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Riconciliazione fra i coniugi, non basta rifrequentarsi

Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.27963 del 23/09/2022

Dopo la separazione, in qualsiasi momento, i coniugi possono riconciliarsi.

Con la riconciliazione cessano gli effetti della separazione.

Ma come si accerta l'avvenuta riconciliazione se manca un'espressa dichiarazione dei coniugi?

Risponde sul punto la Cassazione con l'ordinanza n. 27963 del 23 settembre 2022.

La Suprema Corte ci ricorda che per aversi la riconciliazione:

  • non basta la sola sussistenza di ripetute occasioni di incontro e di frequentazione;
  • occorre una reale e concreta ripresa delle relazioni materiali e spirituali;
  • la ripresa di relazioni reciproche, deve comportare il superamento di quelle condizioni che avevano reso intollerabile la prosecuzione della convivenza;
  • in concreto i coniugi devono tenere un comportamento non equivoco incompatibile con lo stato di separazione. 

Nel caso di specie, la Corte d'Appello aveva accertato che i coniugi avevano continuato a frequentarsi, con un "prendersi e lasciarsi" tipico dei fidanzatini, ma che tale comportamento non poteva integrare alcuna riconciliazione.

Riconciliazione, mancanza di dichiarazione espressa, ripresa della coabitazione, onere della prova

La parte che ha interesse a far accertare l'avvenuta riconciliazione dei coniugi, dopo la separazione, ha l'onere di fornire una prova piena e incontrovertibile, che il giudice di merito è chiamato a verificare, tenendo presente che, in mancanza di una dichiarazione espressa di riconciliazione, gli effetti della separazione cessano soltanto col fatto della coabitazione, la quale non può ritenersi ripristinata per la sola sussistenza di ripetute occasioni di incontro e di frequentazione, ove le stesse non depongano per una reale e concreta ripresa delle relazioni materiali e spirituali e che il relativo apprezzamento non può essere oggetto di sindacato di legittimità, in presenza di una motivazione adeguata ed esaustiva.

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Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n. 27963 del 23/09/2022

RILEVATO IN FATTO

CHE:

1. Con sentenza del 25 marzo 2021, la Corte di appello di Genova ha rigettato l'appello proposto da P.C. e l'appello incidentale proposto da B.M. avverso la sentenza del Tribunale di Savona n. 216/2020, emessa in data 26 marzo 2020, che aveva pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio celebrato in data ***** e aveva posto a carico del B. il pagamento della somma di Euro 600,00 mensili, quale contributo per il mantenimento della P..

2. La Corte di appello, per quel che rileva in questa sede, ha affermato che la P. non aveva fornito la prova della ricostituzione del consorzio familiare attraverso la ricomposizione della comunione coniugale di vita, ovvero la ripresa di relazioni reciproche, oggettivamente rilevanti, tali da comportare il superamento delle condizioni che avevano reso intollerabile la prosecuzione della convivenza e che si concretizzavano in un comportamento non equivoco incompatibile con lo stato di separazione e che dalla ricostruzione dei rapporti tra i coniugi dopo la separazione consensuale avvenuta nel giugno 2009, risultava che tale condizione di riconciliazione non fosse stata raggiunta in nessun momento; inoltre, tenuto conto delle diverse situazioni personali e reddituali delle parti, appariva più che ragionevole un assegno di divorzio pari ad Euro 600,00 al mese.

3. P.C. ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a due motivi e memoria.

4. B.M. non ha svolto difese.

5. Il ricorso è stato assegnato all'adunanza in camera di consiglio non partecipata del giorno 10 maggio 2022 ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c..

6. P.C. ha depositato memoria.

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

1. Il primo mezzo denuncia la violazione dell'art. 157 c.c., e degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, essendo la pronuncia il risultato di una non corretta valutazione degli atti e dei documenti di causa e, comunque, della violazione dell'art. 157 c.c., avendo la P. allegato, sin dalla memoria di costituzione dell'8 settembre 2018, che la coabitazione e lo stesso ripristino del consortium vitae tra i coniugi era ripreso subito dopo la separazione, per iniziativa del marito e per un periodo continuativo e ininterrotto di circa dieci mesi, terminato nel mese di luglio 2010, e che le "nuove liti" e il "prendersi e lasciarsi" a cui aveva fatto riferimento la Corte d'appello si riferivano ad un periodo successivo a quello di dieci mesi in cui era ripresa la coabitazione e la comunione materiale e spirituale dei coniugi (luglio 2009-settembre 2010); la P., inoltre, aveva offerto come elementi di valutazione e di prova dell'avvenuto fattivo ripristino della comunione materiale e morale del matrimonio anche l'iscrizione presso il Centro per l'Impiego di Viareggio presentata dalla P. il 30 maggio 2010 da cui emergeva che la stessa era domiciliata presso la stessa abitazione del marito e la volontà di cercare un lavoro nella città dove si era trasferita per riprendere la vita coniugale e lo svolgimento di attività lavorativa della P. presso un ristorante pizzeria di Camaiore dai quali si desumeva l'effettiva volontà della P. di riprendere la sua vita insieme al marito; la Corte aveva ritenuto di non valorizzare le specifiche allegazioni sulla riconciliazione materiale e spirituale tra i coniugi durante il periodo settembre 2009 - luglio 2010, facendo riferimento dal fatto che nell'anno 2014 la P. era rientrata a Savona, senza considerare che nell'anno 2014 la ripresa del consortium vitae tra i coniugi era già avvenuta durante tutto il periodo dal settembre 2009 al luglio 2010; la P. aveva pure dedotto capitoli di prova per testimoni diretti a dimostrare che i coniugi, quantomeno nel periodo settembre 2009 - luglio 2020, avevano ripristinato la comunione materiale e spirituale, ma la Corte di appello non aveva ritenuto di assumere la prova in violazione dell'art. 115 c.p.c..

1.1 Il motivo è inammissibile, atteso che, sebbene impropriamente rappresentato sotto il profilo della violazione di norme di legge e di vizio di motivazione, si traduce in realtà in una censura in punto di fatto, diretta ad un riesame del merito della causa, non consentito nel giudizio di legittimità (Cass., Sez. U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., 4 marzo 2021, n. 5987).

1.2 La Corte di appello ha, infatti, richiamato gli elementi addotti dalla P. (lungo periodo di convivenza in Versilia dove il B. si era trasferito a vivere, dal settembre 2009 al luglio 2010 e l'avvenuto impiego presso un locale per alcune settimane durante questo periodo) e le dichiarazioni rese dalla stessa all'udienza presidenziale (secondo le quali aveva vissuto con il B. nel medesimo periodo di gennaio - luglio 2020 in cui aveva asserito di essersi trasferita a *****), unitamente alle trascrizioni di sms e alle registrazioni di conversazioni intervenute tra le parti fino alla data dell'instaurazione del giudizio di divorzio, e ha evidenziato che dalla stessa ricostruzione della P. e dal tenore dei messaggi prodotti risultava provato, né era stato oggetto di contestazione, che i coniugi avevano continuato a frequentarsi con una prendersi e lasciarsi che non poteva integrare alcuna riconciliazione; che dal certificato medico in ***** del 2014 risultava la sua permanenza a Savona dove aveva mantenuto la propria residenza e che dai messaggi intercorsi tra le parti risultava evidente la mancanza di volontà di ricostruzione del rapporto coniugale da parte della P., che espressamente faceva riferimenti all'infedeltà del marito e al desiderio di non essere più contattata, mentre dal tenore delle conversazione in atti emergeva l'accesa conflittualità tra le parti anche nei brevi periodi di incontro.

I giudici di secondo grado hanno, dunque, concluso che la P. non aveva fornito la prova della ricostituzione del consorzio familiare attraverso la ricomposizione della comunione coniugale di vita, ovvero la ripresa di relazioni reciproche, oggettivamente rilevanti, tali da comportare il superamento delle condizioni che avevano reso intollerabile la prosecuzione della convivenza.

1.3 In ciò facendo corretta applicazione dei principi dettati da questa Corte secondo cui la parte che ha interesse a far accertare l'avvenuta riconciliazione dei coniugi, dopo la separazione, ha l'onere di fornire una prova piena e incontrovertibile, che il giudice di merito è chiamato a verificare, tenendo presente che, in mancanza di una dichiarazione espressa di riconciliazione, gli effetti della separazione cessano soltanto col fatto della coabitazione, la quale non può ritenersi ripristinata per la sola sussistenza di ripetute occasioni di incontro e di frequentazione, ove le stesse non depongano per una reale e concreta ripresa delle relazioni materiali e spirituali e che il relativo apprezzamento non può essere oggetto di sindacato di legittimità, in presenza di una motivazione adeguata ed esaustiva (Cass., 26 luglio 2019, n. 20323, richiamata anche dalla Corte di appello; Cass., 23 gennaio 2018, n. 1630).

A fronte di questa giurisprudenza rigorosa sussiste, quindi, l'onere in capo alla parte che ha interesse a far accertare l'avvenuta riconciliazione di fornire una prova piena e incontrovertibile e ovviamente spetta al giudice di merito valutare se le prove addotte siano idonee a raggiungere tale scopo.

1.4 Nel caso in esame, la Corte territoriale ha vagliato la rilevanza delle prove alla luce dei principi di questa Corte sopra precisati, espressamente richiamati, ed ha ritenuto, con una valutazione che, in presenza di una motivazione adeguata ed esaustiva non può essere oggetto di sindacato in questa sede, che le prove addotte dalla P. non dimostravano in modo certo ed incontrovertibile l'avvenuta riconciliazione, precisando, peraltro, che la riconciliazione non consisteva nel mero ripristino della situazione "quo ante", ma nella ricostituzione del consorzio familiare attraverso la ricomposizione della comunione coniugale di vita, vale a dire la ripresa di relazioni reciproche, oggettivamente rilevanti, tali da comportare il superamento di quelle condizioni che avevano reso intollerabile la prosecuzione della convivenza e che si concretizzavano in un comportamento non equivoco incompatibile con lo stato di separazione (Cass., 17 settembre 2014, n. 19535, pure richiamata dalla Corte territoriale; Cass., 24 dicembre 2013, n. 28655; Cass., 6 ottobre 2005, n. 19497).

2. Il secondo mezzo denuncia la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, e degli art. 115 e 116 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, poiché la Corte di appello, pur avendo richiamato i criteri di cui alla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 18287/2018, non si era attenuta agli stessi, omettendo di applicare il criterio che imponeva di verificare se il soggetto richiedente avesse sacrificato le proprie aspettative professionali per contribuire alla cura della famiglia, anche se aveva considerato che la P. aveva lasciato il lavoro per dedicarsi alla famiglia; i giudici di secondo grado, inoltre, non avevano tenuto conto delle condizioni della signora P., anche se avevano dato atto che il B. aveva documentato redditi per Euro 1.500,00, ma non aveva documentato gli incassi della tabaccheria in estate, periodo "di picco" considerata la località turistica in cui operava l'esercizio commerciale e che l'applicazione di tale criterio conduceva al riconoscimento di un contributo in misura pari quantomeno alla metà del reddito del marito.

2.1. Il motivo è infondato.

2.2 Ed invero, la Corte di appello, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, ha tenuto in considerazione la circostanza che la stessa avesse lasciato il lavoro nell'anno 2006 per dedicarsi alla famiglia, avendo espressamente affermato, a pagina 6 della sentenza impugnata, che dalle trascrizioni delle conversazioni prodotte risultava che l'avere lasciato il lavoro era anche motivato dal tentativo di avere figli da parte della coppia tramite la fecondazione assistita.

2.3 I giudici di secondo grado, poi, hanno messo in evidenza che il matrimonio era durato 7 anni, l'età della P. e la circostanza che la stessa risultasse affetta da grave malattia, nonché la situazione economica del B., rilevando un peggioramento del reddito a causa della crisi economica derivante dalla pandemia ed hanno ritenuto che, in ragione delle diverse situazioni personali e reddituali delle parti, appariva ragionevole un assegno di divorzio di Euro 600,00 mensili.

La Corte di appello ha, dunque, condotto un giudizio funzionale alla natura assistenziale e perequativo-compensativa dell'assegno divorzile, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti e in considerazione del contributo fornito dalla richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, tenuto conto della durata del matrimonio ed dell'età dell'avente diritto, con corretta applicazione dei principi statuiti dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che, operando una riconsiderazione dell'intera materia, hanno affermato che all'assegno divorzile in favore dell'ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell'autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate (Cass., Sez. U., 11 luglio 2018, n. 18287).

3. Per quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.

Nessuna statuizione va assunta sulle spese, poiché la parte intimata non ha svolto difese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello aovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2022.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2022.

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