LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –
Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –
Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1483-2016 proposto da:
COMUNE DI POZZUOLI, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIUSEPPE MAZZINI n. 142, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIA DE CURTIS, rappresentato e difeso dagli avvocati RAFFAELE PETRONE, ALDO STARACE;
– ricorrente –
contro
S.A., V.G., D.F.C., R.A., tutti domiciliati in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato ROBERTO BUONANNO;
– controricorrenti –
nonché contro I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. – Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA N. 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati ESTER ADA SCIPLINO, CARLA D’ALOISIO, EMANUELE DE ROSE, ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, GIUSEPPE MATANO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4139/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 18/08/2015 R.G.N. 2671/2011;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/09/2021 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE.
RILEVATO
che:
con ricorso del 25 febbraio 1999, il Comune di Pozzuoli chiese al Pretore di Napoli la condanna dell’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti da amministrazioni pubbliche – INPDAP alla restituzione di Lire 7.148.238.695, versate a titolo di contributi previdenziali ed assistenziali per i propri dipendenti comunali nel periodo 1 agosto 1983-31 dicembre 1984;
assumeva che tali contributi non erano dovuti in virtù della esenzione prevista dal D.L. 7 novembre 1983, n. 623, art. 5 bis, convertito, con modificazioni, nella L. 23 dicembre 1983, n. 748, nonché del D.L. 3 aprile 1985, n. 114, art. 4, comma 1 sexies e comma 1 septies, convertito, con modificazioni, nella L. 30 maggio 1985, n. 211, in tema di agevolazioni per soggetti colpiti da calamità naturali;
il primo giudice (nel frattempo Tribunale di Napoli) con sentenza 11 maggio 2002 n. 9455, in accoglimento dell’eccezione dell’Inpdap, dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, sul presupposto che il petitum fosse relativo ad una domanda di rimborso di contributi relativi ad un rapporto di pubblico impiego, mentre la Corte d’appello di Napoli dichiarò sussistere la giurisdizione del giudice ordinario; la Corte di cassazione con sentenza n. 14953 del 2007 confermò la decisione;
riassunto il giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli, ove intervenivano volontariamente i lavoratori S.A., D.F.C. e R.A., la causa fu decisa con sentenza di accoglimento della domanda di ripetizione;
su impugnazione dell’INPDAP, la Corte d’appello di Napoli ha rigettato la domanda per avvenuta prescrizione, ritenendo, dopo aver precisato che il diritto in astratto era limitato alla restituzione della quota gravante sui dipendenti e non su quella a carico dei datori di lavoro anche pubblici, che l’Istituto non fosse incorso nella decadenza prevista dall’art. 416 c.p.c. in quanto l’udienza del 18 aprile 2000 (originariamente fissata ai sensi dell’art. 435 c.p.c.) in forza del decreto del Presidente della Corte d’appello del 17 febbraio 2000 di sospensione delle udienze dal 17 al 22 aprile 2000 per ragioni elettorali, era slittata d’ufficio all’11.1.2001 e la costituzione dell’INPDAP era avvenuta il 28 dicembre 2000; l’eccezione è stata ritenuta fondata, in quanto la restituzione era stata richiesta solo il 12 febbraio 1996, a prescrizione compiuta, mentre non risultava confermata dalla documentazione prodotta la tesi che il pagamento fosse avvenuto solo nel 1994, fermo restando che l’imputazione di pagamento spettava all’istituto previdenziale;
avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Comune di Pozzuoli, deducendo tre motivi: 1) violazione e o falsa applicazione dell’art. 416 c.p.c. in relazione alla inammissibilità dell’eccezione di prescrizione che si ritiene fondata sulla circostanza che la giurisprudenza richiamata dalla sentenza impugnata per giustificare la decisione (Cass. SS.UU. N. 14288/2007, precedenti e successive) non abbia in realtà affermato funditus quanto sostenuto dalla sentenza impugnata ed anzi tale principio risulterebbe contrastato da altra giurisprudenza (Cass. nn. 22230 dei 2006; 3126/2003; 5444/2001; 3126/2001; 2546/1998 e 5629/1997) e dai principi ispiratori dell’oralità e della concentrazione propri del processo del lavoro;2) violazione e falsa applicazione dell’art. 416 c.p.c. per violazione della regola dell’overulling secondo l’interpretazione di Cass. 15934 del 2011, in ragione della diversa giurisprudenza applicata all’epoca della costituzione in giudizio dell’INPDAP; 3) violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 c.p.c. e art. 2697 c.c. con riferimento ad un punto decisivo della controversia relativo alle modalità con le quali la sentenza impugnata ha accertato l’epoca dell’avvenuto pagamento della contribuzione riferita agli anni 1983 e 1984 e la tempestività dell’atto interruttivo di richiesta di restituzione attraverso la disamina della documentazione versata in atti;
resiste con controricorso l’Inps, successore ex L. n. 214 del 2011 di INPDAP;
hanno proposto controricorso adesivo al ricorso gli interventori volontari S.A. e D.F.C., nonché tale V.G. estraneo ai gradi precedenti.
CONSIDERATO
che:
V.G. non è legittimato a resistere in questo giudizio di legittimità non avendo partecipato ai gradi di merito ed in applicazione del principio secondo il quale è inammissibile nel giudizio di Cassazione l’intervento di terzi che non hanno partecipato alle pregresse fasi di merito (cfr. Cass. sez. lav. 18.4.2005, n. 7930; Cass. n. 20565 del 2018);
il primo motivo è infondato in applicazione dei principi espressi non solo da Cass. SS.UU. 20/06/2007, n. 14288, ma successivamente anche da Cass. sez. lav. 29/04/2015 n. 8684; Cass., sez. VI, 05/08/2016 n. 16517 e Cass. n. 18043 del 2019, secondo i quali nelle controversie assoggettate al rito del lavoro, al fine di verificare il rispetto dei termini fissati (per il convenuto in primo grado ai sensi dell’art. 416 c.p.c., e per l’appellato in virtù dell’art. 436 c.p.c.) con riferimento alla udienza di discussione, non si deve aver riguardo a quella originariamente stabilita dal provvedimento del giudice ma a quella fissata – ove, eventualmente, sopravvenga – in dipendenza del rinvio d’ufficio della stessa, che concreta una modifica del precedente provvedimento di fissazione e che venga effettivamente tenuta in sostituzione della prima;
il rinvio d’ufficio dell’udienza di discussione disposto prima della data fissata per la udienza e prima che l’udienza stessa sia aperta, come è avvenuto nel caso di specie, costituisce una sostanziale revoca del precedente provvedimento di fissazione;
nella fattispecie di causa, il giudice dell’appello ha correttamente applicato l’indicato principio, avendo evidenziato che il rinvio d’ufficio era avvenuto con decreto del 17.2.2000, prima della data della udienza di discussione, in origine fissata al 18.4.2000; appare, pertanto, immune dall’errore di diritto denunciato l’avere considerato la tempestività della costituzione del convenuto rispetto alla nuova udienza fissata in sostituzione della prima (11.1.2001);
il secondo motivo è pure infondato in quanto richiama erroneamente il principio espresso da Cass. sez. un., 11/04/2011, n. 8127); esso, come è noto, afferma che, alla luce della norma costituzionale del giusto processo, la parte che abbia proposto ricorso per cassazione facendo affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimità, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo incorre in un errore scusabile ed ha diritto ad essere rimessa in termini ex art. 184 bis c.p.c., si applica solamente nell’ipotesi in cui il mutamento giurisprudenziale abbia reso impossibile una decisione sul merito delle questioni sottoposte al giudice scelto dalla parte e non quando la pretesa azionata sia stata compiutamente conosciuta dal giudice dotato di giurisdizione secondo le norme vigenti al momento dell’introduzione della controversia, come all’epoca generalmente interpretate, atteso che in tale ipotesi il ricorrente, senza poter lamentare alcuna lesione del suo diritto di difesa, già pienamente esercitato, mira ad ottenere un nuovo pronunciamento sul merito della questione;
nel caso di specie non si è determinata alcuna impossibilità di svolgimento nel merito della pretesa, anzi la sentenza impugnata ha proprio esaminato le questioni relative all’effettivo verificarsi della prescrizione, dopo aver anche precisato che i veri destinatari della pretesa restitutoria erano i lavoratori e non i datori di lavoro;
il terzo motivo è inammissibile giacché, attraverso il richiamo al vizio di violazione di legge, il ricorrente contesta l’apprezzamento di merito svolto dalla Corte territoriale che non è sindacabile in cassazione se non nei limiti previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 5;
il giudice dell’appello invero non ha posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalla parte, ma è andato formandosi un libero convincimento rispetto al quadro probatorio complessivo evidenziato dall’accertamento di merito (ex plurimis cfr. Cass. n. 26769 del 2018);
in particolare, alla pagina 7 della sentenza impugnata, la Corte territoriale ha esaminato la documentazione prodotta dal Comune, indicando analiticamente i mandati di pagamento ritenuti rilevanti, e così giungendo alla conclusione che i pagamenti ritenuti indebiti sono avvenuti nel 1983 e nel 1984;
una siffatta operazione ermeneutica è del tutto coerente con l’impianto sistematico in tema di valutazione delle prove e libero convincimento del giudice, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., questi operano interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, correttamente censurabile soltanto attraverso il paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012 (ex plurimis cfr., Cass. n. 23940 del 2017);
nel caso in esame, è evidente dalla stessa prospettazione della censura che il ricorrente non intenda contestare una violazione di norme sostanziali o processuali, ma lamenti l’erronea valutazione da parte della Corte territoriale della corposa ed articolata produzione documentale esaminata al fine di accertare l’epoca del pagamento della contribuzione oggetto di richiesta di restituzione;
il ricorso va, quindi, rigettato;
le spese seguono la soccombenza nei confronti dell’INPS e non dei dipendenti che hanno svolto attività difensiva a sostegno delle ragioni del ricorrente rimasto soccombente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 16.000,00 per compensi professionali, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, rimborso delle spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 29 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2021
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