Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.37513 del 30/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 25198/2020 R.G., proposto da:

V.B., rappresentato e difeso DALL’AVV. Gabriele De Majo, elettivamente domiciliato in Roma, Via Salaria n. 332.

– ricorrente –

contro

IDAV S.P.A., in persona del legale rappresentate pt., rappresentata e difesa dall’avv. Giuseppe Munno, con domicilio eletto in Roma, alla Via Ovidio n. 20, presso l’avv. Fabio Accardo.

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 2415/2020, pubblicata in data 30.6.2020.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del giorno 13.10.2021 dal Cons. Giuseppe Fortunato.

RAGIONI IN FATTO IN DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Con decreto n. *****, il Tribunale di Nola ha ingiunto all’Idav s.p.a. il pagamento in favore dell’arch. V.B. di 32.689,74 Euro, oltre interessi, a titolo di compensi professionali per la redazione di un progetto di divisione.

L’ingiunta ha proposto opposizione, eccependo l’incompetenza per territorio e l’infondatezza della pretesa di pagamento.

Espletata l’istruttoria, il tribunale ha accolto l’opposizione e ha revocato il decreto ingiuntivo, ritenendo che l’incarico professionale fosse stato conferito personalmente a V.O., padre del ricorrente, e che V.B. non avesse alcun titolo a pretendere il pagamento, non essendovi neppure prova che l’incarico fosse ricevuto da un’associazione professionale di cui facesse parte anche il ricorrente.

La pronuncia è stata confermata Corte territoriale di Napoli.

Ad avviso del giudice distrettuale, gli esiti dell’istruttoria (e, segnatamente, le testimonianze assunte su richiesta dell’opposta) provavano che l’incarico era stato conferito ad V.O. non solo in considerazione dell’esperienza del professionista, ma anche in quanto quest’ultimo, da circa 40 anni, era il tecnico di fiducia della società appellata.

Anche il progetto era stato consegnato nel maggio 2005 allorquando V.O. era ancora in vita – e recava la sottoscrizione del padre del ricorrente, mentre il successivo elaborato, consegnato nel 2007, costituiva una semplice rielaborazione di quello originario.

Peraltro, nella comparsa di risposta depositata il ***** lo stesso V.B. aveva riconosciuto che l’incarico era stato conferito al padre, anche se quale membro dello studio associato V., ed aveva articolato istanze istruttorie per dimostrare che l’elaborato era stato consegnato alla committenza il *****, e non invece, come sostenuto successivamente, nel corso del 2007.

La cassazione della sentenza è chiesta da V.B. con ricorso 3 motivi, cui l’Idav s.p.a. resiste con controricorso e con memoria illustrativa.

Su proposta del relatore, secondo cui il ricorso, in quanto manifestamente inammissibile, poteva esser definito ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5, il Presidente ha fissato l’adunanza in Camera di consiglio.

1. Il primo motivo deduce la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, lamentando che il giudice distrettuale non abbia tenuto conto dei documenti prodotti in giudizio e precisamente, della copia della pianta dei cespiti da dividere, del progetto di divisione, dei frazionamenti e degli accatastamenti, idonei a provare che l’incarico era stato affidato a V.B..

L’unico progetto di divisione realmente elaborato, e che necessitava della sottoscrizione di un professionista abilitato, era stato redatto dopo la morte di V.O. e recava la firma del ricorrente, non trattandosi di una mera riproduzione dell’elaborato originario.

Il secondo motivo denuncia la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sostenendo che le acquisizioni processuali dimostravano che, all’epoca dell’incarico, sussisteva un’associazione professionale di cui erano parte sia V.O. che V.B., la cui esistenza era nota alla committente e alla quale era stato conferito l’incarico di progettazione, essendo legittima la richiesta di pagamento avanzata dal ricorrente quale associato.

I due motivi, che possono esaminarsi congiuntamente, sono inammissibili.

Con motivazione logica ed esente da vizi giuridici, il giudice distrettuale ha stabilito che il progetto divisionale (e non una semplice bozza) era stato redatto da V.O. e che l’incarico gli era stato conferito in proprio (e non quale membro di un’associazione professionale di cui fosse parte anche il ricorrente), essendo stato il tecnico di fiducia della società per circa 40 anni.

Anche il progetto era stato consegnato nel 2005 e non nel 2007, come invece sostenuto dal ricorrente, allorquando V.O. era ancora in vita.

La Corte territoriale ha specificamente esaminato i due progetti di divisione, evidenziando come il ricorrente avesse ammesso che l’elaborato, oggetto di incarico, era stato depositato nel 2005 e che quello consegnato nel 2007, a sua firma, era identico al precedente. A fronte di tali conclusioni il ricorso, invocando la violazione egli artt. 115 e 116 c.p.c., intende in realtà ottenere un nuovo esame delle prove espletate in primo grado, denunciando la non corretta interpretazione dell’insieme delle risultanze processuali.

Va tuttavia osservato che il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ma un errore di fatto eventualmente sindacabile con riferimento all’adeguatezza e logicità della motivazione e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito con L. n. 134 del 2012.

La violazione dell’art. 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, può invece essere prospettata in cassazione ove si alleghi che il giudice, nell’esaminare una prova, non abbia operato in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, o quando il giudice abbia disatteso il criterio di apprezzamento di una prova soggetta ad una specifica regola di valutazione, restando esclusa la possibilità di contestare direttamente – da tale prospettiva – le conclusioni che il giudice abbia tratto dagli elementi acquisiti al processo (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 13960 del 2014; Cass. n. 26965 del 2007).

Per ritenere violato l’art. 115 c.p.c., occorre invece che il giudice abbia deciso la causa sulla base di prove non dedotte dalle parti o acquisite d’ufficio allorquando il giudice non sia depositario di poteri officiosi di indagine, non potendosi invocare nessuna delle due disposizioni ove si intenda, come nella specie, contestare il modo in cui siano state valutate le prove.

Nessuna delle lamentate violazioni di legge appare correttamente invocata (o sussistente): le doglianze, – attingendo, in effetti, il merito della controversia – devono ritenersi inammissibili.

2. Il terzo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sostenendo che la sentenza abbia omesso di considerare che le attività svolta dal ricorrente nel 2007 (in particolare i frazionamento e gli accatastamenti eseguiti dal 2005 al 2007) non si identificavano con quelle poste in essere nel 2005 da V.O. e che pertanto- illegittimamente abbia respinto la richiesta di compenso. Il motivo è inammissibile.

La pronuncia ha chiaramente evidenziato che l’incarico professionale era stato affidato a V.O. e che l’elaborato presentato dal ricorrente nel 2007 era la riproduzione di quello originario, non dando titolo ad alcun compenso.

Il fatto asseritamente non valutato – consistente nello svolgimento di ulteriore attività professionale da parte di V.B., dopo la morte del padre – è stato correttamente esaminato, poiché il mancato conferimento di un incarico professionale in favore dell’attore e la circostanza che la successiva progettazione fosse meramente riproduttiva di quella redatta nel 2005 da altro professionista, non poteva in alcun modo giustificare la liquidazione di un autonomo compenso a vantaggio del predetto ricorrente.

La censura è comunque preclusa ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5, avendo la Corte di merito definito le questioni in fatto in modo conforme alla decisione di primo grado.

Il ricorso è quindi inammissibile, con aggravio delle spese liquidate in dispositivo.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, pari ad Euro 200,00 per esborsi, ed Euro 5000,00 per compensi oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15%.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2021

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