LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi – Presidente –
Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso n. 12923/2018 proposto da:
T.S., elettivamente domiciliato in Roma Piazzale delle Belle Arti n. 3, presso l’avv. Manuela Traldi, che lo rappresenta e difende unitamente all’avv. Michele Vietti;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Economia e delle Finanze, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio in Roma via dei Portoghesi 12;
– controricorrente e ricorrente incidentale a debito –
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma, depositata il 20.3.2017;
Udita la relazione della causa svolta dal Consigliere Dott. Lorenzo Orilia;
Uditi il Procuratore Generale e i difensori delle parti.
RITENUTO IN FATTO
1 La Corte d’Appello di Roma con sentenza resa pubblica il 20.3.2017 ha respinto il gravame proposto dall’avvocato T.S. contro la sentenza del locale Tribunale (n. 351 del 2010) che, nei due giudizi (riuniti) n. 6363/2005 e 51318/2006 aventi ad oggetto il pagamento di compensi derivanti da otto parcelle relative alla gestione del contenzioso riguardante il disciolto Ente Nazionale per la Cellulosa e la Carta (ENCC), aveva condannato il convenuto Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento della somma di Euro 809,67 oltre interessi, così ridimensionando l’originaria pretesa del legale (che aveva domandato invece un compenso di Euro 7.135,37).
La Corte territoriale, dopo aver richiamato le argomentazioni del Tribunale (il quale aveva comunque ritenuto di liquidare gli onorari secondo i valori medi del D.M. n. 585 del 1994, sulla scorta della sentenza n. 2465/2005 del Tribunale di Roma), ha motivato il rigetto del gravame osservando per quanto interessa:
– che in materia di prestazioni professionali, in caso di contestazioni della pretesa, spetta al professionista di provare il suo diritto secondo la regola dell’onere probatorio, dimostrando la effettività e consistenza delle prestazioni eseguite;
– che nel caso di specie non sussiste alcun giudicato esterno opponibile al Ministero, stante la diversità di causa petendi e di petitum rispetto alle sentenze pronunciate da altri giudici del Tribunale di Roma;
– che il giudicato sussiste sulla validità del contratto di patrocinio, sulla inapplicabilità della convenzione del 2002 e sulla applicabilità dei valori medi della tariffa professionale;
– che il richiamo a due sentenze del 2009 integrava addirittura una questione nuova in appello inammissibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c.;
– che era infondato il motivo di appello riguardante il mancato riconoscimento del compenso per alcune prestazioni, in mancanza della relativa prova;
– che non poteva accogliersi neppure l’eccezione del Ministero (impropriamente qualificata come appello incidentale) in ordine alla limitazione di responsabilità nei limiti dell’attivo della liquidazione dell’ente disciolto (D.L. 30 dicembre 2008, art. 41, comma 16 octies, convertito con modificazioni nella L. 27 febbraio 2009, n. 14), trattandosi di normativa inapplicabile ai rapporti contrattuali pregressi come quello in questione sorto in epoca pacificamente anteriore.
2 Contro tale sentenza il professionista propone ricorso per cassazione con 13 motivi, a loro volta contenenti plurime censure.
Resiste con controricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze spiegando ricorso incidentale condizionato.
In prossimità dell’udienza il ricorrente ha depositato alcune pronunce.
Sono pervenute memorie.
Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.1 Innanzitutto, si rende opportuno chiarire che per giurisprudenza costante di questa Corte, nel giudizio civile di legittimità, con le memorie di cui all’art. 378 c.p.c., destinate esclusivamente ad illustrare ed a chiarire i motivi della impugnazione, ovvero alla confutazione delle tesi avversarie, non possono essere dedotte nuove censure né sollevate questioni nuove, che non siano rilevabili d’ufficio, e neppure può essere specificato, integrato o ampliato il contenuto dei motivi originari di ricorso (v. Sez. 2, Sentenza n. 24007 del 12/10/2017 Rv. 645587; Sez. 1, Sentenza n. 28855 del 29/12/2005 Rv. 587153).
Sempre in via preliminare è opportuno evidenziare che il presente giudizio si inserisce nel vasto contenzioso sorto tra il legale e il Ministero delle Finanze.
L’avv. T.S. ha proposto una serie di domande giudiziali contro il Ministero dell’Economia e delle Finanze davanti al Tribunale di Roma (sia in via ordinaria, sia nelle forme previste della L. n. 794 del 1992, artt. 28 e 29, sia nelle forme del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14).
Alla base delle pretese, ha posto il conferimento dell’incarico da parte dell’Ispettorato Generale per la liquidazione degli Enti Disciolti del Ministero del Tesoro, ora Ministero dell’Economia e delle Finanze, finalizzato allo svolgimento delle attività difensive in una serie di procedimenti civili, penali ed amministrativi riguardanti enti pubblici in liquidazione. Ha richiamato infatti la Convenzione sottoscritta in data 19.9.2000, con cui si era concordato un compenso difensivo rapportato agli onorari massimi previsti dalla tariffa per le cause di particolare complessità, agli onorari medi per quelle importanti e complesse e agli onorari compresi tra il minimo ed il massimo per quelle ordinaria complessità; ha aggiunto che l’entità dei compensi venne rinegoziata con una successiva convenzione del 18.3.2002, prevedendosi l’applicazione degli onorari minimi, salvo che per le liti conclusesi favorevolmente per l’ente, senza alcuna previsione per l’ipotesi di revoca del mandato. Intervenuta dopo qualche mese la revoca del mandato, precisamente in data 30.5.2002, è poi sorto il contenzioso con l’Amministrazione finanziaria sfociato, come già esposto, in una pluralità di pronunce di merito e di legittimità.
Passando adesso all’esame dei motivi di ricorso, col primo di essi l’avvocato T. denunzia preliminarmente “la violazione degli artt. 343,324 e 329 c.p.c. e art. 2909 c.c., anche per la carenza della legittimazione sostanziale e processuale ex lege n. 14 del 2009, del MEF in virtù della valenza panprocessuale dei relativi giudicati insorti”. Denunzia altresì “la violazione egli artt. 343,324 e 329 c.p.c., nonché dell’art. 2909 c.c., per omessa impugnazione della sentenza di primo grado e per l’insorgenza dei giudicati panprocessuali preclusivi delle domande del MEF ex lege n. 14 del 2009, rilevabili di ufficio”. Rileva in particolare che “l’omessa impugnazione della sentenza da parte del MEF ex art. 343 c.p.c., determinava il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado n. 351/11 e dei suoi seguenti giudicati sui giudicati” (validità della Convenzione del 19.9.2000; nullità della modifica del 18.3.2002; remunerabilità delle prestazioni alla percentuale intermedia della tariffa legale; non applicabilità della L. n. 14 del 2009, alla Convenzione ed ai suoi contenziosi perché I’E.N. c.c. non era parte processuale e perché non vi erano rapporti contrattuali tra l’E.N.C.C. e lo Studio. Rimprovera quindi alla Corte d’Appello di non essersi pronunziata su tale domanda in addizionale violazione dell’art. 112 nonché degli artt. 324 e 329 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c.. Chiede pertanto la cassazione senza rinvio per violazione degli artt. 112,110,1126 c.c. e art. 323 c.p.c., per addizionale carenza di legittimazione processuale del MEF ex lege n. 14 del 2009 e degli artt. 324 e 329 c.p.c. e art. 2909 c.c..
1.2 Col secondo motivo il ricorrente denunzia “la violazione degli artt. 112,105,167,183 e 268 c.p.c., in difetto di proposizione di domande ed azioni del MEF ex lege n. 14 del 2009, nel primo grado di giudizio, con inammissibilità delle accolte domande, rilevabile di ufficio”. Osserva che nel giudizio di primo grado il MEF non aveva neppure menzionato la L. n. 14 del 2009, decadendo così dalla possibilità di sostenere e di proporre in prosieguo le descritte azioni e domande: sorgeva pertanto l’obbligo per il giudice di secondo grado di dichiarare, anche per la tempestiva segnalazione dell’attuale ricorrente, la carenza di legittimazione processuale del MEF ex lege n. 14 del 2009. Rileva che la dichiarazione giudiziale della carenza di legittimazione del MEF ha valore di giudicato panprocessuale ed è diritto costituzionalmente garantito per il giusto processo.
1.3 Col terzo motivo si denunzia “violazione degli artt. 345 e 112 c.p.c., per novità delle domande/azioni del MEF ex lege n. 14 del 2009, con erroneità delle accolte domande, rilevabile di ufficio”, osservandosi che il richiamo alla L. n. 14 del 2009, operato dal MEF nel giudizio di secondo grado costituisce una domanda nuova in violazione dell’art. 345 c.p.c..
1.4 Col quarto motivo il ricorrente denunzia la “violazione dei giudicati panprocessuali insorti da 28 sentenze perché relativi alla medesima Convenzione di patrocinio del 19.9.2000 e come tali preclusivi delle avverse domande ed azioni per l’assunta legittimazione del MEF ex lege n. 14 del 2009, in ottemperanza ai principi di diritto enunciati dalla Corte di Cassazione adita con la sentenza n. 20629/2016 Rv. 642917”. Deduce quindi la valenza panprocessuale delle sentenze definitive n. 2465/06 e 614/09 perché relative al medesimo contratto di patrocinio 19.9.2000 e delle sentenze definitive a queste informate e dei relativi giudicati. Richiama poi, attraverso una lunga elencazione, decine di sentenze di merito.
1.5 Col quinto motivo si denunzia la violazione degli artt. 112,100 e 110 c.p.c., per omessa pronuncia sulla rinuncia del MEF alla propria legittimazione processuale: si rimprovera alla Corte d’Appello di non avere dichiarato la carenza di legittimazione processuale del Ministero, avendo lo stesso in secondo grado sollevato siffatta eccezione.
1.6 Col sesto motivo il ricorrente denunzia “violazione degli artt. 2230 e 2233 c.c., del D.M. n. 585 del 1994 e dell’art. 132 c.p.c., n. 4, per omessa remunerazione delle prestazioni per assunta mancata allegazione di prova ed illustrazione della loro consistenza e correttezza”, dolendosi del mancato riconoscimento di alcune voci (consultazioni con il cliente, corrispondenza informativa, ricerca documenti, esame della documentazione della controparte anteriormente alla sentenza e richiesta copie) a fronte della generica contestazione da parte del MEF.
1.7 Col settimo motivo, l’avvocato T. denunzia la violazione dell’art. “234” (così testualmente, ma trattasi di evidente errore materiale in fase di scritturazione, dovendosi intendere art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c. per “denegazione della valenza panprocessuale dei giudicati insorti in ordine al diritto dello Studio alla remunerazione delle azionate prestazioni”.
1.8 Con l’ottavo motivo si denunzia “violazione dell’art. 112 c.p.c., per pronuncia ultra petitum della gravata sentenza”. Afferma testualmente il ricorrente che “la sentenza è erronea innanzitutto per pronuncia ultra petitum in difetto contestazione generica del MEF, che nella propria comparsa di costituzione i primo grado 15.11.2006 si era limitato a chiedere la sospensione del giudizio in attesa della definizione del giudizio di appello dallo stesso proposto avverso la sentenza 2465/05”.
1.9 Con il nono motivo il ricorrente denunzia la violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 110 c.p.c. nonché art. 167 c.p.c., artt. 2697 e 2909 c.c., stante l’intervenuto giudicato panprocessuale sulla non contestazione dello svolgimento delle prestazioni da parte del Ministero. Cita al riguardo una pronuncia del Tribunale di Roma (859/11). Rimprovera poi alla Corte di non avere rilevato che il Ministero era decaduto dal proporre “tale nuova domanda”.
1.10 Con il decimo motivo il ricorrente denunzia violazione degli artt. 324 e 329 c.p.c., nonché dell’art. 2909 c.c., per denegata condanna del MEF ai danni per ritardato pagamento ex art. 1124 c.c., comma 1, stante l’intervenuto giudicato panprocessuale” (così testualmente, ma è chiaro che si tratta di mero errore materiale sulle norme codicistiche in sede di scritturazione). Richiama la sentenza 474/2011 del Tribunale di Roma.
1.11 Con l’undicesimo motivo, si deduce la violazione dell’art. 329 c.p.c. e art. 2909 c.c., per omessa pronuncia sui giudicati panprocessuali insorti in ordine al mancato perfezionamento della proposta transattiva del 2005 e riporta gli estremi (anno e numero) di una serie di pronunce.
1.12 Con il dodicesimo motivo ricorrente deduce violazione dell’art. 96 c.p.c., dolendosi della mancata condanna del Ministero “in solido con l’Avvocatura dello Stato” per lite temeraria.
1.13 Col tredicesimo motivo, infine, denunzia una ulteriore violazione della L. n. 14 del 2009, da parte del MEF ed erroneità delle relative domande per le preclusioni comminate da detta norma. A dire del ricorrente il subentro al MEF della Fintecna o “di società da essa interamente controllata” nelle controversie relative alla Convenzione era irreversibilmente precluso perché: 1) perché l’E.N.C.C. non era parte processuale; inoltre 2) non vi erano rapporti contrattuali tra l’E.N.C.C. e lo Studio.
2 Il primo, secondo, terzo, quinto e tredicesimo motivo sono inammissibili per difetto di interesse.
Ed infatti, essendo stata integralmente confermata la sentenza di primo grado e quindi la condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze (cioè proprio dell’organo convenuto in giudizio dall’odierno ricorrente), ed essendo stata altresì confermata la applicabilità dei valori “medi” della tariffa professionale di cui al D.M. n. 585 del 1994 e l’inapplicabilità della convenzione del 2002, non si comprende quale sia l’interesse del ricorrente a rimettere ancora in discussione tali questioni, anche perché dalla sentenza impugnata non risulta affatto che sia stata riconosciuta una limitazione di responsabilità del Ministero ai sensi della L. n. 14 del 2009: anzi, a ben vedere, risulta proprio il contrario, perché la Corte d’Appello ha escluso a chiare lettere la limitazione di responsabilità del Ministero (cfr. sentenza impugnata pag. 17). Superfluo è quindi il richiamo alla Ordinanza n. 14083 del 2019 di questa Corte, visto che i giudici di merito nel caso in esame hanno applicato i valori medi della tariffa.
3 I motivi quarto, settimo, nono, decimo e undicesimo, suscettibili di esame unitario per il comune riferimento alla violazione del giudicato esterno anch’essi sono inammissibili, ma per una diversa ragione.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, affinché il giudicato esterno possa fare stato nel processo è necessaria la certezza della sua formazione, che deve essere provata, pur in assenza di contestazioni, attraverso la produzione della sentenza munita del relativo attestato di cancelleria” (tra le tante, v. Sez. 3, Ordinanza n. 26310 del 2021 non massimata; v. altresì Sez. 3, ord. 23 agosto 2018, n. 20974, Rv. 650322-01; Sez. L, Ordinanza n. 28515 del 29/11/2017 Rv. 646363), ciò che nella specie non risulta essere avvenuto: il ricorso si limita infatti ad una alluvionale elencazione e commistione di sentenze di Tribunale e Corte d’Appello, senza però neppure allegare l’avvenuto rilascio della apposita certificazione di cancelleria.
E’ vero che talvolta, per dimostrare il passaggio in giudicato di una sentenza, si prescinde dalla relativa attestazione, ma si tratta del caso – qui non ricorrente – di giudicato esterno formatosi a seguito di una sentenza della Corte di cassazione (cfr. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 16589 del 11/06/2021 Rv. 661485). Nel caso in esame, l’ordinanza Sez. 2, n. 14083 del 23/05/2019 Rv. 654181 (menzionata nella nota di deposito) non giova al ricorrente, avendo respinto il suo ricorso e comunque condiviso la correttezza del riconoscimento al ricorrente delle somme risultanti dall’applicazione dei valori tariffari medi, concretamente ritenuti congrui con riferimento alle attività svolte nei singoli giudizi nei quali egli aveva esercitato il patrocinio.
Solo per completezza è il caso di aggiungere – ed il rilievo tronca definitivamente ogni ulteriore discussione sull’argomento – che nel giudizio di cassazione il principio della rilevabilità del giudicato esterno deve essere coordinato con l’onere del rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, per cui la parte ricorrente che deduca il suddetto giudicato deve, a pena di inammissibilità, riprodurre nel ricorso il testo integrale della sentenza che assume essere passata in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il richiamo a stralci della motivazione o ad un riassunto sintetico della stessa (Sez. L, Ordinanza n. 12496 del 2020 non massimata; v. altresì Cass. 18 novembre 2019, n. 29881; Cass. 31 ottobre 2019, n. 28182; Cass. 30838/18; Cass. 31 maggio 2018, n. 13988; Cass. 23 giugno 2017, n. 15737; Cass. 11 febbraio 2015, n. 2617; Cass. SU 27 gennaio 2004 n. 1416); e ancora, il rilievo pubblicistico del giudicato comporta altresì che l’onere di allegazione del ricorrente sia completo e non resti affidato alla deduzione di frammentarie proposizioni della sentenza che, come tali, non consentono ai giudici di legittimità di trarre dal primo il significato oggettivo della regola o del comando di cui il provvedimento è portatore (Sez. L, Ordinanza n. 12496/2020 cit.; Cass. SU, 9 maggio 2008, n. 11501).
Dalla lettura del ricorso non risulta l’osservanza di tali regole ed anzi, a volte si sostiene la formazione di un giudicato sol perché la sentenza, benché soggetta ad impugnazione ancora pendente, non sarebbe stata impugnata in alcune parti (neppure chiaramente indicate).
Quanto al settimo motivo, va rilevata l’inammissibilità anche per l’ulteriore rilievo che il ricorrente, in difetto dell’onere di specificità non riporta nel motivo in esame l’espressa richiesta” né fornisce adeguate informazioni sul dove e quando l’abbia avanzata (cfr. pag. 40). Il motivo, quindi, sotto tale ulteriore profilo, non rispetta lo standard di specificità richiesto dall’art. 366 c.p.c..
Anche il decimo motivo si connota altresì per difetto di specificità perché esso non precisa in quale passaggio della sentenza impugnata si faccia riferimento ad una transazione del 2005.
4 Restano a questo punto da esaminare il sesto e ottavo motivo, che seguono la sorte dei precedenti.
Prendendo le mosse dal sesto motivo, occorre ribadire che in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e’, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (cfr. tra le varie, Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019 Rv. 652549; Sez. 1, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017 Rv. 645538).
Nel caso in esame si è chiaramente fuori dal vizio denunziato perché la censura, a ben vedere, si limita a criticare la valutazione del giudice di merito sulla prova dell’avvenuta esecuzione di alcune prestazioni che, invece, la Corte d’Appello, nell’esaminare i vari motivi di gravame, ha escluso rilevando non solo l’inefficacia del giudicato esterno, ma anche la mancanza di prova (nel giudizio di primo grado) dell’esecuzione delle prestazioni, prova incombente sul professionista in base ai principi generali, in presenza di contestazioni del Ministero (v. pag. 12 sentenza).
A fronte di tale percorso argomentativo, del tutto plausibile, il ricorso si limita, in violazione dell’onere di specificità dei motivi imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6) a richiamare genericamente le parcelle e l’atto di appello contenuto nel fascicolo di secondo grado.
Quanto all’ottavo motivo (che denunzia il vizio di ultrapetizione), se ne rileva ugualmente l’inammissibilità.
Il potere-dovere del giudice di inquadrare nella esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti che formano oggetto della contestazione incontra il limite del rispetto del “petitum” e della “causa petendi”, sostanziandosi nel divieto di introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, sicché il vizio di “ultra” o “extra” petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (“petitum” o “causa petendi”), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (c.d. “petitum immediato”) oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (c.d. “petitum mediato”), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (v. Sez. 2, Sentenza n. 8048 del 21/03/2019 Rv. 653291; Sez. 1, Sentenza n. 9002 del 11/04/2018 Rv. 648147; Sez. 3, Sentenza n. 18868 del 24/09/2015 Rv. 636968).
Nel caso in esame, la scarna censura (pochi righi) si riduce ad una mera critica sull’apprezzamento del giudice di merito in ordine alla linea difensiva adottata dal convenuto (contestazione dell’avversa pretesa).
Il ricorso principale va dunque dichiarato inammissibile, restando così logicamente assorbita la questione (posta col dodicesimo motivo di ricorso) della applicazione dell’art. 96 c.p.c..
5 Resta altresì assorbito il ricorso incidentale del Ministero con cui si denunzia la “violazione e falsa applicazione del D.L. 30 dicembre 2008, n. 207, art. 41, convertito con modificazioni dalla L. 27 febbraio 2009, n. 14, nonché dell’art. 11 preleggi”.
Trattasi infatti, a ben vedere di una impugnazione incidentale condizionata: come lo stesso Ministero riporta a pagg. 23 e 24 del controricorso, la questione della limitazione di responsabilità del Ministero nei limiti dell’attivo della liquidazione era stata posta nel giudizio di appello “esclusivamente in via gradata (in caso di accoglimento dell’appello avversario)”. Si tratta – prosegue il ricorrente incidentale – di una deduzione difensiva che il Ministero ha inteso far valere “soltanto in caso di accoglimento dell’avverso gravame. Quest’ultima circostanza però non si è verificata poiché l’appello dell’avv. T. è stato rigettato”.
Ed anche nel presente giudizio l’impugnazione del Ministero è da ritenersi condizionata, come si evince chiaramente dalla locuzione “ove occorra” inserita nelle conclusioni a pag. 27.
L’esito del giudizio comporta inevitabilmente l’addebito delle spese alla parte soccombente.
Va accolta la richiesta di cancellazione di espressioni offensive contenute nella memoria del ricorrente depositata davanti a questa Corte di legittimità ex art. 378 c.p.c., richiesta avanzata in pubblica udienza dall’Avvocato dello Stato difensore del Ministero.
Si legge infatti a pag. 2 del predetto scritto difensivo, con riferimento ad un’ordinanza della Corte d’Appello di Roma (la n. 3613/2020) depositata in prossimità dell’udienza dal ricorrente, che detta ordinanza evidenziava “la dolosa falsità delle contraddittorie e non vere argomentazioni svolte di concerto dalla Ligustra/Fintecna e dal MEF/avv. Marrone”. L’avere definito le argomentazioni difensive di un Avvocato dello Stato nominativamente individuato (ma il discorso vale ovviamente anche per un Avvocato del libero foro) come “false e dolose” integra l’ipotesi di cui all’art. 89 c.p.c., perché la frase denota unicamente un passionale e scomposto intento dispregiativo, assolutamente sproporzionato rispetto al legittimo diritto di manifestare il netto dissenso dalle argomentazioni avversarie e tale, quindi, da oltrepassare i limiti del diritto di difesa.
Va ordinata, pertanto, la cancellazione della suddetta frase.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
PQM
la Corte dichiara inammissibile il ricorso principale e assorbito l’incidentale; condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 2.500,00 oltre spese prenotate a debito.
Ordina ai sensi dell’art. 89 c.p.c., la cancellazione dell’espressione offensiva indicata in motivazione. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2022
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