della determinazione dell’entità dell’indennità di esproprio, la possibilità legale di edificare è presente nelle aree ricadenti all’interno del perimetro del territorio urbanizzato individuato dal Piano Strutturale Comunale ai sensi della L.R. n. 20 del 2000, art. 28, comma 2, lett. d).
2.3. In particolare, è stato osservato che “l’indiscriminata attribuzione di “edificabilità legale”, in funzione della sola quantificazione dell’indennità di espropriazione, ai terreni espropriati ricadenti nel perimetro urbanizzato secondo le previsioni del Piano Strutturale Comunale, determina una irragionevole quantificazione “al rialzo” della indennità medesima all’interno dei confini della Regione Emilia Romagna rispetto al restante territorio nazionale, ogni qualvolta i terreni medesimi siano privi di effettiva vocazione edificatoria” e ciò “pare rappresentare un vulnus al principio di uguaglianza formale, in quanto è pregiudicata l’esigenza di garantire, sul territorio nazionale medesimo, parità di trattamento nella strutturazione di un istituto squisitamente privatistico qual è il diritto di proprietà”.
2.4 La Corte Costituzionale, con la sentenza 14 aprile 2021, n. 64, ha dichiarato le questioni di legittimità costituzionale sollevate non fondate, evidenziando che la disciplina a livello nazionale dei criteri per la determinazione della giusta indennità e, in specie, la definizione dei presupposti che regolano l’edificabilità legale (che rappresenta una qualità del bene che ne condiziona intrinsecamente il valore) costituiscono principi fondamentali della materia ed attengono ad un profilo essenziale della proprietà che non tollera, in linea con l’art. 3 Cost., irragionevoli disparità di trattamento sul territorio nazionale.
Il Giudice delle leggi ha, tuttavia, ritenuto, che il coordinamento della norma censurata con i principi fondamentali della materia del governo del territorio, potesse desumersi in via interpretativa, tenendo conto che la norma regionale oggetto del vaglio di costituzionalità, in applicazione del canone dell’interpretazione sistematica, non assumeva un carattere esclusivo ed assorbente del criterio di edificabilità legale per le aree inserite nel perimetro della zona urbanizzata.
In particolare, la Corte Costituzionale ha statuito che la stessa previsione immediatamente successiva a quella censurata, vale a dire la L.R. Emilia Romagna n. 37 del 2002, art. 21, confutava tale assolutezza, in quanto regolava ipotesi di inedificabilità assoluta che riguardava le stesse aree ricomprese nel perimetro urbanizzato: risultavano, così, prive di edificabilità legale non solo le aree indicate dalla L.R. Emilia Romagna n. 37 del 2002, art. 21, ma anche tutte le zone omogenee che, in base al D.P.R. n. 327 del 2001, fossero interessate da vincoli di inedificabilità assoluta o fossero state rese edificabili da un vincolo espropriativo, al mero fine di consentire la realizzazione dell’opera pubblica su un terreno che in principio non era edificabile.
Tale interpretazione, secondo il Giudice delle leggi, è “in linea con la ratio dell’intera normativa regionale del 2002 sugli espropri, la quale essendo successiva al D.P.R. n. 327 del 2001, ed alla riforma del Titolo V della Costituzione – precisa all’art. 2 che “(p)er quanto non disposto dalla (…) legge, trovano applicazione le disposizioni del D.P.R. n. 327 del 2001, secondo quanto specificato dall’art. 33”. Quest’ultima previsione, rubricata “Disapplicazione di norme statali”, non richiama quelle sulla quantificazione dell’indennizzo, sicché tali disposizioni, anche a seguito dell’entrata in vigore della legge regionale, continueranno ad avere applicazione in Emilia Romagna”.
Deve, quindi, concludersi che la normativa regionale in esame, non riconosce, diversamente da quanto affermato dalle ricorrenti, il requisito dell’edificabilità legale in via automatica e alla sola condizione dell’inserimento delle aree in questione nel perimetro del territorio urbanizzato e che l’interpretazione sistematica della L.R. n. 37 del 2002, art. 20, comma 1, permette di superare gli esposti dubbi di costituzionalità, considerato che anche nel territorio della Regione Emilia Romagna sono vigenti i principi fondamentali della legislazione statale relativi alla edificabilità legale.
2.5 Ciò posto, la Corte territoriale ha affermato, con un iter argomentativo che non è stato minimamente censurato dalle ricorrenti, che la originaria destinazione urbanistica dell’area (zona G5, ossia zona per parcheggio pubblico di tipo P1-aree di sosta mista con mezzi leggeri e pesanti) comportava una cosiddetta zonizzazione che non recava alcuna localizzazione lenticolare dell’opera pubblica, che si era verificata soltanto con l’approvazione del progetto dell’opera pubblica, con la conseguenza che il vincolo di destinazione esistente al momento della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera (Delib. G.C. 20 dicembre 2004, n. 224 e successivo decreto di esproprio con Det. del Responsabile del settore 2 maggio 2007, n. 324) aveva natura meramente confermativa e il terreno non aveva natura edificabile e che, in ogni caso, anche i precedenti strumenti urbanistici, sia il PRG del 1983, approvato nel 1985, che quello del 1989, approvato nel 1991, avevano destinato il terreno espropriato a verde pubblico; che la L.R. n. 20 del 2000, art. 6, comma 1, prevedeva che l’oggetto della normativa legislativa statale o regionale non fosse il vincolo, ma l’interesse pubblico insito nelle caratteristiche del territorio e relativo alla tutela dei beni ambientali e culturali e, nel caso in esame, era indubbio che l’interesse pubblico derivante dalla collocazione del terreno era quello connesso alla tutela del castello di Montechiarugolo, la cui appartenenza al patrimonio culturale trovava disciplina nel D.Lgs. n. 42 del 2004, ed era tale normativa che integrava la fonte di previsione dello specifico interesse pubblico insito nelle caratteristiche del territorio e ispirato alla tutela dei beni culturali menzionato dalla L.R. n. 20 del 2000, art. 6, comma 1; che il terreno in esame aveva natura non edificabile e l’esistenza del vincolo imposto dall’art. 18 del R.U.E. non poteva non condizionare in modo definitivo la suscettibilità edificatoria dell’area, finendo per vanificarla; che il consulente d’ufficio aveva escluso concrete utilizzazioni a fini di lucro (quali la destinazione ad attività sportiva o a posti auto scoperti da rendere commerciabili) differenti da una ipotetica destinazione agricola e che la possibilità, affermata dalle proprietarie, di realizzare strutture sportive dotate di fabbricati idonei ad ospitare spogliatoi, attività accessorie per il tempo libero e punti di ristoro, realizzabili in fabbricati aventi quattro metri di altezza, era generica e non supportata da una rigoroso indagine tecnica idonea a contrastare le conclusioni condivise del consulente tecnico.
2.6 Come affermato da questa Corte, un’area va ritenuta edificabile solo quando è in tal modo classificata al momento della vicenda ablativa dagli strumenti urbanistici e, tuttavia, le possibilità legali di edificazione vanno escluse tutte le volte in cui, in base allo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui deve compiersi la ricognizione legale, la zona sia stata concretamente vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità ecc.), in quanto dette classificazioni apportano un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, da intendere come estrinsecazione dello ius aedificandi connesso al diritto di proprietà, ovvero con l’edilizia privata esprimibile dal proprietario dell’area, come tali, soggette al regime autorizzatorio previsto dalla vigente legislazione edilizia (Cass., 25 ottobre 2017, n. 25314; Cass., 24 giugno 2016, n. 13172).
In sostanza, il vincolo di natura pubblicistica appare ostativo alla possibilità di ritenere legalmente edificabili i terreni interessati.
2.7 Resta fermo, poi, che sussiste una normativa specifica dettata soltanto per la determinazione del valore venale del bene nelle espropriazioni per pubblica utilità, nonché per la determinazione dell’indennità di espropriazione per le aree edificabili e non edificabili, introdotta dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, oggi recepita dal T.U. n. 327 del 2001, artt. 32 e 37, secondo la quale la determinazione dell’indennità deve avvenire sulla base dell’accertamento non già della contrapposizione vincoli conformativi/espropriativi, ma della ricorrenza (o per converso della mancanza) delle possibilità legali di edificazione al momento del decreto di espropriazione: accertamento risolto in modo inequivoco e dirimente dal menzionato art. 37, comma 4, per il quale, premessa la ininfluenza dei vincoli espropriativi, “non sussistono le possibilità legali di edificazione quando l’area è sottoposta ad un vincolo di inedificabilità assoluta in base alla normativa statale o regionale o alle previsioni di qualsiasi atto di programmazione o di pianificazione del territorio, ivi compresi il piano regolatore generale, ovvero in base ad un qualsiasi altro piano o provvedimento che abbia precluso il rilascio di atti, comunque denominati, abilitativi della realizzazione di edifici o manufatti di natura privata” (Cass., 24 febbraio 2016, n. 3260).
2.8 Dunque, applicato il criterio generale del valore venale pieno, l’interessato può dimostrare che il fondo è suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso rispetto quello agricolo, pur senza raggiungere il livello dell’edificatorietà, e che, quindi, possiede una valutazione di mercato che rispecchia possibilità di utilizzazione intermedie tra quella agricola e quella edificatoria (come, ad esempio, parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti ) sempre che tali possibilità siano assentite dalla normativa vigente, sia pure con il conseguimento delle opportune autorizzazioni amministrative (Cass., 19 luglio 2018, n. 19295; Cass., 6 marzo 2019, n. 6527).
2.9 Nel caso in esame, tale onere non è stato assolto dalle ricorrenti, che, addebitando alla consulenza tecnica d’ufficio (le cui conclusioni sulla inedificabilità assoluta dell’area espropriata sono state recepite dalla Corte di appello) lacune di accertamento ed errori di valutazione, in violazione del principio di autosufficienza, non hanno adeguatamente specificato le modalità e i termini con cui le critiche svolte all’elaborato peritale sarebbero state avanzate nel corso del giudizio svoltosi davanti alla Corte di appello.
In particolare, non sono state specificamente riportate le parti della consulenza tecnica oggetto di censura e, piuttosto, con riferimento alle censure sollevate, le ricorrenti hanno affermato che “ai fini della puntuale valutazione delle eccezioni e delle considerazioni formulate dovranno essere esaminati: la perizia estimativa dell’ing. Z. (allegato n. 2 dell’atto di citazione), la relazione peritale del CTU nominato dalla Corte di Appello di Bologna, la relazione di parte redatta dall’Arch. Za. anche con particolare riferimento agli allegati (relazione parte integrante della CTU depositata)”.
2.10 Parimenti, quanto al denunciato preteso vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve evidenziarsi come lo stesso possa ritenersi denunciabile per cassazione, unicamente là dove attenga all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, ovvero che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia.
Sul punto, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).
Alla luce dei suesposti principi, la doglianza delle ricorrenti in ordine all’omesso esame del “valore comprensoriale” deve ritenersi inammissibile, in quanto diretta a censurare, non già l’omissione di un fatto decisivo rilevante ai fini dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ma la mancata considerazione di un valore ritenuto preminente rispetto a quello utilizzato dai giudici di merito.
3. Per quanto esposto, il ricorso va rigettato e le ricorrenti vanno condannate al pagamento delle spese processuali, sostenute dal Comune controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento, in favore del Comune controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 12.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2021