LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7023-2020 proposto da:
L.M.G. e G.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE ANGELICO 38, presso lo studio dell’avvocato CARLO DE MARCHIS, che le rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
OVS SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI 31, presso lo studio dell’avvocato FABIO PULSONI, che la rappresenta è difende unitamente all’avvocato SILVIA MARESCA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 638/2019 della CORTE D’APPELLO di TORINO depositata il 7/08/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 10/06/2021 dal Consigliere Relatore Dott. FABRIZIO AMENDOLA.
RILEVATO
che:
1. la Corte d’Appello di Torino, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva respinto il ricorso proposto da L.M.G. e G.A. nei confronti di OVS Spa volto a far accertare l’insussistenza del diritto di parte datoriale di esigere la prestazione nei giorni festivi, previa eventuale declaratoria di invalidità della clausola di rinuncia al diritto all’astensione futura dal lavoro in giorni festivi, con conseguente annullamento della sanzione disciplinare della multa di 1 ora inflitta alle dipendenti e con restituzione della somma trattenuta a tale titolo in busta paga;
2. la Corte, sulla scorta di precedenti di legittimità, ha ritenuto che le lavoratrici, con la sottoscrizione del contratto di assunzione contenente la disponibilità a prestare attività lavorativa nei giorni di festività infrasettimanale presso un centro commerciale aperto al pubblico, avessero rinunciato ad un diritto determinato già entrato nel loro patrimonio, ingenerando l’affidamento della controparte che altrimenti non le avrebbe assunte “a fronte della necessità di apertura del punto vendita anche nei giorni festivi”; ne conseguiva l’infondatezza dell’impugnativa della sanzione disciplinare conservativa;
in base al principio della soccombenza la Corte ha poi condannato le appellanti al pagamento delle spese del grado liquidate in Euro 4.500,00, oltre accessori;
3. per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso le lavoratrici con 3 motivi; ha resistito con controricorso la società intimata, illustrato anche da memoria;
4. la proposta del relatore ex art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale.
CONSIDERATO
che:
1. con il primo motivo del ricorso si denuncia violazione e/o falsa applicazione di plurime disposizioni del codice civile oltre che della L. n. 260 del 1949, e dell’art. 41 Cost., criticando la Corte territoriale per aver ritenuto “sufficiente il consenso generalizzato manifestato dal prestatore di lavoro in occasione della stipula del contratto al fine di generare un vincolo futuro per tutte le festività”; con il secondo mezzo si deduce ancora violazione e/o falsa applicazione di norme di legge e del codice civile “in relazione all’affermazione della sentenza della Corte d’appello di Torino che ritiene valida ed efficace la rinuncia pro futuro ad un diritto ad astenersi dallo svolgere la prestazione lavorativa in occasione di una festività nazionale infrasettimanale”;
2. le censure, congiuntamente esaminabili per connessione, sono infondate in quanto la Corte territoriale si è attenuta a principi espressi da condivisi orientamenti di legittimità;
la normativa in tema di festività infrasettimanali (L. n. 260 del 1949, come modificata dalla L. n. 90 del 1954) riconosce al lavoratore il diritto soggettivo di astenersi dal prestare la propria attività lavorativa in occasione di determinate festività celebrative di ricorrenze civili e religiose, con la conseguenza che il predetto diritto non può essere posto nel nulla dal datore di lavoro, potendosi rinunciare al riposo nelle festività infrasettimanali solo in forza di un accordo tra il datore di lavoro e lavoratore o di accordi sindacali stipulati da oo.ss. cui il lavoratore abbia conferito esplicito mandato (per tutte v. Cass. n. 18887 del 2019); si è poi precisato che la rinuncia al diritto all’astensione dalla prestazione nelle giornate festive infrasettimanali di cui alla L. n. 260 del 1949, art. 2, può essere anche validamente inserita come clausola del contratto individuale di lavoro, in quanto il diritto del lavoratore ad astenersi dalla prestazione durante le festività infrasettimanali è diritto disponibile e sono validi gli accordi individuali, intercorsi tra lavoratore e datore di lavoro; l’oggetto di detti accordi è chiaramente determinabile mediante il ricorso al riferimento normativo esterno costituito dalla L. n. 260 del 1949 (Cass. n. 8958 del 2021, nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva giudicato nulla per indeterminatezza dell’oggetto la clausola di alcuni contratti individuali di lavoro secondo cui, qualora richiesto, il lavoratore potesse essere chiamato “a prestare attività lavorativa nei giorni festivi e domenicali, fermo il diritto al riposo previsto dalla legge”, ritenendola interpretabile come manifestazione di una generica disponibilità alla prestazione lavorativa, che necessitava di ulteriore specifico consenso del lavoratore, con riferimento alle singole giornate festive nelle quali il datore avesse richiesto il suo impiego);
3. il terzo motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. con riferimento al D.M. n. 55 del 2014, in relazione pure alla sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 2018 ed all’art. 6 CEDU, “per illegittimità della sentenza che rispetto ad una sanzione conservativa di Euro 10,31 ha disposto la condanna alle spese del grado di appello nella misura di Euro 4.500,00, oltre spese generali”; si sostiene che l’esistenza di “precedenti giurisprudenziali favorevoli ai lavoratori” avrebbe dovuto “imporre la compensazione delle spese”;
la censura, per come formulata, è inammissibile; non viene individuato l’errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale, atteso che non può violare gli artt. 91 e 92 c.p.c., il giudice che applichi il principio della soccombenza ed il sindacato della Corte Suprema, in tema di spese giudiziali, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa; pertanto, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (v. Cass. n. 26912 del 2020; Cass. n. 18128 del 2020; Cass. n. 24502 del 2017; Cass. n. 15317 del 2013; Cass. n. 5386 del 2003; Cass. n. 8889 del 2000; Cass. n. 4944 del 1979); in ogni caso è la decisione di compensazione delle spese giudiziali che deve formare oggetto di adeguata motivazione, non la decisione del giudice di non procedere a compensazione, totale o anche soltanto parziale (Cass. n. 10009 del 2003; Cass. n. 11744 del 2004);
quanto poi al riferimento al D.M. n. 55 del 2014, riveste valenza l’insegnamento di questo Giudice del diritto secondo cui, in tema di liquidazione delle spese processuali che la parte soccombente deve rimborsare a quella vittoriosa, la determinazione dei compensi professionali costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice che, qualora sia contenuto tra il minimo ed il massimo della tariffa, non richiede una specifica motivazione e non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità (v. Cass. n. 20289 del 2015); l’assunto è stato specificamente ribadito anche nel caso di liquidazione delle spese processuali sulla base delle tariffe approvate con il D.M. n. 140 del 2012, rilevando unicamente che la liquidazione sia contenuta entro i limiti, massimo e minimo, delle tariffe medesime, peraltro nemmeno vincolanti, come si desume dal menzionato decreto, art. 1, comma 7 (cfr. Cass. n. 18167 del 2015); il principio ha trovato applicazione anche in tema di liquidazione delle spese processuali successiva al D.M. n. 55 del 2014, per cui non trova fondamento normativo uh vincolo alla determinazione secondo i valori medi ivi indicati, dovendo il giudice solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con apposita motivazione (Cass. n. 2386 del 2017; Cass. n. 26608 del 2017; Cass. n. 29606 del 2017) e la determinazione del dovuto costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice che, qualora sia contenuto tra il minimo ed il massimo della tariffa, non richiede una specifica motivazione e non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità (Cass. n. 21205 del 2016; Cass. n. 14031 del 2017); ciò posto parte ricorrente neanche deduce specificamente che la liquidazione contestata sarebbe andata oltre i parametri massimi della tariffa, tenuto altresì conto che oggetto della causa non era solo il valore della multa comminata alle due lavoratrici, ma anche l’inopponibilità delle clausole contenute nel contratto di assunzione circa la disponibilità a rendere la prestazione lavorativa in giornata festiva;
4. conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;
occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese liquidate in Euro 2.700,00 per compensi professionali, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali al 15% ed accessori secondo legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 10 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2021