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Più parti e stessa posizione processuale, qual è il compenso dell'avvocato?

Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.33404 del 11/11/2022

Quanto spetta di compenso all'avvocato che assiste più soggetti aventi la medesima posizione processuale?

Al quesito risponde la Terza Sezione civile della Cassazione con l'ordinanza n. 33404 dell'11 novembre 2022.

La Suprema Corte  ha ribadito che in caso di difesa di più parti aventi la medesima posizione processuale e rappresentate dallo stesso avvocato è dovuto un compenso unico legale.

Ciò in base alla ratio della disposizione di cui al D.M. n. 55 del 2014 art. 8, comma 1, per cui sono a carico al soccombente solo delle spese nella misura della più concentrata attività difensiva quanto a numero di avvocati.

Nel caso di specie, la Corte ha considerato quale unica parte processuale i tre eredi difesi dall'avvocato, che avevano la medesima posizione processuale.

Spese di lite, avvocato difensore. di più parti, medesima posizione processuale, dovuto un unico compenso unico legale

In caso di difesa di più parti aventi la medesima posizione processuale e rappresentate dallo stesso avvocato è dovuto un compenso unico legale, in quanto la ratio della disposizione di cui al D.M. n. 55 del 2014 art. 8, comma 1, è quella di fare carico al soccombente solo delle spese nella misura della più concentrata attività difensiva quanto a numero di avvocati.

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Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.33404 del 11/11/2022

Rilevato che:

G.M. e G.A. convenivano, dinanzi al Tribunale di Sulmona, S.F. e S.M., per sentirli condannare, ex art. 2043 c.c., al risarcimento dei danni, quantificati complessivamente in Euro 130.000,00, per abuso del processo, assumendo che nei loro confronti era stata perpetrata una persecuzione giudiziaria attraverso plurime denunce-querele che avevano dato vita ad altrettanti procedimenti (RGN 348/2005, 241/2007, 290/2007, 424/2007, 25/2008, 472/2008, 1840/2008) che erano stati tutti archiviati, risultando infondate le sottese accuse di ingiuria, di diffamazione e di calunnia;

i convenuti chiedevano il rigetto della domanda;

S.M. spiegava anche domanda riconvenzionale per chiedere il risarcimento dei danni, quantificati in Euro 260.000,00;

il Tribunale di Sulmona, con sentenza n. 448/2014, rigettava sia la domanda attorea sia quella riconvenzionale;

i due G., lamentando che le denunce querele erano state considerate singolarmente anziché attuative di un unico disegno finalizzato ad esercitare per anni una costante pressione nei loro confronti, per costringerli a raggiungere un accordo transattivo, e che non si era tenuto conto dell'abuso dello strumento del diritto di querela da parte dei due avvocati S., chiedevano che la Corte d'Appello di L'aquila riformasse la sentenza di prime cure e condannasse gli appellati al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti;

gli appellati si costituivano in giudizio, chiedendo il rigetto dell'appello o, nel caso di accoglimento dell'appello, la compensazione giudiziale delle reciproche pretese;

la Corte d'Appello, con la sentenza n. 1453/2019, ha ritenuto, data la estrema conflittualità tra le parti, trovante causa nella condotta degli appellanti che avevano presentato infruttuosamente nei confronti degli avvocati S. numerosissimi esposti al Consiglio dell'Ordine degli avvocati e al Consiglio Nazionale forense e che altrettanto infruttuosamente avevano pervicacemente sostenuto di avere pagato le prestazioni dei due professionisti, che il ricorso alle denunce querele da parte degli appellati avesse carattere difensivo e che non vi fossero gli estremi per ritenere temerario l'esercizio del diritto di querela; per l'effetto, quindi, ha rigettato l'appello;

G.M. e V.R., nella qualità di eredi di G.A. e il primo anche in proprio, ricorrono per la cassazione di detta sentenza, formulando cinque motivi;

resiste con controricorso S.M., in proprio e quale erede di S.F.;

nessuna attività difensiva è svolta in questa sede da T.D., S.M.A., S.M., rimasti intimati;

la trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell'art. 380 bis 1 c.p.c.

il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni scritte;

entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

Considerato che:

1) l'indagine sulla qualità ereditaria dei ricorrenti è questione che ha precedenza logica sulle altre. S.M., il controricorrente, denuncia la mancata dimostrazione della veste che legittimerebbe G.A. e V.R. ad agire - il primo "anche" - a titolo risarcitorio iure hereditatis. I ricorrenti si erano, infatti, limitati ad affermare di essere eredi di G.A. deceduto il 20 agosto 2018;

trova applicazione il principio secondo cui in caso di decesso della parte costituita nel precedente giudizio di merito, colui il quale, in sede di giudizio di legittimità, abbia proposto ricorso, assumendo di esserne l'erede deve provare, pena l'inammissibilità del gravame, la propria legittimazione processuale attraverso le produzioni documentali consentite dalla norma di cui all'art. 372 c.p.c., con riferimento tanto al fatto storico del decesso della parte originaria quanto alla asserita qualità di erede della stessa (oneri ottemperabili, ad esempio, mediante produzione del certificato di morte del "de cuius" e della conseguente denuncia di successione, ovvero di atti notori), trattandosi, nella specie, di fatti costitutivi del diritto di impugnazione e, come tali, da provare da parte del soggetto che intenda esercitarlo. Tale prova, necessaria in presenza di apposita eccezione di controparte, può essere fornita in tempi anche successivi a quello del deposito del ricorso, purché precedenti la discussione del medesimo, così che siano resi edotti gli eventuali controricorrenti presenti (ove mai questi ultimi non siano già stati destinatari, in precedenza, di apposita notificazione ex art. 372 c.p.c.) (Cass. n. 10022 del 14/10/1997; Cass. n. 6238 del 21/03/2006);

detto incombente è stato assolto dai ricorrenti che in data 29 giugno 2022 hanno prodotto: il certificato di morte di G.A., il certificato di matrimonio tra G.A. e V.R., l'estratto dell'atto di nascita di G.M. e lo stato di famiglia di G.A. al momento del decesso;

l'onere della prova della propria qualità di eredi risulta idoneamente adempiuto con la produzione degli atti dello stato civile, dai quali è dato coerentemente desumere il rapporto di parentela ed il vincolo di coniugio con il de cuius che legittimano alla successione ai sensi degli artt. 565 e ss. c.c. D'altra parte, con riguardo all'accettazione dell'eredità, poiché, ai sensi dell'art. 476 c.c., l'accettazione tacita può desumersi dall'esplicazione di un'attività personale del chiamato incompatibile con la volontà di rinunciarvi, id est con un comportamento tale da presupporre la volontà di accettare l'eredità secondo una valutazione obiettiva condotta alla stregua del comune modo di agire di una persona normale, l'accettazione è implicita nell'esperimento, da parte del chiamato, di azioni giudiziarie, che - essendo intese alla rivendica o alla difesa della proprietà o ai danni per la mancata disponibilità di beni ereditari - non rientrano negli atti conservativi e di gestione dei beni ereditari consentiti dall'art. 460 cod.civ, sicché, trattandosi di azioni che travalicano il semplice mantenimento della stato di fatto quale esistente al momento dell'apertura della successione, il chiamato non avrebbe diritto di proporle e, proponendole, dimostra di avere accettato la qualità di erede" (di recente, in questi termini, cfr. Cass. n. 22730 dell'11/08/2021, cui adde Cass. n. 10060 del 24/04/2018; Cass. n. 14499 del 06/06/2018; Cass. n. 16814 del 26/06/2018);

2) le prime quattro censure sono ricondotte all'omesso esame di fatti decisivi, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1 n. 5 e sono volte a dimostrare che la Corte territoriale sia giunta alla conclusione che l'utilizzo dello strumento della denuncia querela da parte degli avvocati S. avesse assunto carattere sostanzialmente difensivo e che non potesse escludersi la buona fede degli stessi senza prendere in esame le seguenti circostanze decisive: 1) la prima denuncia sarebbe stata quella di S.F., l'esposto disciplinare nei confronti di G.A. al Consiglio dell'ordine degli avvocati sarebbe stato successivo; 2) S.M. avrebbe sporto la sua prima denuncia il 21 giugno 2007, dopo l'archiviazione del procedimento avviato dal padre S.F., e si giustificava asserendo di non avere saputo nulla del procedimento avviato dal padre per gli stessi fatti; 3) il procedimento penale 25/2008 era terminato con una sentenza di proscioglimento non per insussistenza del fatto, ma perché il fatto non costituisce reato; 4) il procedimento penale 290/2007 si era concluso con una pronuncia di proscioglimento e non di assoluzione;

3) in via preliminare si osserva che i motivi presentano tutti il medesimo vizio: non soddisfano gli oneri di allegazione che sono imposti a chi deduca l'omesso esame di fatti decisivi per il giudizio; deve ricordarsi che l'omesso esame del fatto storico, principale o secondario deve risultare dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche dal dato extratestuale), deve avere costituito oggetto di discussione e deve avere carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un diverso esito della controversia) (Cass., Sez. Un., n. 8053 del 07/04/2014);

più specificamente, però, i motivi deducono fatti di cui questa Corte non è stata messa in condizione di apprezzare il rilievo, perché la sentenza non se ne occupa e nella descrizione dei fatti di causa non vi si fa cenno. Questa Corte ha precisato,. più volte, che "mentre le parti possono confrontare le ragioni della decisione con le posizioni, ad esse ovviamente note, assunte nel corso del giudizio conclusosi con la sentenza impugnata, lo stesso evidentemente non vale per la Corte di cassazione, che per conoscere le dette posizioni non deve essere costretta ad esaminare gli atti del giudizio di merito" (cfr. ex multis Cass. n. 22205 del 04/08/2021);

e' vero che i ricorrenti indicano gli atti processuali nei quali trovare riscontro dei fatti indicati, ma ciò non giova loro, non avendo gli stessi proceduto a elaborare una sintesi della vicenda fattuale e processuale, individuando i dati di fatto rilevanti (domande, eccezioni, statuizioni delle sentenze di merito, motivi di gravame, questioni riproposte in appello, etc.) in funzione dei motivi di ricorso, in modo da consentire a questa Corte di procedere allo scrutinio di tali motivi disponendo di un quadro chiaro e sintetico della vicenda processuale, necessario non solo per cogliere agevolmente il significato delle censure, ma anche per valutarne l'ammissibilità e la pertinenza rispetto alle rationes decidendi della sentenza impugnata: i ricorrenti non hanno mai dato contezza del contenuto delle denunce querele di cui sono stati destinatari, né degli esposti da loro stessi formulati nei confronti dei controricorrenti; questa Collegio non è in grado, perciò, di attribuire rilievo a molte delle circostanze indicate, non essendo esse state inserite in una chiara cornice di riferimento: per tutte valga il richiamo ai fatti di collusione retributiva che hanno coinvolto, oltre a S.M., l'avvocato c.V. ed alle sentenze con cui si è chiuso il procedimento a carico di quest'ultimo (p. 7 del ricorso); né più comprensibili, nel senso indicato, sono i fatti indicati a p. 6 del ricorso;

come si è già detto, dall'illustrazione dei primi quattro motivi, che contiene continui rinvii ad atti e documenti processuali, non è possibile trarre gli elementi necessari per colmare le denunciate lacune conoscitive; costituisce ius receptum che il motivo che abdichi alla funzione che gli è propria, quella di criticare e, quindi, di indicare che cosa si critichi e su che cosa la critichi si fondi, delegando queste operazioni alla Suprema Corte, si risolve in un non motivo; parimenti non possiede i caratteri del motivo cassatorio quello che non determini con precisione l'oggetto della originaria pretesa, così contravvenendo proprio alla finalità primaria della prescrizione di rito, che è quella di rendere agevole la comprensione della questione controversa, e dei profili di censura formulati, in immediato coordinamento con il contenuto della sentenza impugnata, difettando del requisito della chiarezza;

in aggiunta, poi, il primo motivo contesta (anche) il travisamento delle informazioni probatoria; a tal riguardo, va in primo luogo ribadito che se il vizio denunciato maschera un tentativo di far rivivere il vizio di insufficienza della motivazione esso certamente non è più deducibile a seguito della riforma dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (in tema di ricorso di

cassazione, il travisamento della prova, che presuppone la constatazione di un errore di percezione o ricezione della prova da parte del giudice di merito, ritenuto valutabile in sede di legittimità qualora dia luogo ad un vizio logico di insufficienza della motivazione, non è più deducibile a seguito della novella apportata all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 dal D.L. n. 83 del 2012 art. 54, conv. dalla L. n. 134 del 2012, che ha reso inammissibile la censura per insufficienza o contraddittorietà della motivazione);

in seconda battuta - e la questione è più complessa - occorre stabilire se, una volta escluso che la parte ricorrente abbia sostanzialmente lamentato l'insufficienza della motivazione, vi sia spazio per dedurre un errore di percezione dell'"informazione probatoria" (ricadente sul contenuto oggettivo della prova: demonstratum, denunciabile quale error in procedendo, per violazione dell'art. 115 c.p.c.: Cass. n. 9356 del 12/04/2017);

va dato atto che nella giurisprudenza di legittimità si registrano posizioni non univoche riguardo alla deducibilità del vizio di travisamento della prova;

non ignora, infatti, il Collegio che, a fronte di decisioni inclini ad ammettere la sussistenza di un vizio di travisamento delle prove, ben distinto, beninteso, da quello di "valutazione delle prove" che si sostanzia in errore sul significante, cioè nella postulazione in sentenza di informazioni probatorie che possano considerarsi obiettivamente e inequivocabilmente contraddette dal dato formale-percettivo delle fonti o dei mezzi di prova considerati o che, addirittura, risultino inesistenti e dunque sostanzialmente "inventate" dal giudice (Cass. n. 49 del 07/01/2021; Cass. n. 1163 del 21/01/2020; Cass. n. 28174 del 05/11/2018); per scorgere il quale ci si deve avvalere del criterio, di cui all'art. 395 c.p.c., n. 4, dettato per la definizione di errore di fatto percettivo (deve cioè trattarsi di una svista obiettivamente ed immediatamente rilevabile ex actis o, come è stato detto, del travisamento di un "dato probatorio non equivoco e insuscettibile di essere interpretato in modi diversi ed alternativi" ed inoltre "decisivo") - ve ne sono altrettante che, premesso che l'ipotesi del travisamento della prova implica, non una valutazione dei fatti, ma una constatazione o un accertamento che l'informazione probatoria utilizzata in sentenza è contraddetta da uno specifico atto processuale, ammettono la deducibilità di detto vizio cassatorio (cfr., senza pretesa di esaustività, Cass. n. 7974 del 11/03/2022; Cass. n. 7187 del 04/03/2022; Cass. n. 21407 del 26/07/2021; Cass. n. 1163 del 21/01/2020; Cass. n. 3796 del 14/02/2020);

nel caso di specie, nondimeno, appare evidente che nemmeno in astratto ricorrerebbe il vizio di travisamento della prova, perché, come è rilevato anche nel controricorso, parte ricorrente con riferimento ai medesimi fatti lamenta l'omesso esame; va da sé che le due censure - omesso esame e travisamento - si elidono a vicenda, perché solo un fatto (qui un'informazione probatoria) esaminato potrebbe essere stato travisato, cioè potrebbe risultare contraddetto da un'altra informazione probatoria o da un altro atto processuale;

si osserva, in aggiunta, che l'affermazione secondo cui il 24 settembre 2005 - data della prima denuncia contro G.A. - non era stato formulato alcun "esposto disciplinare, né in seguito i G. hanno mai agito d'anticipo" (p. 5 del ricorso), oltre ad essere meramente assertiva, non essendo fondata sull'assolvimento delle prescrizioni di cui all'art. 366 n. 6 c.p.c., risulta contraddetta dalla sentenza impugnata che, a p. 7, dopo aver rilevato che i due professionisti si erano sostanzialmente difesi, giacché prima della proposizione delle denunce querele oggetto di causa erano stati destinatari di numerosissimi esposti al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati, al Consiglio Nazionale forense, fa espressa menzione di alcuni di essi; ai fini che qui rilevano riferisce della comunicazione, datata 8 settembre 2005, quindi anteriore alla data del 24 settembre dello stesso anno, con cui i due avvocati venivano accusati di approfittamento in relazione alla causa B.;

non può accogliersi la censura con cui, a p. 5, viene denunciata la ricorrenza di un contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili e comunque la incomprensibilità della motivazione della sentenza che, a dire di parte ricorrente, avrebbe ritenuto giustificata la raffica di denunce querele per ingiuria, diffamazione e calunnia a fronte della pervicace condotta tesa ad affermare il pagamento delle prestazioni professionali maturate nel corso del temo; la censura non ha colto la ratio decidendi della statuizione impugnata, la quale ha utilizzato la condotta dei due G., volta ad affermare con pervicacia di avere pagato i due avvocati per le prestazioni rese, per supportare il proprio convincimento circa la ricorrenza tra le parti di rapporti improntati a estrema conflittualità; ciò risulta evidente dal fatto che, dopo avere elencato la lunga serie di esposti presentati contro i due avvocati S., allo scopo di dimostrare che le denunce querele oggetto di causa si inserivano all'interno di un rapporto tra le parti contrassegnato da conflitti, ha esaminato, allo stesso scopo, la condotta tesa ad affermare l'avvenuto pagamento delle prestazioni professionali;

i primi quattro motivi sono da ritenere, dunque, inammissibili;

4) con il quinto motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione di norme diritto in ordine alla liquidazione delle spese di lite;

la tesi sostenuta è che la Corte li abbia condannati al pagamento della somma di Euro 7.000,00 a favore di ciascuno degli appellati costituiti oltre alle spese forfettarie, Iva e CPA, incorrendo nella violazione dell'art. 4 del dm 55/2014, a mente del quale, quando in una causa l'avvocato assiste più soggetti aventi la medesima posizione processuale, il compenso unico può essere di regola aumentato per ogni soggetto oltre il primo nella misura del 20 per cento... e che nell'ipotesi in cui, ferma l'identità processuale dei vari soggetti, la prestazione professionale nei confronti di questi non comporta l'esame di specifiche e distinte questioni di fatto e di diritto, il compenso, altrimenti liquidabile per l'assistenza di un solo soggetto, è di regola ridotto di un terzo;

nel caso di specie, S.M. aveva difeso se stesso oltre a tre eredi di S.F., perciò, in applicazione del principio stabilito da Cass. 17393/2017, avendo gli eredi di una parte processuale deceduta fatto valere la medesima posizione processuale, avrebbe dovuto essere liquidato un solo compenso e detto compenso, tenuto conto della non particolare difficoltà delle questioni trattate, non avrebbe dovuto essere aumentato della misura del 20% ed anzi avrebbe dovuto essere ridotto del 30 % tenuto conto che le difese delle singole parti non avevano comportato l'esame di specifiche e distinte questioni di fatto e di diritto, avendo fatto parte di un medesimo disegno defensionale a vantaggio di più parti;

il motivo è fondato;

deve trovare applicazione il principio secondo il quale in caso di difesa di più parti aventi la medesima posizione processuale e rappresentate dallo stesso avvocato è dovuto un compenso unico legale, in quanto la ratio della disposizione di cui al D.M. n. 55 del 2014 art. 8, comma 1, è quella di fare carico al soccombente solo delle spese nella misura della più concentrata attività difensiva quanto a numero di avvocati; perciò la decisione che abbia liquidato un plurimo integrale compenso in presenza di più parti aventi identica posizione processuale e costituite con lo stesso avvocato incorre nella denunciata violazione di legge (Cass. n. 1650 del 19/01/2022);

la Corte accoglie il motivo, cassa in relazione la decisione impugnata, e, decidendo nel merito, dichiara dovute le spese del giudizio di appello nella misura di Euro 7.000,00 a favore degli appellati, considerati un'unica parte processuale, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% IVA e CPA;

5) le spese del giudizio di cassazione sono compensate.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i primi quattro motivi, accoglie il quinto motivo, cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara dovute le spese del giudizio di appello nella misura di Euro 7.000,00 a favore degli appellati, considerati un'unica parte processuale, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, IVA e CPA, compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 5 luglio 2022.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2022.

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