LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 16209-2020 proposto da:
D.M., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato FERDINANDO DEL MONDO;
– ricorrente –
contro
CITTA’ METROPOLITANA DI NAPOLI, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati DANIELA MAURIELLO e MAURIZIO MASSIMO MARSICO;
– controricorrente –
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, n. 595/2020 depositata il 07/02/2020;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 21/09/2021 dal Consigliere Relatore Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO.
RILEVATO
che:
1. la Corte d’Appello di Napoli ha respinto l’appello di D.M. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato il ricorso, proposto nei confronti della Città Metropolitana di Napoli, volto ad ottenere, previo accertamento dell’avvenuta instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato, la condanna dell’amministrazione convenuta al pagamento delle differenze retributive fra quanto spettante in base all’inquadramento nella qualifica di ausiliario – A1 – e quanto ricevuto a titolo di sussidio per L.S.U.;
2. il giudice d’appello ha evidenziato che l’orientamento di questa Corte, secondo cui il lavoratore socialmente utile può invocare la tutela prevista dall’art. 2126 c.c., qualora venga impiegato per finalità diverse rispetto al progetto originario, è applicabile a condizione che risulti instaurato, in via di mero fatto, un rapporto di impiego, e quindi che emerga la prova dell’inserimento nell’organizzazione dell’ente, dell’adibizione a servizio rientrante nei fini istituzionali della P.A., dell’assunzione di responsabilità amministrativa e disciplinare;
3. ha escluso che l’appellante avesse assolto all’onere probatorio sullo stesso gravante ed ha rilevato la carenza e la genericità delle allegazioni contenute nell’atto introduttivo quanto agli elementi di fatto caratterizzanti il rapporto, indispensabili per valutare l’asserita difformità rispetto al progetto;
4. la Corte territoriale ha ritenuto che non fossero sufficienti a dimostrare l’instaurazione di un rapporto di impiego l’identità delle mansioni rispetto a quelle previste per i dipendenti pubblici e la durata temporale dell’utilizzazione e, quanto a quest’ultimo aspetto, ha rilevato che il legislatore ha consentito la proroga dell’attività socialmente utile e, comunque, non ha mai sanzionato con la conversione in rapporto a tempo indeterminato la prosecuzione del progetto oltre i limiti temporali originariamente stabiliti;
5. infine il giudice d’appello ha escluso che il ricorrente potesse invocare la Dir. n. 1999/70/CE, ed ha richiamato giurisprudenza della Corte di Giustizia per evidenziare che i lavoratori socialmente utili non rientrano nell’ambito di applicazione dell’accordo quadro;
6. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso D.M. sulla base di due motivi, ai quali ha resistito con controricorso la Città Metropolitana di Napoli;
7. la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata notificata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata;
8. entrambe le parti hanno depositato memoria.
CONSIDERATO
che:
1. il primo motivo del ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, denuncia “violazione e falsa applicazione di norme di legge; omesso esame circa un punto decisivo della controversia; omessa motivazione; artt. 1 e 36 Cost.; art. 11 preleggi; del D.L. 16 maggio 1994, n. 299, art. 14, conv. in L. 19 luglio 1994, n. 451; D.Lgs. n. 468 del 1997, art. 1; del D.Lgs. 28 febbraio 2000, n. 81, art. 4; della Dir. 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE, allegato accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, clausola 2” e addebita, in sintesi, alla Corte territoriale di avere erroneamente ritenuto che l’utilizzazione in lavori socialmente utili possa essere prorogata oltre i limiti massimi previsti dalla legge;
1.1. il ricorrente insiste nel sostenere l’assoluta difformità rispetto al progetto delle modalità di svolgimento della prestazione e deduce che non poteva essere esclusa l’applicazione della direttiva perché l’attivazione di un progetto per LSU è assimilabile al contratto di apprendistato che nella seconda fase, ove non intervenga il recesso, realizza il normale scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione;
2. con la seconda censura, egualmente ricondotta ai nn. 3 e 5 dell’art. 360 c.p.c., si denuncia “violazione e falsa applicazione di norme di legge; vizio di motivazione; omesso esame circa un punto decisivo della controversia; artt. 3 e 36 Cost.; Dir. n. 1999/70/CE, art. 4, comma 1; art. 12 preleggi; artt. 2126 e 2697 c.c.; D.Lgs. n. 468 del 1997, artt. 2 e 8” perché la Corte territoriale non ha esaminato i documenti prodotti a sostegno dell’appello, sufficienti a dimostrare che l’utilizzazione presso il Centro per l’Impiego non poteva essere in alcun modo essere ricondotta al progetto di “censimento dei fattori di degrado ambientale”, “bonifica del territorio dai rifiuti solidi urbani”, “lavori di bonifica rimboschimento nel *****”;
2.1. il ricorrente aggiunge che dovevano essere accolte le richieste istruttorie finalizzate a dimostrare la diversità delle mansioni svolte rispetto a quelle previste dal progetto e che i compiti assegnati, comportanti all’evidenza inserimento nell’organizzazione pubblicistica dell’ente, erano indicati nella lettera della Provincia di Napoli del 14 aprile 2009, indirizzata a tutto il personale LSU;
3. il ricorso è inammissibile in entrambe le sue articolazioni; la Corte territoriale ha richiamato in premessa l’orientamento, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’occupazione temporanea in lavori socialmente utili non integra un rapporto di lavoro subordinato, in quanto, ai sensi del D.Lgs. n. 468 del 1997, art. 8, poi riprodotto dal D.Lgs. 28 febbraio 2000, n. 81, art. 4, l’utilizzazione di tali lavoratori non determina l’instaurazione di un rapporto di lavoro, ma realizza un rapporto speciale che coinvolge più soggetti (oltre al lavoratore, l’amministrazione pubblica beneficiaria della prestazione e l’ente previdenziale erogatore della prestazione di integrazione salariale) di matrice assistenziale e con una finalità formativa diretta alla riqualificazione del personale per una possibile ricollocazione;
ciò, peraltro, non esclude che in concreto il rapporto possa atteggiarsi diversamente e configurare un vero e proprio lavoro subordinato, con conseguente applicazione dell’art. 2126 c.c., ma a tal fine è necessario che risultino provati, oltre alla difformità rispetto al progetto, l’effettivo inserimento nell’organizzazione pubblicistica dell’ente e l’adibizione ad un servizio rientrante nei fini istituzionali dell’amministrazione, ossia l’instaurazione in via di mero fatto di un rapporto di impiego (cfr. fra le più recenti Cass. n. 17101 del 2017 e Cass. n. 6155 del 2018);
il giudice d’appello ha, quindi, fondato il rigetto della domanda innanzitutto sull’assenza di prova degli indici della subordinazione ed ha aggiunto, poi, che la natura subordinata non poteva essere desunta solo dalla durata dell’utilizzazione, tanto più che il legislatore non ha vietato espressamente la proroga né ha previsto la conversione in rapporto a tempo indeterminato quale sanzione dell’eventuale illegittimità della proroga stessa;
4. il primo motivo non coglie pienamente l’effettiva ratio decidendi perché le considerazioni svolte sulla difformità rispetto al progetto e sull’illegittimità delle proroghe, ribadite anche nella memoria ex art. 380 bis c.p.c., a prescindere dalla loro fondatezza, non appaiono decisive ai fini dell’applicazione dell’art. 2126 c.c., una volta che, all’esito dell’accertamento di fatto riservato al giudice del merito, quest’ultimo abbia escluso che la prestazione sia stata resa nelle forme tipiche del lavoro subordinato;
4.1. l’esclusione dell’instaurazione di fatto del rapporto di impiego pubblico rende, altresì, inapplicabile alla fattispecie la Dir. n. 1999/70/CE perché “i lavoratori socialmente utili, non beneficiando di un rapporto di lavoro corrispondente a quello definito dalla legislazione, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore in Italia, non rientrano nell’ambito di applicazione dell’accordo quadro” salvo che non risulti accertato che la “qualifica formale è solamente fittizia e nasconde un reale rapporto di lavoro ” (Corte di Giustizia 15.3.2012, causa C-157/11, Sibilo);
5. si deve poi aggiungere che entrambi i motivi, oltre a denunciare inammissibilmente il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, al di fuori dei limiti indicati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8053 del 2014, vengono sviluppati sovrapponendo questioni che attengono alla ricostruzione dei fatti oggetto di causa e profili giuridici sicché finiscono per assegnare inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (Cass. n. 26790 del 2018);
6. infine il ricorso, nella parte in cui si duole dell’omesso esame di documenti rilevanti ai fini della decisione e della mancata ammissione delle richieste istruttorie, è formulato senza il necessario rispetto dell’onere imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6;
6.1. nel giudizio di cassazione, a critica vincolata ed essenzialmente basato su atti scritti, essendo ormai solo eventuale la possibilità di illustrazione orale delle difese, i requisiti di completezza e di specificità imposti dall’art. 366 c.p.c., perseguono la finalità di consentire al giudice di legittimità di avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, e, pertanto, qualora la censura si fondi su atti o documenti è necessario che di quegli atti il ricorrente riporti il contenuto, mediante la trascrizione delle parti rilevanti, precisando, inoltre, in quale sede e con quali modalità gli stessi siano stati acquisiti al processo;
6.2. occorre poi che la parte assolva al distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., n. 4, perché l’art. 366 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 5, riguarda le condizioni di ammissibilità del ricorso mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento, sempre che lo stesso sia stato specificamente indicato nell’impugnazione (Cass. n. 19048 del 2016);
6.3. i richiamati principi sono stati ribaditi dalle Sezioni Unite in recente decisione con la quale si è affermato che “in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità” (Cass. S.U. n. 34469 del 2019);
6.4. il ricorso è tutto incentrato sul contenuto di atti e documenti richiamati per relationem, il che impedisce alla Corte di valutare ex actis la fondatezza e la decisività delle censure;
7. il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione in favore della Città Metropolitana di Napoli, liquidate come da dispositivo;
8. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315 del 2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della Città Metropolitana di Napoli, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 2.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 21 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2021
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