LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2694-2019 proposto da:
B.M., quale difensore di se stesso, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE PICO DELLA MIRANDOLA 13, presso il proprio studio;
– ricorrente –
contro
BR.MA., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARIO SAVINI 7, presso lo studio dell’avvocato VALENTINA ROMAGNA, rappresentata e difesa dall’avvocato FILOMENA D’ANIELLO giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1684 della CORTE d’APPELLO di SALERNO, depositata il 29/10/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/01/2021 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO;
Lette le memorie depositate dal ricorrente.
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE Br.Ma. conveniva in giudizio il nipote B.M., sostenendo che aveva acquistato alcune unità immobiliari in Scafati cointestandole a sè stessa ed al convenuto, il quale si era impegnato a corrisponderle la metà del prezzo pagato con la sottoscrizione di un mutuo.
Chiedeva procedersi allo scioglimento della comunione, con la condanna del convenuto al versamento delle somme dovute nonchè alla quota parte dei frutti percetti dal godimento esclusivo di alcuni dei beni comuni.
Si costituiva il convenuto che invece sosteneva che la cointestazione dei beni era frutto di una donazione indiretta, avendo peraltro le parti provveduto ad una divisione bonaria dei beni.
Il Tribunale di Nocera Inferiore, con la sentenza n. 394 del 1 marzo 2017, rigettava la domanda di restituzione delle somme versate a titolo di prezzo, accogliendo unicamente la domanda di ripetizione della quota parte dei canoni di locazione percepiti dal convenuto.
La Corte d’Appello di Salerno con la sentenza n. 1684 del 29 ottobre 2018, in parziale riforma della sentenza gravata, accoglieva la domanda dell’attrice di rimborso delle spese di manutenzione del bene comune per l’importo di Euro 3.804,00, riduceva l’importo dovuto a titolo di rendiconto dal convenuto, e previa determinazione del conguaglio divisionale, statuiva che B.M. doveva versare all’attrice la somma di Euro 46.644,00 oltre interessi.
Quanto al motivo dell’appello principale con il quale il convenuto lamentava che non vi fosse stata condanna anche dell’attrice al rimborso dei frutti derivanti dal godimento esclusivo di parte dei beni comuni, la decisione di appello rilevava che nessuna domanda in tal senso era stata proposta dal convenuto, essendo preclusa la sua proposizione per la prima volta in appello.
Inoltre, solo i beni di fatto assegnati al convenuto erano stati oggetto di locazione, a differenza dei beni detenuti dall’attrice che li aveva adibiti ad uso personale.
Quanto alla determinazione dei frutti derivanti dalla locazione, la sentenza osservava che al 31 gennaio 2014 un appartamento era risultato sfitto e che era stato nuovamente locato solo a far data dal 17 novembre 2015.
Per l’effetto la somma di Euro 56.870,00 doveva esser ridotta ad Euro 51.660,00.
Quindi rigettava l’appello incidentale volto ad ottenere la restituzione della metà del prezzo pagato per l’acquisto, non essendo stata fornita la prova dell’esistenza di una siffatta obbligazione contratta dal convenuto, potendosi ritenere che la qualificazione della fattispecie come donazione indiretta poteva avvenire ai soli fini del percorso logico seguito per il rigetto della domanda de qua.
Era invece parzialmente meritevole di accoglimento il motivo di appello incidentale volto ad ottenere il rimborso delle spese sostenute per la manutenzione dei beni comuni, emergendo un assenso del convenuto alle richieste della istante, dovendosi quantificare l’importo dovuto nella somma di Euro 3.804,00.
Infine, era accolto anche il motivo di appello incidentale con il quale si lamentava che l’immobile assegnato all’attrice in sede di divisione aveva una superficie inferiore rispetto a quello assegnato al convenuto, che doveva quindi provvedere al versamento del conguaglio.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione B.M. sulla base di cinque motivi, illustrati da memorie.
Br.Ma. ha resistito con controricorso.
Il primo motivo di appello denuncia la violazione dell’art. 344 c.p.c. (rectius art. 345 c.p.c.) per avere ritenuto inammissibile l’esame del primo motivo di appello sull’erroneo presupposto che trattasi di argomento nuovo non proponibile in appello, rispetto invece a specifica domanda di divisione e di valutazione del rispettivo libero utilizzo dell’immobile in comunione, contenuta nella comparsa di costituzione in primo grado.
Deduce il ricorrente che già in occasione della costituzione dinanzi al Tribunale aveva dedotto che la zia aveva potuto fruire di alcuni degli immobili in comunione, occupandoli per proprio uso personale, immobili di valore ben superiore a quelli invece fruiti dal ricorrente.
Si deduceva quindi che era necessario considerare il diverso valore locativo dei beni medio tempore goduti, così che nel redigere il progetto di divisione bisognava tenere conto “della volontaria suddivisione ed uso attuato ad oggi dai convidividendi, evidenziando il maggior valore anche ai fini locativi delle parti utilizzate e godute dalla Sig.ra Br.Ma. rispetto a quelle godute dal Sig. B.M., con riconoscimento di giusto conguaglio a favore di quest’ultimo, nella misura che verrà accertata”.
Ne deriva che allorquando in appello si era richiesto di tenere conto del paritetico uso dei beni da parte di entrambi i comproprietari non era stata introdotta alcuna domanda nuova.
Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1102 e 1148 c.c. per avere rigettato il primo motivo di appello, ritenendo dovuta all’attrice la percezione dei frutti provenienti dalla parte liberamente concordata in uso al ricorrente, senza considerare il paritetico e libero utilizzo del bene da parte della medesima comunista.
Si evidenzia che la Corte d’Appello per disattendere la richiesta del ricorrente aveva fatto riferimento alla circostanza che l’attrice aveva fruito di alcuni dei beni in comunione per finalità personali, trascurando che anche tale modalità di utilizzo deve essere considerata ai fini del rendiconto dei frutti dovuti.
I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.
Costituisce giurisprudenza costante di questa Corte quella secondo cui (Cass. n. 15182/2019) l’azione di rendiconto costituisce un’azione autonoma e distinta rispetto alla domanda di scioglimento della comunione, sicchè la domanda riconvenzionale con la quale si intende chiedere il rendiconto deve essere proposta, a pena di inammissibilità, con la comparsa di risposta ai sensi dell’art. 167 c.p.c. (in senso conforme per l’autonomia della domanda de qua rispetto a quella di divisione, Cass. n. 5861/1991; Cass. n. 2747/1998). Peraltro, è stato anche precisato che (Cass. n. 4364/2002) la domanda di conguaglio in relazione ai frutti prodotti dai cespiti ereditari, asseritamente percetti in misura non proporzionale alle quote da parte di alcuni dei coeredi rispetto ad altri, deve essere proposta non nell’ambito della domanda relativa alla divisione ed ai conseguenti conguagli divisionali, bensì, sia pure contestualmente, con una distinta ed autonoma domanda di rendiconto.
Risulta quindi corretta l’affermazione del giudice di appello secondo cui al ricorrente non poteva essere riconosciuta la sua quota parte relativamente ai frutti percetti o percipiendi per il godimento dei beni di fatto detenuti dall’attrice, non avendo questi a sua volta promosso domanda di rendiconto (ratio questa connotata da un’autonoma decisorietà e che rende quindi superfluo esaminare la correttezza della diversa affermazione secondo cui se il bene comune sia goduto per uso personale ciò non legittima la richiesta di pagamento dei frutti da parte dell’altro condividente).
Nè può sostenersi, come vorrebbe il B., che in realtà la domanda de qua era stata avanzata sin dalla comparsa di risposta, atteso che dalla lettura delle richieste e delle conclusioni contenute in tale atto, risulta con evidenza che il riferimento al valore locativo dei beni in via di fatto assegnati alla zia era finalizzato solo a sottolineare la necessità di formare un comodo progetto di divisione che tenesse conto del reale valore dei beni, anche in considerazione delle potenzialità locative dei medesimi.
Così come il richiamo in sede di conclusioni in primo grado alla circostanza che anche l’attrice beneficiava e godeva in uso della metà dello stabile, in realtà mirato essenzialmente al rigetto dell’altrui domanda di rendiconto, anche a voler reputare che costituisse un’autonoma proposizione della domanda de qua in relazione al godimento esclusivo della controparte, sarebbe comunque una domanda tardiva, in quanto avanzata solo in sede di precisazione delle conclusioni, e come tale inammissibile, sebbene non per la violazione dell’art. 345 c.p.c., ma per quella delle preclusioni poste dal codice di rito alla proponibilità delle domande in primo grado.
Nè può ritenersi che la soluzione alla quale è giunta la sentenza gravata violi la previsione di cui all’art. 1102 c.c., posto che, lungi dal negare l’astratto diritto del ricorrente a ricevere la propria parte dei frutti goduti dall’altra condividente, ha più limitatamente dato atto che non era stata formulata una domanda in tal senso, con una soluzione quindi di carattere processuale, che non contraddice i principi richiamati dal ricorrente in tema di uso della cosa comune.
Il terzo motivo di ricorso denuncia l’omesso esame della circostanza contestata con il secondo motivo di appello relativa alla carenza di prova della fruttificazione per Euro 113.740,00 dei due appartamenti siti al primo piano in uso allo stesso ricorrente.
Si deduce che la Corte d’Appello, pur riconoscendo per l’appartamento che aveva un canone annuo di Euro 7.560,00 che andavano ridotte le mensilità per le quali erano dovuti i frutti (essendo rimasto sfitto dal 31 gennaio 2014 al 17 novembre 2015), ha rideterminato i frutti dovuti per l’immobile nella complessiva somma di Euro 51.660,00, che però è stata integralmente attribuita all’attrice, senza tenere conto della necessità di dover riconoscere solo la quota parte pari al 50%, e cioè Euro 25.830,00.
Rileva la Corte che l’errore commesso dalla Corte d’Appello, sebbene effettivamente sussistente, non appare però validamente deducibile dal ricorrente, atteso che non si tratta di errore commesso in danno del medesimo, il che esclude il concreto interesse a dedurlo.
Infatti, come si ricava dalla stessa lettura del motivo di ricorso, la somma complessivamente riconosciuta per la fruttificazione dei due appartamenti da parte del Tribunale ammontava a complessivi Euro 113.740,00, di cui, alla luce dello sviluppo dei canoni annui per il numero di mensilità di godimento esclusivo, Euro 54.520,00 per l’appartamento il cui canone annuo è di Euro 6.960,00, ed Euro 59.200,00 per l’altro appartamento.
Una volta rideterminati i frutti per questo secondo appartamento nella somma complessiva di Euro 51.660,00, e cumulata la medesima con quella derivante dalla fruttificazione dell’altro immobile, si ricava un totale di Euro 106.180,00, del quale la metà compete alla convenuta, per l’importo di Euro 53.090,00 che risulta quindi superiore rispetto a quello in concreto liquidato dalla Corte d’Appello.
Trattasi di errore che avrebbe dovuto essere in realtà denunciato dall’originaria parte attrice, e che non può essere emendato in assenza di impugnazione incidentale.
Il motivo deve quindi essere dichiarato inammissibile.
Il quarto motivo di ricorso lamenta la violazione degli artt. 1101,1104 e 1110 c.c. laddove il giudice di appello ha riconosciuto a Br.Ma. il rimborso della somma di Euro 3.804,00 per spese sostenute nell’interesse dei beni comuni, non tenendo conto della quota di comproprietà della stessa richiedente.
Il motivo è fondato.
E, infatti, stante la mancata impugnazione incidentale della controricorrente, l’ammontare delle somme dovute a titolo di rimborso spese deve corrispondere a quello oggetto di determinazione da parte del giudice di appello (non potendo quindi avere seguito le deduzioni difensive sviluppate dalla difesa di Br.Ma. alle pagg. 17 e ss. del controricorso), ma di tale ammontare il ricorrente era tenuto a rimborsare solo il 50% in corrispondenza della sua quota di comproprietà.
La sentenza impugnata deve quindi essere cassata, ma non apparendo necessario svolgere ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito, rideterminando il credito da rimborso di cui al punto 1 del dispositivo nella minor somma di Euro 1.902,00 e quindi la somma di cui al capo 4 del dispositivo, al cui pagamento è tenuto il B. in favore della controparte, nella somma di Euro 53.562,00 (tenuto conto dell’intervenuta correzione da parte della stessa Corte d’Appello dell’errore di calcolo ivi inizialmente contenuto, con ordinanza del 5/2/2019), oltre interessi come determinati dal giudice di primo grado e confermati in appello.
Il quinto motivo lamenta ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame delle questioni sollevate da entrambe le parti in relazione agli esiti della CTU, annullando il conguaglio che il Tribunale aveva disposto in favore del ricorrente, discostandosi dalle valutazioni tecniche dell’ausiliario.
La censura investe la decisione della Corte d’Appello che, chiamata a valutare la correttezza del progetto di divisione approvato, ha condiviso il motivo di appello incidentale dell’attrice che si doleva del fatto che, pur avendo ricevuto un bene avente superficie inferiore a quello assegnato al convenuto, era stata condannata al pagamento del conguaglio. Per l’effetto, ha ritenuto che la differenza di valore potesse essere corretta intervenendo sul conguaglio, ed escludendo la sua debenza.
Denuncia il ricorrente che la decisione sarebbe stata adottata senza prendere in esame le risultanze della CTU, essendosi sposato il solo criterio della superficie senza tenere conto degli altri criteri che incidono sulla stima dei beni.
Il motivo è inammissibile.
In primo luogo, difetta evidentemente del requisito di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, nella parte in cui omette del tutto di riportare in ricorso i passaggi salienti della consulenza tecnica d’ufficio che a suo dire, sarebbero stati traditi, o meglio non considerati, dal giudice di appello.
Ma ancor più rileva che la censura nella realtà attinge quella che è una tipica valutazione riservata al giudice di merito, quale quella relativa alla condivisione o meno delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio.
Infatti, preme rilevare che, proprio a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ed al fine di chiarire la corretta esegesi della novella, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte che con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, hanno ribadito che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, ed è solo in tali ristretti limiti che può essere denunziata la violazione di legge, sotto il profilo della violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.
Nella fattispecie, atteso il tenore della sentenza impugnata, deve escludersi che ricorra un’ipotesi di anomalia motivazionale riconducibile ad una delle fattispecie che, come sopra esposto, in base alla novella consentono alla Corte di sindacare la motivazione, avendo la sentenza ritenuto che non potesse essere trascurato il dato rappresentato dalla minor superficie dei beni assegnati alla controricorrente, differenza che portava quindi ad escludere la doverosità del conguaglio in primo grado attribuito al ricorrente.
Trattasi all’evidenza di tipica valutazione di merito che attinge alla stima dei beni comuni e che è supportata da considerazioni che escludono altresì che possa ravvisarsi un’ipotesi di motivazione meramente apparente ovvero connotata da grave anomalia o abnormità.
Atteso il parziale accoglimento del ricorso, e tenuto conto dell’esito complessivo della lite, che ha visto anche una parziale soccombenza dell’attrice (che ha visto disattesa la sua domanda di rimborso delle somme asseritamente dovutele quale quota parte del prezzo pagato), si ritiene che sussistano i presupposti per la compensazione delle spese dell’intero giudizio.
PQM
Accoglie il quarto motivo, e rigettati gli altri motivi di ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, e decidendo nel merito, in riforma dal capo 4 della sentenza gravata, condanna B.M. al pagamento in favore di Br.Ma. della somma di Euro 53.562,00, oltre interessi come determinati al capo 7 della sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore n. 394/2017;
Compensa integralmente le spese del presente giudizio nonchè dei gradi di merito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 15 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2021
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