Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.39438 del 13/12/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI FLORIO Antonella – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5585/2019 proposto da:

B.T., G.G., quali eredi A.R., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA LIVORNO 6, presso lo studio dell’Avvocato GUIDO DE SANTIS, che le rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

REGIONE LAZIO, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARCANTONIO COLONNA, negli Uffici dell’Avvocatura dell’Ente, rappresentata e difesa dall’Avvocato CARLO D’AMATA;

– controricorrente –

e contro

ASL ROMA *****, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata ai fini delle notificazioni presso la cancelleria di questa Corte, rappresentata e difesa dall’Avvocato FRANCESCA MORGANTE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7255/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 15/07/2021 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

FATTI DI CAUSA

1. B.T. e G.G., nella qualità di eredi di A.R., ricorrono, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 7255/18, del 17 novembre 2018, della Corte di Appello di Roma, che – accogliendo il gravame esperito dalla Regione Lazio avverso la sentenza n. 16536/17, del 4 settembre 2017, del Tribunale di Roma – ha respinto la domanda proposta, per A.R., dal suo amministratore di sostegno, A.G., domanda volta alla restituzione dell’importo versato (ed assunto da parte attrice come, in realtà, non dovuto) quale retta per il ricovero della donna, protrattosi dal ***** sino al decesso della stessa il *****, presso la residenza sanitaria assistenziale *****.

2. In punto di fatto, le odierne ricorrenti riferiscono di essere subentrate, nella loro qualità di eredi della A., nel giudizio di ripetizione dell’indebito promosso dall’amministratore di sostegno della “de cuius” nei confronti della Regione Lazio e dell’Azienda USL Roma ***** (oggi Azienda USL Roma *****), relativo alla restituzione delle rette di degenza versate alla predetta RSA. La domanda era stata proposta, infatti, sul presupposto che l’ A., affetta da morbo di Alzheimer e invalida al 100%, nonché in condizioni di handicap grave, della L. 5 febbraio 1992, n. 104, ex art. 3, potesse fruire dell’applicazione della L. 27 dicembre 1983, n. 730, art. 30, norma che pone a carico del Servizio Sanitario nazionale le attività socio-assistenziali ritenute di rilievo sanitario.

Accolta la domanda dal Tribunale, siffatta decisione veniva integralmente riformata dal giudice di appello, il quale riteneva che, in assenza “di un preciso programma terapeutico-riabilitativo o conservativo prestabilito, mirato a far fronte a specifiche esigenze della A., oltre che inscindibilmente connesso all’assistenza propriamente intesa”, la norma di legge suddetta non potesse trovare applicazione, dovendo escludersi che le prestazioni fruite dalla donna potessero “essere ricondotte tra quelle integralmente a carico del S.S.N.”.

3. Avverso la decisione della Corte capitolina ricorrono per cassazione la B. e la G., sulla base – come detto – di due motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si denuncia violazione degli artt. 32 e 117 Cost., nonché della L. 23 dicembre 1978, n. 833, artt. 1, 2, 3,19,25,26, 53, 63 e 64, L. 27 dicembre 1983, n. 730, art. 30, D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 229, art. 3-septies, art. 2697 c.c. e art. 113 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 4, oltre che dell’art. 1 preleggi.

Assumono le ricorrenti che della L. n. 730 del 1983, art. 30, “nel solco” delineato dalle citate disposizioni della L. n. 833 del 1978, ha stabilito che per “l’esercizio delle proprie competenze nelle attività di tipo socio-assistenziale, gli enti locali e le regioni possono avvalersi, in tutto o in parte, delle unità sanitarie locali, facendosi completamente carico del relativo finanziamento”, precisando che sono “a carico del fondo sanitario nazionale gli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali”, queste ultime oggetto di “separata contabilità” da parte delle unità sanitarie locali.

In forza di tale norma, dunque, le attività di carattere sanitario, presenti in servizi integrati (quali quelli erogati, come nel caso della A., a favore di soggetto affetto da morbo di Alzheimer, invalido al 100% e con handicap grave, ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 3, comma 3) non perderebbero la loro connotazione sanitaria e, con essa, il carattere della gratuità.

Ciò premesso, del D.P.C.M. 8 agosto 1985, art. 1, avrebbe completato il disegno di cui alla disposizione legislativa “de qua”, indicando i criteri generali per stabilire quali casi ricadano nelle “attività di rilievo sanitario”, individuando le stesse – nell’ambito dei servizi che “richiedono personale e tipologie di intervento proprie del servizio socio-assistenziale” – in quelle tese “immediatamente e prevalentemente alla tutela della salute”. Integrando tale criterio, inoltre, l’art. 2 del medesimo D.P.C.M. si è preoccupato di escludere dalla sfera di incidenza della L. n. 730 del 1983, art. 30, i servizi di stretto o preminente carattere socio-assistenziale, ovvero quelle attività direttamente ed esclusivamente socio-assistenziali, comunque estrinsecantesi, anche se indirettamente finalizzate alla tutela della salute. Di interesse, ai fini del presente caso, sarebbe, poi, l’art. 6 del già citato D.P.C.M., che non lascerebbe dubbi sul fatto che tra le attività di rilievo sanitario rientrino quelle di riabilitazione dei portatori di handicap e dei disabili, nell’ambito degli interventi previsti dalla L. n. 833 del 1978, art. 26, in relazione ai trattamenti dei malati mentali di cui all’art. 64 della stessa Legge.

Siffatto quadro normativo non sarebbe mutato neppure dopo l’avvento del D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 229, il cui art. 3-septies, non avrebbe inciso sulla regola enunciata dalla L. n. 730 del 1983, art. 30, sicché l’art. 3 del D.P.C.M. 14 febbraio 2001, quale atto di indirizzo e coordinamento di tale previsione normativa, avrebbe confermato la definizione delle “prestazioni sanitarie a rilevanza sociale” come quelle “erogate contestualmente ad adeguati interventi sociali”, nonché “finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite o acquisite”.

Orbene, la sentenza impugnata avrebbe violato tali norme e l’interpretazione che delle stesse ha fornito la giurisprudenza di questa Corte (sono citate Cass. Sez. 1, sent. 22 marzo 2012, n. 4558; Cass. Sez. 3, sent. 18 settembre 2014, n. 19642 e Cass. Sez. Lav, sent. 19 novembre 2016 n. 22776, la prima delle quali, oltretutto, relativa alle prestazioni socio-assistenziali fruite da persona affetta da morbo di Alzheimer) – nell’escludere che fossero a carico del S.S.N. le prestazioni erogate in favore della A., avendo dato rilievo all’assenza “di un preciso programma terapeutico-riabilitativo o conservativo prestabilito, mirato a far fronte a specifiche esigenze” della donna, oltre che “inscindibilmente connesso all’assistenza propriamente intesa”. Orbene, alla luce di quelle che le ricorrenti reputano come “pacifiche risultanze” di causa, viene ritenuta anche contraddittoria la conclusione raggiunta dalla Corte capitolina, la quale ha negato il diritto alla ripetizione, sebbene avesse definito “di per sé ingravescente” la patologia da cui la A. era affetta, tanto da aver condotto la stessa “ad inesorabile peggioramento psico-fisico”, seppure con andamento altalenante, visto che la paziente “e’ stata curata talvolta per mitigare la sua aggressività; in altri casi per crisi epilettiche, in altri non ha subito cure rilevanti”.

Ne’, d’altra parte, a giustificare l’esito del rigetto della domanda di ripetizione potrebbe invocarsi l’arresto di questa Corte richiamato dalla sentenza impugnata (si tratta di Cass. Sez. 3, ord. 28 novembre 2017, n. 28321), giacché esso, nel ribadire il principio secondo cui “sono a carico del fondo sanitario nazionale gli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali”, ha escluso il diritto alla ripetizione, in quel caso, unicamente sul rilievo che il paziente non avesse né allegato né dimostrato l’erogazione di prestazioni sanitarie connesse a quelle assistenziali.

Infine, nel descritto contesto – fattuale, normativo e giurisprudenziale – “del tutto irrilevante”, ai fini della ritenuta inapplicabilità al caso di specie della L. n. 730 del 1983, art. 30, sarebbe il regime di cui all’allegato 1C del già citato D.P.C.M. del 29 novembre 2001, pure richiamato dalla Corte capitolina. E ciò, innanzitutto, perché tale documento non risulta versato in atti, essendo, dunque, non conoscibile dall’adita autorità giudiziaria – data la sua natura di atto meramente amministrativo – in forza del principio “iura novit curia” (e’ richiamata Cass. Sez. Lav., sent. 5 ottobre 2017, n. 23275). Ma soprattutto perché, come affermato dalla giurisprudenza amministrativa – peraltro condivisa, secondo le ricorrenti, da quella di legittimità più sopra richiamata – la qualifica di anziano non autosufficiente non esclude quella più grave di disabile, con effetto sull’emersione di un maggior impegno dei presidi sanitari apprestati (e’ citato Cons. St., Sez. III, sent. 26 gennaio 2015, n. 339).

3.2. Con il secondo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) – si deduce violazione degli artt. 32 e 117 Cost., nonché dell’art. 115 c.p.c., art. 2697 c.c., D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 229, art. 3-septies, L. 23 dicembre 1988, n. 400, art. 17, oltre ad omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.

Si censura, in questo caso, la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso che la prestazione socio-sanitaria erogata in favore della A. fosse da porre a carico del Servizio Sanitario almeno dal 9 aprile 2013, e ciò sebbene la stessa sentenza affermi che la Regione Lazio ebbe a riconoscere, nel proprio appello, che a partire dall’adozione dei Decreti Commissariali, emessi nei mesi di marzo e aprile 2013, fosse completamente a carico del S.S.R. l’onere per la tipologia di trattamento estensivo per persone non autosufficienti anche anziane, i cui requisiti erano stati approvati con D.C.A. n. 00015 del 9 aprile 2013. Si contesta l’affermazione della Corte territoriale secondo cui non sarebbe dato “espressamente apprezzare” se la difesa regionale “abbia fatto riferimento a provvedimenti amministrativi che si siano occupati precipuamente del trattamento offerto alla A.”, atteso che non sarebbe possibile attribuire all’assunto difensivo alcun altro senso possibile se non quello del “riconoscimento, seppur parziale, della fondatezza della domanda”, risultando errata l’ulteriore rilievo del giudice di appello secondo cui un simile riconoscimento si porrebbe in contrasto “con la normativa nazionale di riferimento”, giacché essa – obiettano le ricorrenti fissa un livello “essenziale” di assistenza, che non impedisce alle Regioni “di ampliare il novero delle prestazioni a carico del Servizio Sanitario”.

4. La Regione Lazio ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata.

L’inammissibilità, in particolare, del primo motivo di ricorso è eccepita sul rilievo che esso tenderebbe non a dedurre un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma di legge (come necessario, invece, allorché sia denunciato un vizio di violazione di legge), bensì un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa. Inoltre, la sentenza impugnata si sarebbe uniformata ai principi applicati, in materia, da questa Corte, in particolare con la sentenza n. 28231 del 2017, che richiede la prova, in concreto, della somministrazione al paziente di un piano terapeutico, riabilitativo o conservativo prestabilito, ai fini del riconoscimento della gratuità della prestazione.

Quanto all’infondatezza del motivo, la controricorrente evidenzia di aver eccepito, nei due giudizi di merito, che la gratuità è da ritenersi circoscritta a quelle prestazioni individuate nei cd. “LEA”, definiti con il D.P.C.M. 29 novembre 2001 e sue successive modificazioni, sicché ove il cittadino intenda fruire di una prestazione ivi non compresa ne sopporta, totalmente, il relativo onere economico. In particolare, nel caso che occupa, poiché secondo la valutazione multidimensionale dell’ASL la paziente A. rientrava nel livello di mantenimento alto (ovvero, il terzo livello, R2-R2D), e non nel livello R1, vale a dire l’unico a carico del S.S.N., la domanda degli eredi della donna sarebbe stata da rigettare già in primo grado.

In merito, invece, al secondo motivo di ricorso, la controricorrente – non senza previamente eccepirne l’inammissibilità, per mescolanza di censure eterogenee ribadisce come la sua infondatezza derivi dal fatto che essa Regione ha esclusivamente riconosciuto il totale onere a proprio carico per la tipologia di trattamento estensivo (R1) per persone non autosufficienti, mentre, nel caso che occupa, l’ASL aveva valutato l’ A. quale bisognosa del trattamento di mantenimento alto (R2).

5. Anche la ASL Roma ***** ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o infondata sulla base di considerazioni analoghe a quelle illustrate dalla Regione Lazio.

Sottolinea, in ogni caso, come all’esito del primo grado di giudizio (pur conclusosi con l’accoglimento della domanda delle eredi dell’ A.), le odierne ricorrenti avessero proposto appello incidentale condizionato, contro il capo di sentenza che aveva rigettato la domanda proposta verso essa ASL Roma *****, condizionando, però, il gravame all’accoglimento dell’eccezione con cui la Regione indicava in essa ASL il solo soggetto legittimato passivamente. Di conseguenza, anche nel presente giudizio tali domande dovrebbero ritenersi escluse, se non limitatamente all’ipotesi di accoglimento dell’eccezione di carenza di legittimazione passiva della Regione.

6. Fissata la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., tutte le parti hanno depositato memoria, insistendo nelle rispettive argomentazioni.

RAGIONI DELLA DECISIONE

7. Il ricorso va rigettato.

7.1. Il primo motivo, sebbene ammissibile – diversamente da quanto eccepito da entrambe le controricorrenti – non è fondato.

7.1.1. “In limine”, infatti, va disattesa la preliminare eccezione di inammissibilità formulata dalla Regione Lazio e dalla ASL Roma *****, sul rilievo che il motivo censurerebbe non un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma di legge (come necessario, invece, allorché sia denunciato un vizio di violazione di legge), bensì un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa.

Sul punto, infatti, va certamente ribadito – sulla scorta di quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, anche al suo massimo livello nomofilattico, che il “discrimine tra l’ipotesi di violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione della fattispecie astratta normativa e l’ipotesi della erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 26 febbraio 2021, n. 5442).

Nondimeno, ciò che il presente motivo di ricorso contesta peraltro, ritenendo “pacifiche” le risultanze di causa, e dunque non lamentando affatto un’erronea ricognizione della fattispecie concreta per il tramite delle stesse – è l’interpretazione che la Corte capitolina ha proposto della nozione di “prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria”, di cui del D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 229, art. 3-septies, comma 4. In particolare, la censura si appunta sull’affermazione del giudice di appello che, nell’identificare tali prestazioni in quelle “inscindibilmente connesse” alle prestazioni sanitarie strettamente intese (tanto da essere soggette al regime di gratuità, proprie di queste ultime), eleva ad elemento dirimente per loro identificazione l’esistenza di un programma terapeutico, di contenuto predeterminato, da attuare. Quello dedotto e’, dunque, tipicamente un vizio di sussunzione, proprio perché attiene all’interpretazione della norma.

7.1.2. Ciò detto, il motivo non è fondato, perché la soluzione ermeneutica offerta dalla Corte territoriale è del tutto conforme a quella già proposta da questo giudice di legittimità.

E’ stato, infatti, osservato che, ferma restando la tendenziale autonomia delle prestazioni socio-assistenziali, “nel caso in cui le prestazioni di natura sanitaria non possano, invece, essere eseguite “se non congiuntamente” alla attività di natura socioassistenziale, tal ché non sia possibile discernere il rispettivo onere economico, prevale in ogni caso la natura sanitaria del servizio, in quanto le altre prestazioni – di natura diversa – debbono ritenersi avvinte alle prime da un nesso di strumentalità necessaria essendo dirette a consentire la cura della salute dell’assistito, e dunque la “complessiva prestazione” deve essere erogata a titolo gratuito” (così, da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 28 novembre 2017, n. 28321, che richiama, sul punto, Cass. Sez. 1, sent. 22 marzo 2012, n. 4558 e Cass. Sez. Lav, sent. 19 novembre 2016 n. 22776). Il medesimo arresto, tuttavia, reca anche la precisazione secondo cui “la disciplina del Servizio sanitario pubblico che assicura a tutti i cittadini livelli essenziali uniformi di assistenza sanitaria, con spesa interamente a carico della Amministrazione pubblica”, concerne, per l’appunto, “la erogazione di prestazioni sanitarie o di prestazioni sanitarie “inscindibili” con quelle socio-assistenziali, e che presuppone, pertanto, che l’assistito debba essere sottoposto ad un programma di trattamento terapeutico riabilitativo o conservativo” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, ord. n. 28321 del 2017, cit.). In sostanza, “l’elemento differenziale tra prestazione socio-assistenziale “inscindibile” dalla prestazione sanitaria e prestazione socio-assistenziale “pura”, non sta, pertanto, nella situazione di limitata autonomia del soggetto, non altrimenti assistibile che nella struttura residenziale” – come mostrano, invece, di ritenere le odierne ricorrenti, insistendo sulla condizione della loro dante causa di paziente affetta da morbo di Alzheimer, invalida al 100% e disabile grave ai sensi della L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 3, comma 3 – “ma sta invece nella individuazione di un trattamento terapeutico personalizzato che non può essere somministrato se non congiuntamente alla prestazione assistenziale”, e ciò perché in tal caso, “l’intervento “sanitario-socio assistenziale” rimane interamente assorbito nelle prestazioni erogate dal Sistema sanitario pubblico, in quanto la struttura convenzionata/accreditata garantisce all’assistito dal SSR, attraverso il servizio integrato, il programma terapeutico, ed è quindi inserita a pieno titolo nell’ambito organizzativo e funzionale del Servizio sanitario pubblico” (così, ancora una volta, Cass. Sez. 3, ord. n. 28321 del 2017, cit.).

Orbene, nel caso che occupa, la Corte romana – con valutazione, questa sì, non sindacabile in sede di legittimità, in quanto di natura fattuale – ha escluso esservi la prova che “fosse stato elaborato alcun prestabilito programma terapeutico personalizzato e modulato sulle esigenze della A., a scopo terapeutico” (avendo, in particolare, affermato che, nella specie, non era “dato ravvisare l’esistenza di un preciso programma terapeutico-riabilitativo o conservativo, prestabilito”, ma piuttosto solo “un percorso di cura e assistenza” in cui “la prima è stata modulata in base alle emergenze che volta per volta presentava la patologia” e, dunque, connotata da occasionalità), ciò che consente di affermare che essa non sia incorsa nel denunciato vizio di violazione di legge. La sentenza impugnata, infatti, si è attenuta, come visto, all’interpretazione proposta da questa Corte, che ravvisa nella “individuazione di un trattamento terapeutico personalizzato” (e, dunque, non connotato da occasionalità) il “discrimen” per ritenere la prestazione socio-assistenziale “inscindibilmente connessa” a quella sanitaria e, quindi, soggetta al regime di gratuità propria di quest’ultima.

7.2. Il secondo motivo – da scrutinare, come avvenuto per il precedente, anch’esso nel merito – è inammissibile, ancorché per ragioni diverse da quelle indicate dalle controricorrenti.

7.2.1. Neppure in questo caso, infatti, può condividersi la preliminare eccezione di inammissibilità da esse formulata, e consistente nella dedotta “mescolanza” di censure eterogenee.

Invero, “il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo”, vale a dire quanto si è verificato nel caso che occupa, “non costituisce, di per sé, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati” (così Cass. Sez. Un., sent. 6 maggio 2015, n. 9100, Rv. 635452-01; in senso sostanzialmente analogo, sebbene “a contrario”, si veda anche Cass. Sez. 3, ord. 17 marzo 2017, n. 7009, Rv. 643681-01).

7.2.2. Esaminando, dunque, singolarmente le diverse censure in cui si articola il motivo, come se si trattasse di autonomi motivi, inammissibile si presenta, innanzitutto, quella formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Difatti, tale norma dà unicamente rilievo all’omesso esame di un “fatto vero e proprio” (non di una “questione” o di un “punto” della sentenza) e, quindi, “un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo” (così, in motivazione, Cass. Sez. 5, sent. 8 settembre 2016, n. 17761, Rv. 641174-01; nello stesso senso Cass. Sez. 6-5, ord. 4 ottobre 2017, n. 23238, Rv. 646308-01), vale a dire “un preciso accadimento, ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico” (Cass. Sez. 5, sent. 8 ottobre 2014, n. 21152, Rv. 632989-01; Cass. Sez. Un., sent. 23 marzo 2015, n. 5745, non massimata), “un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto” (cfr. Cass. Sez. 1, ord. 5 marzo 2014, n. 5133, Rv. 629647-01), e “come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni” (Cass. Sez., 6-1, ord. 6 settembre 2019, n. 22397, Rv. 655413-01), né, tantomeno, “fatti rilevanti ai fini dell’applicazione delle norme regolatrici del processo” (Cass. Sez. 3, sent. 8 marzo 2017, n. 5785, Rv. 643398-01), quale, nella specie, sarebbe l’avvenuto riconoscimento in giudizio, da parte della Regione Lazio, del diritto dell’ A. a fruire delle prestazioni gratuite a far data dal 9 aprile 2013.

7.2.3. Quanto, poi, alle restanti censure, esse investono, sotto due diversi profili, la duplice “ratio decidendi” con cui la Corte capitolina ha ritenuto “irrilevante” la deduzione difensiva della Regione secondo cui, in forza dei Decreti Commissariali emessi nei mesi di marzo e aprile 2013, sarebbe divenuto a carico del S.S.R. “l’onere per la tipologia di trattamento estensivo per persone non autosufficienti, anche anziane (…) i cui requisiti sono stati approvati successivamente, con DCA n. 00015 del 9 aprile 2013”.

Infatti, è prospettata una prima censura di violazione dell’art. 115 c.p.c. (e dell’art. 2697 c.c.), per avere la Corte romana, secondo le ricorrenti, disatteso la valenza – che sarebbe stata insita, invece, in tali affermazioni della difesa della Regione Lazio – di riconoscimento della gratuità delle prestazioni socio-assistenziale almeno a far data dal 9 aprile 2013, avendo la sentenza impugnata statuito, sul punto, che “non è dato espressamente apprezzare se tale difesa abbia fatto riferimento a provvedimenti amministrativi che si siano occupati precipuamente del trattamento offerto dalla A.”.

Vi e’, poi, una censura di violazione degli artt. 32 e 117 Cost. (e del D.Lgs. n. 229 del 1999, art. 3-septies e della L. n. 400 del 1988, art. 17) che investe la concorrente, o meglio alternativa, affermazione secondo cui tali eventuali provvedimenti sarebbero “suscettibili di disapplicazione, poiché non appaiono conformi alle norme di legge primaria (…), compreso il loro rinvio alle fonti secondarie”.

Ciò detto, l’inammissibilità della prima di tali censure – per le ragioni di cui sui dirà appena di seguito – rende superfluo interrogarsi su quella che investe, invece, tale seconda “ratio decidendi”, in applicazione del principio secondo cui, “ove la sentenza di merito sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, il rilievo di inammissibilità del motivo di ricorso per cassazione diretto a censurare solo una di esse – consentito in applicazione del principio della “ragione più liquida” – rende irrilevante l’esame degli altri motivi” (o, come nella specie, censure), “atteso che in nessun caso potrebbe derivarne l’annullamento della sentenza impugnata, risultando comunque consolidata l’autonoma motivazione oggetto della censura dichiarata inammissibile” (Cass. Sez. 3, ord. 21 luglio 2017, n. 15350, Rv. 644814-01).

D’altra parte, che la prima “ratio decidendi” non sia stata adeguatamente contrastata dalle ricorrenti è conclusione imposta dal rilievo che le stesse, lungi dal fornire la dimostrazione che la Regione, nei propri scritti defensionali, avesse “fatto riferimento a provvedimenti amministrativi che si siano occupati precipuamente del trattamento offerto dalla A.” (come ha correttamente rilevato dalla sentenza impugnata), hanno, invece, sostenuto che da tali scritti emergeva che la Regione avesse “fatto riferimento a trattamenti “come quello” erogato alla Sig.ra A.R.”. Affermazione non idonea – anche ai fini ed agli effetti di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) – a sostenere la tesi che la Regione avesse riconosciuto la gratuità delle prestazioni socio-assistenziali erogate alla A. almeno a far data dal 9 aprile 2013. Invero, specie a fronte del rilievo della Regione – dalla stessa ribadito anche in questa sede – di aver esclusivamente riconosciuto il totale onere a proprio carico per la tipologia di trattamento estensivo (R1) per persone non autosufficienti, mentre, nel caso che occupa, l’ASL aveva valutato l’ A. quale bisognosa del trattamento di mantenimento alto (R2), le ricorrenti avrebbe dovuto riprodurre, nel presente ricorso, provvedimenti che ebbero ad occuparsi precipuamente della propria dante causa, donde l’inammissibilità della censura. E ciò in applicazione del principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte che reputa “inammissibili le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità” (Cass. Sez. Un., sent. 27 dicembre 2019, n. 34469, Rv. 656488-01).

8. In conclusione, il ricorso va rigettato.

9. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

10. A carico delle ricorrenti sussiste, infine, l’obbligo di versare, se dovuto, l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna B.T. e G.G. a rifondere, alla Regione Lazio e dell’Azienda USL Roma *****, le spese del presente giudizio, che liquida, per la prima, in Euro 7.800,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge, nonché, per la seconda, in Euro 6.000,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 15 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2021

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