Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.4659 del 22/02/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19279/2018 proposto da:

AQUILEIA CAPITAL SERVICES SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SAVOIA N. 72, presso lo studio dell’Avvocato GIANLUCA MORIANI, che lo rappresenta e difende unitamente all’Avvocato CIRO CARANO;

– ricorrente –

contro

D.L.G.;

– intimato –

2020 avverso la sentenza n. 254/2018 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 28/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/10/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. La società Aquileia Capital Services S.r.l. (d’ora in poi, “Aquileia”, già società Asset Resolution Italia S.r.l., e prima ancora società Hypo Alpe Adria Leasing S.r.l.) ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 254/18, del 28 maggio 2018, della Corte di Appello di Trieste, che rigettando il gravame esperito dalla società Asset Resolution Italia avverso la sentenza n. 263/16, del 29 febbraio 2016, del Tribunale di Udine – ha confermato, sebbene con differente motivazione, l’accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo proposta da D.L.G., quale titolare dell’impresa individuale Road Extreme, con conseguente compensazione della somma di Euro 28.288,79 rispetto all’importo di Euro 122.220,13, oggetto della pretesa azionata in via monitoria dalla Hypo Alpe Adria Leasing S.r.l. in relazione ad un contratto di leasing immobiliare intervenuto tra le parti.

2. In punto di fatto, la ricorrente riferisce che tra l’impresa individuale Road Extreme, del D.L., e la Hypo Alpe Adria Leasing interveniva, il 4 agosto 2008, un contratto di locazione finanziaria di immobile “in costruendo”, la cui efficacia era condizionata alla realizzazione dell’immobile. Verificatasi la condizione sospensiva, le parti regolavano in via definitiva, il 23 febbraio 2009, i loro rapporti, richiamando nelle clausole di indicizzazione dei canoni – visto che l’utilizzatore aveva optato per la strutturazione dell’operazione in franchi svizzeri (anche se per i pagamenti si sarebbe usata la valuta nazionale) – sia il tasso “Libor CHF”, sia il cambio “Euro/Chf”.

Essendosi, pertanto, convenuto – per ragioni pratiche, oltre che nel rispetto dell’art. 1277 c.c. – di adempiere in Euro l’obbligazione di pagamento dei canoni della locazione finanziaria, fu pattuita, attraverso clausole di indicizzazione, la regolazione “a latere” delle differenze,sia del tasso di interesse (in base all’oscillazione dell’indice “Libor Chf”), sia del cambio “Chf/Euro” (in base all’andamento dei cambi di valuta).

Sempre per ragioni pratiche, ovvero per evitare di rideterminare mensilmente i canoni secondo le variazioni,sia del tasso di interesse, sia del cambio tra le due valute, fu pattuito il pagamento mensile degli stessi secondo un piano finanziario calcolato in base a tali dati come risultanti al momento della sua determinazione, regolando, invece, “a latere” e periodicamente, in base alle variazioni conosciute dall’indice e dal cambio, le differenze – positive o negative, indifferentemente, per ciascuna delle parti – maturate in forza di tali oscillazioni.

Ciò premesso, essendosi registrata, nel corso del rapporto, una morosità del cliente, la società concedente conseguiva il suddetto decreto ingiuntivo, oggetto di opposizione da parte del D.L., accolta dal Tribunale di Udine, sul rilievo che la clausola sul cambio – a differenza di quella sul tasso di interesse – avesse natura di strumento finanziario “derivato”, assoggettato alla normativa del cd. “TUF” (D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, recante “Testo unico della finanza”), non osservata, nella specie, dalla società concedente.

Esperito gravame da quest’ultima, per contestare tale affermazione, il giudice di appello lo rigettava, confermando così la decisione di ridurre l’importo del credito azionato in via monitoria, sebbene con motivazione parzialmente diversa da quella del primo giudice. In particolare, la Corte di Appello di Trieste, nell’escludere che l’operazione fosse stata pattuita in valuta estera, riteneva che la clausola sul cambio – ricondotta alla fattispecie del “domestic currancy swap” e, dunque, assimilata ad una scommessa – presentasseinon solo una sua autonomia rispetto alla locazione finanziaria, ma soprattutto una causa propria, tale da qualificarla come “strumento finanziario”, “trovando i pagamenti reciproci la loro fonte non già nelle prestazioni contrattuali, bensì nelle oscillazioni del cambio (e del tasso svizzero)”. Su tali basi, dunque, escluso che la clausola in questione fosse regolamenta dal “TUF” (essendo, invece, assoggettata al testo unico bancario), il giudice di appello riteneva che, stante la sua “autonomia dal corpo pattizio nel quale è inserita”, nonchè la sua “natura atipica”, siffatta pattuizione non superasse il vaglio di meritevolezza, ex art. 1322 c.c..

3. Avverso la decisione della Corte giuliana ricorre per cassazione la società Aquileia, sulla base – come detto – di due motivi.

3.1. Con il primo motivo è denunciata – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), – violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1366,1367 e 1371 c.c. e/o del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, oltre ad “omesso esame di discussi fatti decisivi per il giudizio”.

Si censura la sentenza impugnata per aver “letto” la clausola sul cambio fuori dal contestoisia della indicizzazione dei canoni anche al tasso di interesse (sebbene al cambio Chf/Euro, non meno che al tasso di interesse Libor/Chef, facesse riferimento il punto E del contratto di leasing), sia delle complessive intese intervenute tra le parti, ovvero l’intero contratto e il successivo verbale di consegna dell’immobile. Orbene, sulla base di tale interpretazione sistematica – che la ricorrente assume imposta dai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c., relativi alla necessità di avere riguardo alla comune intenzione delle parti e all’interrelazione tra le singole clausole contrattuali – non vi sarebbe dubbio sul fatto che le parti, attraverso la previsione di una doppia clausola di indicizzazione, abbiano inteso “strutturare l’operazione in valuta estera e non già nazionale”. Conclusione che sarebbe ulteriormente confermata dalla circostanza che il contratto stipulato, come il successivo verbale di consegna, fanno espresso riferimento alla correlazione tra fase di provvista e quella di impiego delle risorse finanziarie, visto che l’utilizzatore ha, non solo preso atto del fatto, ma ha anche espresso consenso su di esso, che la provvista necessaria al pagamento dell’intero prezzo del bene avvenisse in franchi svizzeri. Diversamente opinando, quindi, siffatto consenso si ridurrebbe ad un mero “flatus vocis”, con violazione dell’art. 1367 c.c..

Da quanto precede, dunque, dovrebbe trarsi la conclusione che entrambe le clausole di indicizzazione, lungi dal poter essere ricostruite come autonome ed aventi causa propria, si pongono come “normali clausole di un rapporto finanziario acceso in divisa estera (e quindi collegato al cambio tra le due valute) a tassi variabili”, concluso da un residente in zona Euro, che “pagava in valuta nazionale”. Del resto, la stessa Banca d’Italia, osserva la ricorrente, ha riconosciuto l’equivalenza tra le operazioni consistenti nell’indebitarsi direttamente nella valuta estera (salvo convertirla in nazionale al momento sia dell’erogazione del finanziamento che del suo rimborso) che nel denominare in valuta nazionale il finanziamento richiesto ed indicizzare l’operazione al cambio tra le valute, regolando “a latere” le differenze.

Inoltre, la diversa lettura data dalla Corte territoriale colliderebbe con gli artt. 1366 e 1371 c.c. (buona fede ed equo contemperamento degli interessi delle parti), visto che il cliente, dopo aver beneficiato del tasso minore di interesse proprio del franco svizzero, lascerebbe alla concedente gli effetti negativi del cambio variato, che la stessa si trova a dover rispettare in fase di restituzione della provvista.

Errata, poi, risulterebbe la decisione impugnata nella parte in cui qualifica la clausola sul cambio come strumento finanziario derivato.

Posta, infatti, la distinzione fra differenzialità “finanziaria” e “derivativa”, soltanto la prima, e non pure la seconda, ricorrerebbe nel caso di specie, visto che gli elementi essenziali di quest’ultima sono costituiti dalla cosiddetta differenzialità pura e dalla astrazione. Ove il primo di tali requisiti indica la finalità dello strumento, essendo un “derivato” ciò che mira non ad acquistare un bene sottostante a scadenza futura (quindi con possibili variazioni di valore nel tempo), bensì solo il differenziale registrato sulle variazioni di valore del bene stesso. Quanto, invece, al secondo requisito (astrazione), esso indica l’autonomia del derivato dal cosiddetto contratto “ospite”, ciò che consente la possibilità scorporare il prodotto e negoziarlo come distinto bene autonomo sui mercati finanziari.

Tale, tuttavia, non sarebbe il caso della clausola di indicizzazione valutaria, come confermerebbero due dati. In particolare, il fatto che i pretesi “scommettitori” sono tra loro legati da un rapporto reale (ovvero, lo scambio canoni/uso del bene, proprio del contratto di leasing), e non da un capitale solo fittizio, nonchè la circostanza che, in caso di cessazione del rapporto di leasing (ovvero di riscatto in via anticipata), si interrompono automaticamente anche i connessi flussi monetari differenziali.

3.2. Con il secondo motivo è denunciata – sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 – violazione e falsa applicazione dell’art. 1322 c.c., oltre ad “omesso esame di discussi fatti decisivi per il giudizio”.

Si censura la sentenza impugnata laddove, riqualificata la clausola in esame come autonoma pattuizione contrattuale, ne ha escluso la meritevolezza ai sensi dell’art. 1322 c.c., comma 2.

Al riguardo, la ricorrente osserva come una conclusione siffatta si giustifichi, sulla scorta della giurisprudenza di questa Corte, soltanto in presenza di tre condizioni, ovvero quando il patto contrattuale attribuisce ad una delle parti un vantaggio ingiusto e sproporzionato senza contropartita per l’altra, ovvero ponga uno dei contraenti in una posizione di indeterminata soggezione rispetto all’altro, o, infine, costringa una delle parti a tenere condotte contrastanti con i superiori doveri di solidarietà costituzionalmente imposti.

Orbene, sicuramente esclusa – giacchè autoevidente l’ultima di tali evenienze, nel caso di specie non ricorrerebbero neppure le altre due. E ciò perchè la clausola di indicizzazione del cambio vede un impegno reciproco delle parti a regolare le differenze future, senza che nessuna di esse sia in una condizione di soggezione rispetto all’altra, ovvero maggiormente esposta all’andamento del cambio o del tasso di interesse, le cui variazioni avvengono secondo indici di riferimento e valori di pertinenza predeterminati, dipendenti da variabili esterne, idonee ad accordare, indifferentemente, vantaggi o svantaggi a ciascuna di esse, ponendole entrambe nella condizione di “vincere” (o “perdere”) la “scommessa”.

4. E’ rimasto solo intimato il D.L..

5. Originariamente fissata adunanza camerale per la trattazione del presente ricorso, all’esito della stessa, questa Corte, con ordinanza interlocutoria del 25 febbraio 2020, n. 5023, ne ha rinviato la discussione in pubblica udienza, per il rilievo nomofilattico delle questioni da esso poste.

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va accolto.

6.1. I motivi – da scrutinare congiuntamente data la loro connessione – sono, infatti, fondati, per quanto di ragione.

6.1.1. Fulcro delle censure formulate dalla ricorrente è la contestazione della qualificazione della clausola di indicizzazione sul cambio, proposta dalla Corte territoriale, come strumento finanziario derivato, assimilato alla fattispecie del “domestic currency swap”.

Difatti, è proprio attraverso tale assimilazione che la sentenza impugnata è giunta al risultato di riconoscere natura autonoma a tale pattuizione, per poi escludere che la stessa sia assistita da “meritevolezza”, ai fini ed agli effetti di cui all’art. 1322 c.c., comma 2.

Di conseguenza, va disatteso il rilievo della Procura Generale presso questa Corte, secondo cui la pronuncia in esame sarebbe assistita da una pluralità di autonome “rationes decidendi”, non tutte attinte dal ricorso in esame (per tale motivo, a suo dire, destinato al rigetto). In particolare, sarebbe rimasta indenne dalla contestazione della società Aquileia l’affermazione della Corte giuliana circa l’opacità del sistema di calcolo del rispettivo dare/avere tra le parti.

Ritiene questa Corte, per contro, che nell’impianto motivazionale che sorregge la sentenza impugnata, la valutazione sulla carenza di meritevolezza di tutela giuridica della clausola di indicizzazione sul cambio (basata dal giudice di appello, oltre che sulla supposta opacità del sistema di calcolo dei rapporti di dare/avere, pure sul preteso “maggior vantaggio” che la società odierna ricorrente avrebbe tratto dalla variazione del tasso di cambio a lei favorevole, rispetto all’opposta ipotesi di variazione destinata, invece, a giovare al cliente, nonchè sulla ritenuta unilaterale determinazione, da parte della società concedente, nell’assunzione del cambio di riferimento) non integri un’autonoma “ratio decidendi”, non potendo essere disgiunta dall’inquadramento della stessa quale strumento finanziario derivato, da assimilare al “domestic currency swap”. Difatti, è solo grazie a tale assimilazione che la sentenza impugnata ha potuto affermare, con riferimento alla clausola suddetta, la sua “autonomia rispetto al corpo pattizio nel quale è inserita”, oltre alla sua atipicità, “con il corollario dell’indagine d’ufficio ex art. 1322 c.c., rivolta sulla meritevolezza di tutela giuridica per quella pattuizione, singolarmente considerata” e “non sull’intero contratto”.

6.1.2. Tanto preliminarmente chiarito, e dunque ribadita la centralità della questione relativa alla qualificazione della clausola contrattuale in esame quale “autonoma pattuizione”, fondata sul suo inquadramento quale strumento finanziario derivato, si reputa di dover muovere, nella sua disamina, da quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nel recente arresto relativo alla possibilità, per le pubbliche amministrazioni, di concludere contratti cd. “derivati”.

In particolare, esse hanno osservato che la “materia dei derivati, che interessa varie branche del diritto, è oggetto dell’attenzione di dottrina e giurisprudenza da anni, risultando controversa anche l’esistenza di una definizione unificante del fenomeno”, soggiungendo che “la mancanza nel nostro ordinamento di una definizione generale di “contratto derivato” si spiega con la circostanza che i derivati sono stati creati dalla prassi finanziaria e, solo in seguito, sono stati in qualche misura recepiti dalla regolazione del sistema giuridico” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 12 maggio 2020, n. 87770).

L’assenza di un “tipo legale” non ha, tuttavia, impedito come sì è osservato in dottrina – che detti contratti acquisissero, comunque, “una tipicità sociale per effetto della loro ampia diffusione nella pratica e per l’articolata elaborazione sul piano interpretativo e applicativo di cui sono stati oggetto”, sottolineando, trattarsi, comunque di “una fenomenologia variegata, che mal si presta ad un inquadramento rigido; e ciò essenzialmente per la diversità di funzioni che giustificano il ricorso ai derivati, ma anche per le modalità di negoziazione (mediante collocamento in mercati regolamentati o sulla base di trattative individualizzate, over-the-counter), che danno una dimensione parzialmente diversa alle problematiche connesse, restando fermo che si tratta, comunque, di operazioni concepibili in uno scenario di mercato e di mercato finanziario”.

E’ quanto, del resto, hanno ritenuto pure le Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui la “notevole varietà delle fattispecie che concorrono a formare la categoria dei derivati” rende “complessa l’individuazione della ricercata nozione unitaria, dovendosi tenere conto che il fenomeno è forse comprensibile in maniera globale solo in un’ottica economica”. Non è, dunque, un caso – rammenta sempre il Supremo Collegio – il contenuto della “previsione dell’art. 1, comma 2-bis, T.u.f., che contiene una delega al Ministro dell’Economia e Finanze per identificare nuovi potenziali contratti derivati”, ovvero la scelta del legislatore italiano di seguire quello Eurounitario, “optando per una elencazione di molteplici figure e lasciando all’interprete il compito della reductio ad unum, laddove possibile” (Cass. Sez. Un., sent. n. 8770 del 2020, cit.).

L’incertezza nell’individuazione di una nozione unitaria di “derivati” è condivisa anche dalla Corte costituzionale, secondo cui, “a soli finì descrittivi e con un ineliminabile margine di approssimazione dipendente dalla complessità del fenomeno, può ritenersi che le negoziazioni aventi ad oggetto gli strumenti finanziari derivati si caratterizzano, sul piano strutturale, per essere connesse ad altre attività finanziarie (quali, ad esempio, titoli, merci, tassi, indici, altri derivati) dal cui “prezzo” dipende il valore dell’operazione compiuta”, sicchè, ferme ovviamente “restando le diversità legate al tipo di operazione prescelto, tali negoziazioni sono volte a creare un differenziale tra il valore dell’entità negoziata al momento della stipulazione del relativo contratto e quello che sarà acquisito ad una determinata scadenza previamente individuata”. D’altra parte, “sul piano funzionale”, le negoziazioni in esame, “oltre ad avere una finalità di copertura, possono espletare anche una funzione speculativa, incidente sulla stessa struttura causale del contratto, con conseguenti rischi di insolvenza legati a diversi fattori connessi soprattutto all’andamento complessivo del mercato, con l’aggravamento che l’inadempimento di uno o più operatori può incidere sull’inadempimento degli altri”, sicchè è “frequente, pertanto, la possibilità che il contraente, sia esso privato o pubblico, subisca una perdita superiore al capitale investito” (così, Corte Cost., sent. 10 febbraio 2010, n. 52).

6.1.3. Da quanto precede, e dunque dalla difficoltà (se non impossibilità) di una ricostruzione unitaria del fenomeno “derivati”, emerge la necessità di analizzare le caratteristiche specifiche del “domestic currency swap”, al quale la sentenza impugnata ha assimilato la clausola in esame.

Con riguardo a tale contratto, viene in rilievo, innanzitutto, quanto affermato da questa Corte nella sentenza specificamente richiamata nella decisione oggi impugnata (Cass. Sez. 3, sent. 19 maggio 2005, n. 10598, Rv. 580900-01).

La pronuncia di questa Corte muoveva dalla constatazione che, già nella giurisprudenza straniera (House of Lords, Gran Bretagna, 24 gennaio 1991, Hazell C. Hammersmith), lo swap è stato definito come “il contratto attraverso il quale due parti convengono di scambiarsi, in una o più date prefissate, due somme di denaro calcolate applicando due diversi parametri (generalmente tassi di interesse e/o di cambio) ad un identico ammontare di riferimento”, sicchè “alla scadenza o alle scadenze concordate, viene effettuato un unico pagamento, su base netta, in forza di una compensazione volontaria”, con la conseguenza che il “contratto di swap comporta necessariamente un profitto o una perdita a seconda della fluttuazione dei tassi di interesse e/o di cambio ed è sempre sorretto da un intento speculativo”. Orbene, allorchè “lo scambio tra le due prestazioni pecuniarie, esigibili a determinate scadenze periodiche” abbia “ad oggetto esposizioni debitorie denominate in valuta diversa da quella di residenza del debitore, con chiare conseguenze dal punto di vista delle oscillazioni sui cambi”, il contratto “prende il nome di currency swap” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 10598 del 2005, cit.).

Ciò premesso, sempre secondo tale sentenza, la L. 2 gennaio 1991, n. 1, art. 1 – “accedendo ad una nozione aperta di “strumento finanziario”, comprensiva anche degli scambi su valute, rispetto alla definizione tradizionale di “valore mobiliare” che lo identificava con i titoli di massa, agganciati al carattere della negoziabilità degli stessi” – risulta aver “introdotto una definizione di valore mobiliare che non tiene più conto della sua struttura o natura cartolare, bensì della finalità perseguita dalle parti, rilevando il carattere finanziario dello strumento adoperato con caratteristiche tali da poter interferire sull’allocazione degli strumenti e del risparmio”. Di conseguenza, nel “concetto di valore mobiliare ai fini dell’assoggettamento alla predetta legge rientra, quindi, anche il “domestic currency swap”, inteso come contratto aleatorio, con il quale due parti si obbligano, l’una all’altra, a corrispondere alla scadenza di un termine, convenzionalmente stabilito, una somma di denaro (in valuta nazionale) quale differenza tra il valore (espresso in valuta nazionale) di una somma di valuta estera al tempo della conclusione del contratto e il valore della medesima valuta estera al momento della scadenza del termine stabilito”, di talchè, se queste “sono le ragioni per cui il contratto di swap deve essere ritenuto ricadere nella previsione delle attività d’intermediazione mobiliare, riservate alle s.i.m. ed alle banche abilitate, deve escludersi che la circostanza che nel contratto di “domestic currency swap” non vi sia scambio di due flussi finanziari, possa portare a conclusioni diverse” (così, conclusivamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 10598 del 2005, cit.).

6.1.4. Ciò detto, è da escludere che la clausola di indicizzazione per cui è causa possa effettivamente assimilarsi al “domestic currency swap”, come del resto già rilevato da una parte della dottrina e della giurisprudenza di merito.

6.1.4.1. Infatti, tra gli studiosi della materia dei derivati, è stato osservato – con argomentazioni che questa Corte ritiene di fare proprie – che se, dal punto di vista strettamente finanziario, l’accostamento della clausola di indicizzazione al cambio ad uno strumento finanziario derivato (“domestic currency swap”) appare corretto, perplessità, però, sorgono in merito alla qualificazione giuridica in tal senso.

E ciò in quanto, nell’ipotesi in cui le parti vogliano effettivamente porre in essere un leasing o un finanziamento per sostenere un’attività del mutuatario denominata in franchi svizzeri (o altra valuta straniera), ove esse non decidano direttamente l’erogazione del finanziamento in tale valuta, bensì in Euro con indicizzazione al cambio Euro/CHF, la clausola in questione si pone quale modalità di attuazione dell’esplicita volontà contrattuale di erogare un finanziamento in Euro indicizzato al franco svizzero e non come un derivato di copertura, presentandosi come una modalità tecnica del contratto di finanziamento che rimane priva di autonomia causale, non rappresentando un contratto autonomo rispetto al finanziamento, bensì solo un meccanismo di adeguamento della prestazione pecuniaria.

Del resto, del cd. “derivato” manca la caratteristica peculiare, vale a dire la possibilità della sua autonoma circolazione.

Non corretta è, dunque, l’assimilazione che la sentenza impugnata stabilisce tra la clausola in esame e lo strumento finanziario del “domestic currency swap”, fermo, peraltro, restando che anche la configurazione di quest’ultimo come “scommessa” – fatta propria dalla Corte territoriale – risulta opinabile, proprio alla luce del già citato arresto delle Sezioni Unite in tema di derivati finanziari, “apparendo palese” – a dire del Supremo collegio, soprattutto in ragione degli “ingenti interessi finanziari” sottostanti a tale tipo di operazioni – come “lo swap abbia ben poco in comune con lo schema della scommessa di cui agli artt. da 1933 a 1935 c.c., della natura contrattuale della quale vi è pure stata discussione in dottrina” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 8770 del 2020, cit.).

6.1.4.2. D’altra parte, di analogo tenore alla tesi dottrinaria appena illustrata è la posizione espressa da una parte della giurisprudenza di merito, secondo cui, nel caso in esame, “si è in presenza semplicemente di un contratto di leasing cd. “indicizzato””, in quanto “ciascuna rata del contratto di leasing è legata alle variazioni di un parametro finanziario di riferimento scelto dalle parti ed inserito in una specifica clausola contrattuale, detta appunto di indicizzazione”, sicchè tale clausola “non ha alcun effetto nè sulla natura, nè sulla causa del leasing, che rimangono, dunque, inalterate posto che con essa le parti hanno inteso unicamente prevedere un meccanismo per ancorare ad un parametro oggettivamente certo, il corrispettivo dovuto”. La clausola, pertanto, “non dà vita ad un’operazione dotata di causa autonoma, ovvero sganciata dal contenuto del contratto di leasing finanziario, in quanto, con la citata disposizione, le parti adeguano il valore del corrispettivo per il godimento dei beni strumentali ai valori di mercato, senza costituire una diversa (e comunque non provata) operazione negoziale avente natura di investimento finanziario” (Trib. Ancona, sent. 20 giugno 2019, n. 1141).

Analogamente, si è affermato che la citata clausola “non ha causa autonoma, bensì meramente accessoria rispetto al fine perseguito dalle parti, riguardando la sola determinazione del tasso di interesse dell’operazione di finanziamento, indicizzato ad un parametro certo, ma variabile” (Trib. Milano, sent. 11 maggio 2017, n. 5296).

Del resto, se “è indubbio che di per sè la locazione finanziaria non rientra tra i servizi e le attività di investimento nè fra gli strumenti finanziari di cui all’art. 1, commi 2 e 5, del “TUF”” (come si desume anche da Cass. Sez. 3, ord. 12 giugno 2018, n. 15200, non massimata sul punto, secondo cui al leasing “sono coessenziali finalità di finanziamento”, ma sempre “specificatamente funzionali, però, all’acquisto ovvero all’utilizzazione di quello specifico bene coinvolto” nell’operazione), “neppure le clausole di indicizzazione del corrispettivo del leasing mutano la causa tipica del contratto o il suo oggetto, atteso che tali clausole fungono solamente da meccanismo per adeguare il valore di un’obbligazione pecuniaria, alla scadenza, all’andamento di parametri reali, monetari, finanziari o valutari, al fine di preservare l’equilibrio fra contrapposte prestazioni contrattuali” (Trib. Ancona, sent. n. 1141 del 2019, cit.).

Rilievi, questi, condivisi anche dall’Arbitro Bancario Finanziario, secondo cui “la clausola di indicizzazione” si presenta “come perfettamente valida, perseguendo un interesse senz’altro meritevole di tutela”, dovendo escludersi che essa “possa essere tacciata di costituire un pattuizione foriera di un grave squilibrio contrattuale, e meno che mai come pattuizione che accolla solo su una parte il rischio delle variazioni del costo del denaro”, le quali invece sono sopportate da entrambe le parti, “seppure con diversa intensità di accenti” (cfr. ABF, Collegio di Napoli, dec. 1 febbraio 2012, n. 305).

6.1.4.3. Su tali basi, dunque, deve pervenirsi all’accoglimento del ricorso.

Esito, peraltro, al quale non resta estranea neppure l’affermazione compiuta dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con riferimento ad operazioni effettuate da un ente creditizio – e consistenti “nella conversione in valuta nazionale di importi denominati in valuta estera, ai fini del calcolo delle somme concesse in prestito e dei relativi rimborsi, in base alle clausole di un contratto di mutuo relative ai tassi di cambio” che presentano profili di analogia con quella presente, al netto della diversa natura dei due contratti nei quali le clausole in questione s’inseriscono. Difatti, secondo la Corte di Lussemburgo, siffatte operazioni “non hanno altra funzione” che quella di porsi “da modalità di esecuzione di obbligazioni essenziali di pagamento del contratto di mutuo, ossia la messa a disposizione del capitale da parte del mutuante e il rimborso di tale capitale maggiorato degli interessi da parte del mutuatario”, sicchè esse “non hanno il fine di realizzare un investimento, in quanto il consumatore mira solamente ad ottenere fondi in previsione dell’acquisto di un bene di consumo o della prestazione di un servizio e non già, ad esempio, a gestire un rischio di cambio o a speculare sul tasso di cambio di una valuta estera”. Di qui, dunque, la conclusione che le clausole di un simile contratto “relative alla conversione di una valuta estera costituiscono pertanto non già uno strumento finanziario distinto dall’operazione che costituisce l’oggetto del contratto, ma unicamente una modalità indissociabile di esecuzione dello stesso” (cfr. Corte Giust., sent. 3 dicembre 2015, in C-312/14).

7. Pertanto, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte di Appello di Trieste, in diversa composizione, perchè decida, nel merito, attenendosi al seguente principio di diritto:

“la clausola di indicizzazione al cambio di valuta straniera, inserita in un contratto di leasing “in costruendo”, non integra uno strumento finanziario derivato, essendo assimilabile solo finanziariamente, ma non pure giuridicamente, al “domestic currency swap”, costituendo solo un meccanismo di adeguamento della prestazione pecuniaria”.

PQM

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassando la sentenza impugnata e rinviando alla Corte di Appello di Trieste, in diversa composizione, per la decisione nel merito.

Così deciso in Roma, all’esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 27 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2021

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