Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.3892 del 08/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 11910/2018 proposto da:

Avv. T.S., rappresentato e difeso dagli avv.ti Michele Vietti e Manuela Traldi;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Economia e delle Finanze, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente a debito –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma, depositata il 14.3.2017;

Udita la relazione della causa svolta dal Consigliere Dott. Lorenzo Orilia;

Uditi il Pubblico Ministero e i Difensori delle parti.

RITENUTO IN FATTO

1 La Corte d’Appello di Roma con sentenza resa pubblica il 14.12017 ha respinto il gravame proposto dall’avvocato T.S. contro la sentenza del locale Tribunale (n. 350 del 2010) che, nei due giudizi (riuniti) di pagamento di compensi derivanti da cinque parcelle relative alla gestione del contenzioso riguardante il disciolto Ente Nazionale per la Cellulosa e la Carta (ENCC), aveva condannato il convenuto Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento della somma di Euro 41.546,25, così ridimensionando l’originaria pretesa del legale (che aveva domandato invece un compenso di Euro 209.178,33).

La Corte territoriale, dopo aver richiamato le argomentazioni del Tribunale (il quale aveva comunque ritenuto di liquidare gli onorari secondo i valori medi del D.M. n. 585 del 1994, sulla scorta della sentenza n. 2465/2005 del Tribunale di Roma), ha motivato il rigetto del gravame osservando per quanto interessa:

– che nel caso di specie non sussisteva alcun giudicato esterno opponibile al Ministero, stante la diversità di causa petendi e di petitum rispetto alle sentenze pronunciate da altri giudici del Tribunale di Roma;

– che il richiamo a due sentenze del 2009 integrava addirittura una questione nuova in appello;

– che il Ministero aveva contestato radicalmente la pretesa, sicché spettava al professionista di provare il suo diritto secondo la regola dell’onere probatorio, dimostrando la effettività e consistenza delle prestazioni eseguite;

– che i motivi di appello non toccavano la sentenza nella parte in cui aveva riscontrato il mancato svolgimento di alcune prestazioni;

– che infine quanto alle prestazioni indicate nella parcella n. *****, il compenso era stato correttamente negato perché si trattava di attività svolta da altro legale e quindi l’avvocato T. era privo di legittimazione, non avendo dimostrato che si fosse trattato di un sostituto.

2 Contro tale sentenza il professionista propone ricorso per cassazione con dieci motivi, a loro volta contenenti plurime censure.

Resiste con controricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze.

In prossimità dell’udienza il ricorrente ha depositato alcune pronunce.

Sono pervenute memorie.

Il Pubblico Ministero ha concluso per il rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.1 Innanzitutto, si rende opportuno chiarire che per giurisprudenza costante di questa Corte, nel giudizio civile di legittimità, con le memorie di cui all’art. 378 c.p.c., destinate esclusivamente ad illustrare ed a chiarire i motivi della impugnazione, ovvero alla confutazione delle tesi avversarie, non possono essere dedotte nuove censure né sollevate questioni nuove, che non siano rilevabili d’ufficio, e neppure può essere specificato, integrato o ampliato il contenuto dei motivi originari di ricorso (v. Sez. 2 -, Sentenza n. 24007 del 12/10/2017 Rv. 645587; Sez. 1, Sentenza n. 28855 del 29/12/2005 Rv. 587153).

Sempre in via preliminare è opportuno evidenziare che il presente giudizio si inserisce nel vasto contenzioso sorto tra il legale e il Ministero dell’Economia e delle Finanze.

L’avv. T.S. ha proposto una serie di domande giudiziali contro il Ministero dell’Economia e delle Finanze davanti al Tribunale di Roma (sia in via ordinaria, sia nelle forme previste della L. n. 794 del 1992, artt. 28 e 29, sia nelle forme del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14).

Alla base delle pretese, ha posto il conferimento dell’incarico da parte dell’Ispettorato Generale per la liquidazione degli Enti Disciolti del Ministero del Tesoro, ora Ministero dell’Economia e delle Finanze, finalizzato allo svolgimento delle attività difensive in una serie di procedimenti civili, penali ed amministrativi riguardanti enti pubblici in liquidazione. Ha richiamato infatti la Convenzione sottoscritta in data 19.9.2000, con cui si era concordato un compenso difensivo rapportato agli onorari massimi previsti dalla tariffa per le cause di particolare complessità, agli onorari medi per quelle importanti e complesse e agli onorari compresi tra il minimo ed il massimo per quelle ordinaria complessità; ha aggiunto che l’entità dei compensi venne rinegoziata con una successiva convenzione del 18.3.2002, prevedendosi l’applicazione degli onorari minimi, salvo che per le liti conclusesi favorevolmente per l’ente, senza alcuna previsione per l’ipotesi di revoca del mandato. Intervenuta dopo qualche mese la revoca del mandato, precisamente in data 30.5.2002, è poi sorto il contenzioso con l’Amministrazione finanziaria sfociato, come già esposto, in una pluralità di pronunce di merito e di legittimità.

Passando adesso all’esame dei motivi di ricorso, col primo di essi l’avvocato T. denunzia preliminarmente “la violazione degli artt. 110,116 e 323 c.p.c., per la carenza della legittimazione sostanziale e processuale ex lege n. 14 del 2009, del MEF nonché degli artt. 324 e 329 c.p.c. e art. 2909 c.c., per la valenza panprocessuale dei relativi giudicati”. Denunzia altresì “la violazione egli artt. 324 e 329 c.p.c., nonché dell’art. 2909 c.c., per il passaggio in giudicato ex art. 343 c.p.c., dei capi attestanti la vigenza inter partes della Convenzione di Patrocinio 19.9.2000, rilevabile di ufficio”, evidenziando i punti della sentenza di primo grado non impugnati e coperti dal giudicato (validità della Convenzione del 19.9.2000; nullità della modifica del 18.3.2002; remunerabilità delle prestazioni alla percentuale intermedia della tariffa legale; non applicabilità della L. n. 14 del 2009, alla Convenzione ed ai suoi contenziosi perché limitata ai giudizi in cui era parte l’E.N.C.C. e alle obbligazioni insorte successivamente alla sua entrata in vigore). Rimprovera quindi alla Corte d’Appello di non essersi pronunziata su di essi in violazione dell’art. 112 c.p.c..

1.2 Col secondo motivo il ricorrente denunzia “la violazione degli artt. 112,105,167,183 e 268 c.p.c., in difetto di proposizione di domande ed azioni del MEF ex lege n. 14 del 2009, nel primo grado di giudizio, con inammissibilità delle accolte domande, rilevabile di ufficio”.

1.3 Col terzo motivo si denunzia “violazione degli artt. 345 e 112 c.p.c., per novità delle domande/azioni del MEF ex lege n. 14 del 2009, con erroneità delle accolte domande, rilevabile di ufficio”.

Questi tre motivi sono inammissibili per difetto di interesse, come correttamente evidenziato dal Procuratore Generale.

Posto infatti che è stata confermata integralmente la sentenza di primo grado e quindi la condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze (cioè proprio dell’organo convenuto in giudizio dall’odierno ricorrente), nonché la applicabilità dei valori “medi” della tariffa e l’inapplicabilità della convenzione del 2002 (cfr. sentenza impugnata pag. 2 ove è riportata la relativa statuizione del primo giudice, confermata col rigetto integrale dell’appello), non si comprende quale sia l’interesse del ricorrente a rimettere ancora in discussione tali questioni, anche perché dalla sentenza impugnata non risulta che sia stata riconosciuta una limitazione di responsabilità del Ministero ai sensi della L. n. 14 del 2009.

A ciò aggiungasi, come ulteriore ragione di inammissibilità per difetto di interesse, il fatto che lo stesso ricorrente se ne è reso conto con la memoria ex art. 378 c.p.c., contenente appunto una “rinunzia” ad alcuni motivi di ricorso tra cui quelli in esame. Superfluo è poi il richiamo alla Ordinanza n. 14083 del 2019 di questa Corte, visto che i giudici di merito nel caso in esame hanno applicato i valori medi della tariffa.

1.4 Col quarto motivo il ricorrente denunzia la “violazione dei giudicati panprocessuali insorti da 27 sentenze perché relativi alla medesima Convenzione di patrocinio del 19.9.2000 e come tali preclusivi delle avverse domande ed azioni ex lege n. 14 del 2009, per i principi di diritto enunciati dall’Ill.ma Corte di Cassazione adita con la sentenza n. 20629/2016 Rv. 642917”. Deduce quindi la valenza panprocessuale delle sentenze definitive n. 2465/06 e 614/09 perché relative al medesimo contratto di patrocinio 19.9.2000 e delle sentenze definitive a queste informate. Richiama poi, attraverso una lunga elencazione, oltre alle già menzionate sentenze altre 25 sentenze.

1.5 Col quinto motivo il ricorrente denunzia “violazione degli artt. 2230 e 2233 c.c., del D.M. n. 585 del 1994 e dell’art. 132 c.p.c., n. 4, per omessa remunerazione delle prestazioni per assunta allegazione di prova ed illustrazione della loro consistenza e correttezza”, dolendosi del mancato riconoscimento di alcune voci (consultazioni con il cliente, corrispondenza informativa, ricerca documenti, esame della documentazione della controparte anteriormente alla sentenza e richiesta copie).

1.6 Col sesto motivo si denunzia “violazione dell’art. 112 c.p.c., per pronuncia ultra petitum della gravata sentenza”. Afferma testualmente il ricorrente che “la sentenza è erronea innanzitutto per pronuncia ultra petitum in difetto contestazione generica del MEF, che si era limitato a negare la valenza della domanda attorea sostenendo il pregresso saldo. Quindi la pronuncia della gravata sentenza, come altresì della sentenza di primo grado, è viziata dalla violazione dell’art. 112 c.p.c.”.

1.7 Col settimo motivo il ricorrente denunzia la violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 110 c.p.c., nonché art. 167 c.p.c., artt. 2697 e 2909 c.c., stante l’intervenuto giudicato panprocessuale sulla non contestazione dello svolgimento delle prestazioni da parte del Ministero. Cita al riguardo una pronuncia del Tribunale di Roma. Rimprovera poi alla Corte di non avere rilevato che il Ministero era decaduto dal proporre “tale nuova domanda”.

1.8 Con l’ottavo motivo il ricorrente denunzia violazione degli artt. 2232,2233,2238 e 2094 c.c. e del D.M. n. 585 del 1994, per omessa remunerazione delle prestazioni professionali della parcella n. *****, nonché violazione degli artt. 324 e 329 c.p.c. e art. 2909 c.c., stante l’intervenuto giudicato panprocessuale. Il ricorrente critica la Corte d’Appello affermando che la qualità di collaboratore dipendente dell’avv. Del Vescovo costituiva giudicato panprocessuale e richiama dieci sentenze del Tribunale di Roma (riportandone anno e numero) 1.9 Col nono motivo l’avvocato T. deduce violazione degli artt. 324 e 329 c.c., nonché dell’art. 2909 c.c., per denegata condanna del MEF ai danni per ritardato pagamento ex art. 1124 c.c., comma 1, stante l’intervenuto giudicato panprocessuale” (così testualmente, ma è chiaro che si tratta di meri errori materiali sulle norme codicistiche in sede di scritturazione). Richiama la sentenza 474/2011 del Tribunale di Roma.

1.10 Col decimo motivo, si deduce la violazione dell’art. 329 c.p.c., e art. 2909 c.c., per omessa pronuncia sui giudicati panprocessuali insorti in ordine al mancato perfezionamento della proposta transattiva del 2005 e riporta gli estremi (anno e numero) di una serie di pronunce.

1.11 Il ricorrente conclude il ricorso con la richiesta di condanna dell’Amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 96 c.p.c..

2 I suddetti motivi – ad esclusione del quinto e sesto – sono ben suscettibili di esame unitario per il comune riferimento alla violazione del giudicato esterno. Ebbene, essi sono inammissibili.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, affinché il giudicato esterno possa fare stato nel processo è necessaria la certezza della sua formazione, che deve essere provata, pur in assenza di contestazioni, attraverso la produzione della sentenza munita del relativo attestato di cancelleria” (tra le tante, v. Sez. 3, Ordinanza n. 26310 del 2021 non massimata; v. altresì Sez. 3, ord. 23 agosto 2018, n. 20974, Rv. 650322-01; Sez. L -, Ordinanza n. 28515 del 29/11/2017 Rv. 646363), ciò che nella specie non risulta essere avvenuto: il ricorso si limita infatti ad una alluvionale elencazione e commistione di sentenze di Tribunale e Corte d’Appello, senza però neppure allegare l’avvenuto rilascio della apposita certificazione di cancelleria.

E’ vero che talvolta, per dimostrare il passaggio in giudicato di una sentenza, si prescinde dalla relativa attestazione, ma si tratta del caso qui non ricorrente – di giudicato esterno formatosi a seguito di una sentenza della Corte di cassazione (cfr. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 16589 del 11/06/2021 Rv. 661485). Nel caso in esame, l’ordinanza Sez. 2, n. 14083 del 23/05/2019 Rv. 654181 (menzionata nella nota di deposito) non giova al ricorrente, avendo respinto il suo ricorso e comunque condiviso la correttezza del riconoscimento al ricorrente delle somme risultanti dall’applicazione dei valori tariffari medi, concretamente ritenuti congrui con riferimento alle attività svolte nei singoli giudizi nei quali egli aveva esercitato il patrocinio.

Solo per completezza è il caso di aggiungere – ed il rilievo tronca definitivamente ogni ulteriore discussione sull’argomento – che nel giudizio di cassazione il principio della rilevabilità del giudicato esterno deve essere coordinato con l’onere del rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, per cui la parte ricorrente che deduca il suddetto giudicato deve, a pena di inammissibilità, riprodurre nel ricorso il testo integrale della sentenza che assume essere passata in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il richiamo a stralci della motivazione o ad un riassunto sintetico della stessa (Sez. L, Ordinanza n. 12496 del 2020 non massimata; v. altresì Cass. 18 novembre 2019, n. 29881; Cass. 3lottobre 2019, n. 28182; Cass. 30838/18; Cass. 31 maggio 2018, n. 13988; Cass. 23 giugno 2017, n. 15737; Cass. 11 febbraio 2015, n. 2617; Cass. SU 27 gennaio 2004 n. 1416); e ancora, il rilievo pubblicistico del giudicato comporta altresì che l’onere di allegazione del ricorrente sia completo e non resti affidato alla deduzione di frammentarie proposizioni della sentenza che, come tali, non consentono ai giudici di legittimità di trarre dal primo il significato oggettivo della regola o del comando di cui il provvedimento è portatore (Sez. L, Ordinanza n. 12496/2020 cit.; Cass. SU 9 maggio 2008, n. 11501).

Dalla lettura del ricorso non risulta l’osservanza di tali regole ed anzi, a volte sì sostiene la formazione di un giudicato sol perché la sentenza, benché soggetta ad impugnazione ancora pendente, non sarebbe stata impugnata in alcune parti (neppure chiaramente indicate).

Quanto al settimo motivo, va rilevata l’inammissibilità anche per l’ulteriore rilievo che il Ministero non risulta avere svolto “domande” (nulla ricavandosi dalla sentenza impugnata e neppure dal ricorso a pagg. 4 e 5).

Il motivo, privo di chiarezza espositiva, non rispetta lo standard di specificità richiesto dall’art. 366 c.p.c..

Anche il decimo motivo si connota altresì per difetto di specificità perché esso non precisa in quale passaggio della sentenza impugnata si faccia riferimento ad una transazione del 2005.

4 Restano a questo punto da esaminare il quinto ed il sesto motivo, che seguono la sorte di tutti gli altri.

Prendendo le mosse dal quinto motivo, occorre ribadire che in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e’, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (cfr. tra le varie, Sez. 1 -, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019 Rv. 652549; Sez. 1 -, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017 Rv. 645538).

Nel caso in esame si è chiaramente fuori dal vizio denunziato perché la censura, a ben vedere, si limita a criticare la valutazione del giudice di merito sulla prova dell’avvenuta esecuzione di alcune prestazioni che, invece, la Corte d’Appello, nell’esaminare il sesto motivo di gravame, ha escluso rilevando non solo l’inefficacia del giudicato esterno, ma anche la mancanza di prova (nel giudizio di primo grado) dell’esecuzione delle prestazioni, prova incombente sul professionista a fronte “dell’espressa contestazione del Ministero” (cfr. pag. 8 sentenza impugnata e anche pag. 6 e 7) e la mancanza di censure in ordine all’eventuale errore del primo giudice “consistente nel mancato apprezzamento delle circostanze emergenti ex actis idonee a dimostrare l’avvenuta esecuzione di tali attività”.

A fronte di tale percorso argomentativo, del tutto plausibile, il ricorso si limita, in violazione dell’onere di specificità dei motivi imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6) a richiamare genericamente le parcelle e l’atto di appello contenuto nel fascicolo di secondo grado, senza neppure riportarne i passaggi che ritiene rilevanti (v. pag. 35). Inoltre, non specifica neppure a quale delle cinque parcelle si riferisce la censura, a fronte di una sentenza che invece a pagg. 3 e 4 riporta analiticamente la decisione del Tribunale per ogni parcella e a pag. 7 aggiunge che “i motivi di appello in questione non toccano specificamente la sentenza nella parte in cui sui è rilevato il mancato svolgimento, da parte del professionista, delle attività professionali indicate in parcella”.

Quanto al sesto motivo (che denunzia il vizio di ultrapetizione), se ne rileva ugualmente l’inammissibilità.

Il potere-dovere del giudice di inquadrare nella esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti che formano oggetto della contestazione incontra il limite del rispetto del “petitum” e della “causa petendi”, sostanziandosi nel divieto di introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, sicché il vizio di “ultra” o “extra” petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (“petitum” o “causa petendi”), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (“petitum” immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (“petitum” mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (v. Sez. 2 -, Sentenza n. 8048 del 21/03/2019 Rv. 653291; Sez. 1 -, Sentenza n. 9002 del 11/04/2018 Rv. 648147; Sez. 3, Sentenza n. 18868 del 24/09/2015 Rv. 636968).

Nel caso in esame, la scarna censura (pochi righi), riallacciandosi al quinto motivo, si riduce, a ben vedere, ad una mera critica sull’apprezzamento del giudice di merito in ordine alla linea difensiva adottata dal convenuto (contestazione dell’avversa pretesa).

In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile con inevitabile aggravio di spese per la parte soccombente, restando così logicamente assorbita ogni questione sulla applicazione dell’art. 96 c.p.c..

Sussistono l’presupposti processuali per il versamento – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 7.000,00 oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2022

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