LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi – Presidente –
Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 16961/2017 proposto da:
T.S., elettivamente domiciliato in ROMA, P.LE DELLE BELLE ARTI, 3 SC. A, presso lo studio dell’avvocato MANUELA TRALDI, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3559/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 04/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/12/2021 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso; uditi gli Avvocati MANUELA TRALDI e T.S. (per delega dell’avvocato MICHELE GIUSEPPE VIETTI), nonché l’avvocato dello Stato PIO GIOVANNI MARRONE.
FATTI DI CAUSA
1. L’avvocato T.S. adì il Tribunale di Roma, esponendo di aver ricevuto incarico dall’Ispettorato Generale per la liquidazione degli Enti Disciolti del Ministero del Tesoro, ora Ministero dell’Economia e delle Finanze, al fine di svolgere attività di difesa in favore del disciolto Ente Nazionale per la Cellulosa e la Carta. A sostegno della sua domanda di corresponsione dei compensi professionali, l’avvocato T. evidenziò di aver stipulato una convenzione in data 19 settembre 2000 per la gestione di oltre quattrocento contenziosi coinvolgenti l’Ente Nazionale per la Cellulosa e la Carta e le sue controllate SAF s.p.a., SIVA s.p.a., Nuramare s.p.a. e RESS s.r.l., convenzione con cui le parti avevano stabilito un compenso in favore del legale pari agli onorari massimi previsti dalla tariffa per le cause di particolare complessità, agli onorari medi per quelle importanti e complesse e agli onorari compresi tra il minimo ed il massimo per quelle ordinaria complessità. Tali condizioni erano state di seguito rinegoziate con la successiva convenzione di “modifica” del 18 marzo 2002, stabilendo l’applicazione degli onorari minimi, salvo che per le liti conclusesi favorevolmente per l’ente, senza nulla prevedere per l’ipotesi di revoca del mandato. La revoca era poi intervenuta ad opera del Ministero dell’economia e delle finanze in data 30 maggio 2002. In applicazione della Convenzione del 19 settembre 2000, l’avvocato T. aveva domandato la liquidazione dei propri compensi secondo i criteri intermedi del D.M. n. 585 del 1994, per sei parcelle del complessivo importo di Euro 51.110,46, con detrazione dell’importo percepito di Euro 12.695, 37 ed il Tribunale di Roma respinse la domanda. La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 3559/2016, depositata il 4 giugno 2016, ha rigettato il gravame avanzato da T.S., affermando, tra l’altro, che non sussisteva alcun giudicato esterno sulla liquidazione delle parcelle dedotte in lite (diversi essendo petitum e causae petendi delle controversie oggetto di precedenti decisioni del Tribunale di Roma); che non vi fosse impugnazione sul valore di giudicato riconosciuto dal Tribunale alla sentenza n. 2465/2005 quanto all’esistenza del contratto di patrocinio e la inapplicabilità della convenzione del 18 marzo 2002 sulla liquidazione al minimo, sicché dovevano determinarsi i compensi alla stregua dei valori medi di cui al D.M. n. 585 del 1994; che incombeva sull’avvocato l’onere di dar prova delle attività effettivamente svolte.
Il ricorso di T.S., dopo avere narrato da pagina 1 a pagina 11 le vicende preprocessuali del contratto di patrocinio concluso il 19 settembre 2000 ed i molteplici giudicati esterni inter partes che si invocano, e dopo aver esposto da pagina 11 a pagina 34 cosa avvenne durante il primo grado di giudizio, sempre alla luce di tanti giudicati sopravvenienti, e poi ancora da pagina 34 a pagina 39 cosa avvenne durante il giudizio di appello, propone, da pagina 39 a pagina 49, sedici motivi di censura.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze resiste con controricorso.
Il ricorso è stato deciso procedendo nelle forme di cui al D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, con richiesta di discussione orale. Il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE Alessandro, ha depositato memoria, chiedendo che il ricorso sia respinto. Anche le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
RAGIONE DELLA DECISIONE Non sussistono le ragioni che possano indurre alla riunione del presente giudizio di cassazione con quelli che si individuano nella istanza del ricorrente, aventi ad oggetto distinte sentenze e che pongono questioni solo in parti connesse, attese le esigenze, sottese all’art. 274 c.p.c., di garantire l’economia e la ragionevole durata dei giudizi.
1.I motivi dal primo a nono sono tutti relativi alla “inammissibilità della domanda del MEF di applicabilità della L. n. 14 del 2009, alla Convenzione 19.9.2000”, e così denunciano molteplici violazioni degli artt. 110,112,75,105,167,183,268,325,329,343,345 c.p.c., art. 2909 c.c.. Le censure assumono il difetto di legittimazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze in conseguenza della L. n. 14 del 2009, ed invocano la “valenza panprocessuale” di infiniti giudicati esterni sul ruolo processuale da attribuire alla società Ligestra o all’E.N.C.C., sul contratto di patrocinio vigente tra le parti, sulla nullità della modifica, riferendosi anche a sentenze di primo grado per i capi non appellati.
1.1. Questi primi nove motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente in quanto connessi, sono inammissibili giacché del tutto privi di specifica riferibilità (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4) alla ratio decidendi della sentenza impugnata, nel cui percorso logico non rivestono alcun ruolo le vicende di cui alla gestione liquidatoria del soppresso Ente Nazionale per la Cellulosa e la Carta, né quindi l’incidenza delle stesse sulle convenzioni stipulate dal T. col Ministero nel 2000 e nel 2002, ovvero gli effetti dell’assunzione delle vesti di soggetto incaricato della liquidazione in capo alla società Ligestra Due a seguito di decreto ministeriale dell’li novembre 2009.
La Corte d’appello di Roma ha negato che vi fosse un giudicato esterno sulla liquidazione delle parcelle dedotte in lite; ha tuttavia definito sottratto alla propria cognizione, per quanto devolutole coi motivi di gravame, il valore di giudicato riconosciuto dal Tribunale alla sentenza n. 2465/2005 circa l’esistenza del contratto di patrocinio e l’inapplicabilità della convenzione del 18 marzo 2002 sulla liquidazione al minimo, con conseguente determinazione dei compensi oggetto di questa specifica lite (avente ad oggetto le sei parcelle del complessivo importo di Euro 51.110,46, con acconto percepito di Euro 12.695, 37) alla stregua dei valori medi di cui al D.M. n. 585 del 1994. Sono poi comunque inammissibili, alla luce dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, le censure di violazione dei molteplici giudicati esterni formulate dal ricorrente. Trattandosi di giudicati che si assumono formatisi antecedentemente alla sentenza qui impugnata, essi potrebbero dar luogo ad un vizio denunciabile per cassazione ex art. 360 c.p.c. (ciò che il ricorrente fa ipotizzando un error in procedendo per omessa pronuncia) solo specificando di aver all’uopo proposto una apposita eccezione di giudicato esterno davanti alla Corte d’appello, eccezione rimasta poi trascurata dai giudici di merito. Al contrario, l’omesso rilievo d’ufficio del giudicato esterno nel giudizio che ha pronunciato la sentenza impugnata dà luogo all’ipotesi di revocazione prevista dall’art. 395 c.p.c., n. 5, dovendosi intendere l’inciso esistente in tale disposizione “purché la sentenza non abbia pronunciato sulla relativa eccezione” nel senso, appunto, che si versa nell’ambito della revocazione se si siano verificati l’omessa proposizione dell’eccezione o l’omesso rilievo d’ufficio del giudicato stesso (cfr. Cass. Sez. Unite, 20 ottobre 2010, n. 21493; Cass. Sez. 1, 14 marzo 1996, n. 2131).
Perché sia poi ammissibilmente denunciato per cassazione ex art. 360 c.p.c., la violazione di un giudicato esterno perpetrato dalla sentenza impugnata, occorre altresì che il ricorrente indichi quale affermazione contenuta nella decisione da cassare si ponga in contrasto con la portata della pregressa res iudicata, non potendosi devolvere alla Suprema Corte di riesaminare officiosamente ogni statuizione contenuta nella prima in rapporto ad ogni statuizione contenuta nella seconda. L’ormai conclamata assimilazione del giudicato agli “elementi normativi” e la conseguente sindacabilità sotto il profilo della violazione di legge della sentenza che con esso contrasti non esonerano il ricorrente per cassazione dall’osservanza di quei canoni di specificità del motivo che si esigono comunque per ogni deduzione di violazione o falsa applicazione della legge, in quanto giudizio sul fatto contemplato dalle norme di diritto positivo applicabili al caso specifico.
Le censure trascurano, inoltre, che il giudicato cosiddetto esterno ha connotazioni che lo differenziano nettamente da quello cosiddetto interno, ossia formatosi nell’ambito di un determinato procedimento ancora pendente, ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2, in relazione alle parti non impugnate della sentenza, poiché, mentre il giudicato esterno è rilevabile anche di ufficio e la stessa Corte di cassazione ha il potere di verificarne se ne sussistono i presupposti di fatto, per il giudicato interno ogni accertamento compete esclusivamente al giudice del merito (Cass. Sez. 2, 30/03/1987, n. 3040; Cass. Sez. 3, 21/05/1996, n. 4676). Da ciò deriva altresì la inammissibilità, agli effetti dell’art. 372 c.p.c., delle produzioni delle sentenze sprovviste del certificato di passaggio in giudicato ex art. 124 disp. att. c.p.c..
In ogni caso, per le questioni collegate alla L. 27 febbraio 2009, n. 14, basta qui considerare che, a seguito della soppressione e liquidazione dell’Ente nazionale per la cellulosa e per la carta (E.N.C.C.), con decreto del Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica del 4 maggio 2000 venne avocato all’Ispettorato generale per la liquidazione degli enti disciolti il compito di procedere alle residue operazioni. Tale Ispettorato concluse con l’avvocato T. le due convenzioni del 2000 e del 2002. Il D.L. 15 aprile 2002, n. 63, art. 9, comma 1-bis, aggiunto dalla Legge di Conversione 15 giugno 2002, n. 112, stabilì la definitiva soppressione degli enti pubblici di cui alla L. 4 dicembre 1956, n. 1404, e, conseguentemente, alla lettera c), che “ferma restando la titolarità, in capo al Ministero dell’economia e delle finanze, dei rapporti giuridici attivi e passivi, la gestione della liquidazione nonché del contenzioso può essere da questo affidata ad una società, direttamente o indirettamente controllata dallo Stato, scelta in deroga alle norme di contabilità generale dello Stato”. Tale società con D.M. 27 settembre 2004 venne individuata in Fintecna S.p.a. E’ poi intervenuto del D.L. 30 dicembre 2008, n. 207, art. 41, comma 16 octies, convertito dalla L. 27 febbraio 2009, n. 14, secondo cui: “(a)llo scopo di accelerare e razionalizzare la prosecuzione delle liquidazioni dell’Ente Nazionale per la Cellulosa e per la Carta (E.N.C.C.), della LAM.FOR. s.r.l. e del Consorzio del Canale Milano Cremona Po, la società Fintecna o società da essa interamente controllata ne assume le funzioni di liquidatore. Per queste liquidazioni lo Stato, ai sensi del D.L. 15 aprile 2002, n. 63, art. 9, comma 1-ter, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 giugno 2002, n. 112, risponde delle passività nei limiti dell’attivo della singola liquidazione. Al termine delle operazioni di liquidazione, il saldo finale, se positivo, viene versato al bilancio dello Stato. Il Ministero dell’economia e delle finanze, con apposito decreto, determina il compenso spettante alla società liquidatrice, a valere sulle risorse della liquidazione”.
Infine, con D.M. 11 novembre 2009, la società soggetto liquidatore ai sensi della richiamata normativa è stata individuata nella “Ligestra Due S.r.l..
Da tale quadro legislativo è evidente che il Ministero dell’Economia e delle finanze è rimasto nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi dell’ente disciolto, ne ha affidato la gestione della liquidazione ad una società controllata dallo Stato e risponde delle passività nei limiti dell’attivo della liquidazione, ove si tratti di debiti già contratti dal medesimo Ente Nazionale per la Cellulosa e per la Carta.
Quanto alla responsabilità nei limiti dell’attivo, fondata sull’art. 41, comma 16 octies, cit. e sull’art. 9, comma 1-ter, cit., essa vale ai fini della successione dello Stato nelle posizioni debitorie già facenti capo al soppresso Ente nazionale per la cellulosa e per la carta, successione che la legge vuole limitata ai soli beni che residuino alla procedura di liquidazione, con la conseguenza che il Ministero dell’Economia e delle finanze assume soltanto nei limiti dell’attivo la responsabilità patrimoniale per le obbligazioni contratte dall’ente estinto, già risultanti all’atto della liquidazione.
Il mutamento del soggetto passivo delle obbligazioni pregresse contratte dall’Ente Nazionale per la Cellulosa e per la Carta, disposto per legge, e la previsione che lo Stato ne risponda nei limiti dell’attivo della liquidazione, rimangono così comunque giustificati dal ragionevole rischio di insufficienza del patrimonio dell’ente disciolto a soddisfare i creditori, attraverso la realizzazione del principio di concorsualità. La descritta disciplina normativa non può, invece, interpretarsi nel senso che essa estenda ai debiti già contratti direttamente da organi statali una limitazione di responsabilità che renda incerta per i creditori la piena realizzazione dei loro diritti, avendo questi stipulato col Ministero nel convincimento di essere esclusi dalla procedura liquidatoria facente capo all’Ente Nazionale per la Cellulosa e per la Carta.
Non vi è perciò motivo di dubitare della legittimazione passiva del Ministero o di invocare tale limite di responsabilità con riferimento a rapporti giuridici obbligatori che non facevano capo all’ente soppresso, quali quelli derivanti dalle convenzioni di patrocinio stipulate nel 2000 e nel 2002 tra l’avvocato T. e l’Ispettorato generale per gli affari e per la gestione del patrimonio degli enti disciolti (ufficio quest’ultimo compreso dapprima nel Ministero del Tesoro e poi nel Ministero dell’economia e delle finanze, quale struttura della Ragioneria generale dello Stato, poi trasformato a seguito del D.L. n. 63 del 2002, e delle leggi, L. n. 311 del 2004, L. n. 266 del 2005 e L. n. 296 del 2006, col subentro della società FINTECNA, ed infine soppresso con la legge finanziaria per il 2007).
Ai fini di individuare il soggetto obbligato a corrispondere il compenso professionale al difensore, occorre aver riguardo al rapporto che si instaura tra il professionista incaricato ed il soggetto che ha conferito l’incarico. La questione della legittimazione passiva del Ministero, per aver esso dato l’incarico di patrocinio all’avvocato T., è peraltro coperta dal giudicato formatosi nell’ordinanza n. 14083/2019 di questa Corte.
Sussiste quindi, la legittimazione sostanziale e processuale del Ministero dell’economia e delle finanze per le posizioni debitorie, ed i correlati oneri economici, relativi a compensi per prestazioni professionali, facenti capo non all’ente soppresso ma direttamente alla gestione liquidatoria e contratti nell’ambito di attività espletata in qualità di organo dell’amministrazione statale, mediante struttura costituita dallo stesso Ministero.
Il riconoscimento di una legittimazione alternativa del soggetto cui è affidata la gestione della liquidazione e del contenzioso può rispondere soltanto a criteri amministrativo – contabili, intesi ad assicurare la distinzione delle passività già gravanti sugli enti soppressi rispetto alla corrente gestione economica.
2. I motivi dal decimo al sedicesimo di ricorso sono contenuti nelle pagine da 45 a 49 e recano la comune intitolazione della violazione dell’art. 167 c.p.c., artt. 2697 e 2909 c.c.. Si richiamano, al solito, svariati insorti “giudicati panprocessali”, ritraibili da sentenze di primo grado citate con numero ed anno, circa prestazioni professionali espletate (ad esempio ad “atto d’intervento”, corrispondenza informativa con il cliente”, “ricerca documenti”), si censura anche la violazione della L. n. 42 del 1974, art. 6, art. 10 c.p.c. e “n. 6 della tariffa” per “l’esatto valore della parcella n. *****”, richiamando motivi dell’atto di appello, si lamenta la violazione degli artt. 112,324 c.p.c., e del diritto ad un giusto processo, per l’omessa pronuncia sul maggior danno “insorto per omessa impugnazione della sentenza 474/11”, passata in giudicato per tardiva notifica agli appellati, si deduce la violazione degli artt. 2230,2232,2233 c.c. e D.M. n. 585 del 1994, chiedendosi la condanna del Ministero al pagamento dei residui Euro 38.415,09, e si chiude con la richiesta di acquisire anche d’ufficio ed in cassazione “giudicati panprocessuali ex art. 329 c.p.c. e art. 2909”.
2.1 I motivi dal decimo al sedicesimo di ricorso sono inammissibili sia per carenza di specifica riferibilità (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4) alla ratio decidendi della sentenza impugnata sia perché non superano lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1.
La Corte d’appello di Roma ha affermato, tra l’altro: che i motivi di appello fossero generici, non specificando le attività di difesa, ritenute pacifiche, non riconosciute dal Tribunale; che bastasse anche una contestazione generica del cliente per onerare l’avvocato della prova delle prestazioni di cui reclami il compenso; che le attività provate erano congruamente retribuite dagli importi corrisposti dal Ministero; che il valore della causa di cui alla parcella ***** era stato desunto dalla sentenza ad essa relativa, in difetto di ulteriori allegazioni, ed in particolare della domanda; che il Tribunale aveva comunque applicato i compensi medi; che non vi era prova del credito per maggior danno ex art. 1224 c.p.c., comma 2.
La sentenza della Corte di Roma sul punto si è uniformata al costante orientamento giurisprudenziale, secondo cui, nel giudizio di cognizione avente ad oggetto il pagamento di prestazioni professionali di un avvocato, ogni contestazione, anche soltanto generica, in ordine all’espletamento ed alla consistenza dell’attività che si assuma svolta, è idonea e sufficiente ad investire il giudice del potere-dovere di verificare il quantum debeatur, costituendo la parcella una semplice dichiarazione unilaterale del professionista, sul quale perciò rimangono i relativi oneri probatori del credito azionato ex art. 2697 c.c. (Cass. Sez. 2, 11/01/2016, n. 230; Cass. Sez. 2, 30/07/2004, n. 14556; Cass. Sez. 2, 25/06/2003, n. 10150). D’altro canto, è vero che, seppur non operi nel presente giudizio, ratione temporis, la modifica dell’art. 115 c.p.c., comma 1 (nel senso che i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita devono essere posti dal giudice a fondamento della sua decisione), introdotta dalla L. n. 69 del 2009, l’onere di specifica contestazione era già presente nell’art. 167 c.p.c., per i giudizi instaurati dopo l’entrata in vigore della L. n. 353 del 1990. Tuttavia, perché un fatto possa dirsi non contestato dal convenuto, e perciò non richiedente una specifica dimostrazione, occorre o che lo stesso fatto sia da quello esplicitamente ammesso, o che il convenuto abbia improntato la sua difesa su circostanze o argomentazioni incompatibili col disconoscimento di quel fatto. La non contestazione scaturisce, pertanto, dalla non negazione del fatto costitutivo della domanda, di talché essa non può comunque ravvisarsi ove, a fronte di una pretesa creditoria fondata sullo svolgimento di una complessa prestazione giudiziale di avvocato, il cliente abbia comunque definito incongruo il compenso richiesto rispetto all’attività svolta (cfr. Cass. Sez. 3, 24/11/2010, n. 23816; Cass. Sez. 3, 19/08/2009, n. 18399; Cass. Sez. 3, 25/05/2007, n. 12231; Cass. Sez. L, 03/05/2007, n. 10182; Cass. Sez. 3, 14/03/2006, n. 5488).
Il ricorrente ascrive alla Corte d’appello di non avere tenuto conto di plurime circostanze di fatto attinenti alle attività difensive svolte, che assume essere state “non contestate” dal Ministero convenuto, ma non specifica in quale atto difensivo ed in quale modo esse erano state date per pacifiche.
Se, del resto, spetta all’avvocato, il quale assuma di essere creditore per attività professionale prestata a favore del cliente, l’onere di dimostrare non solo che l’opera è stata posta in essere, ma anche l’entità delle prestazioni, al fine di consentire la determinazione quantitativa del suo compenso, compete poi al giudice di merito valutare se, nel caso concreto, questa prova possa o meno ritenersi fornita, sottraendosi il risultato del relativo accertamento al sindacato di legittimità, se non nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, il quale ormai contempla il solo omesso esame di un fatto storico, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe certamente determinato un esito diverso della controversia) (Cass. Sez. U., 07/04/2014, n. 8053).
Quanto al resto, i motivi in esame si riducono ad una generica critica secondo la quale l’esigibilità dei compensi per le attività dedotte nelle parcelle non presupponeva necessariamente la documentazione e, comunque, la prova non equivoca dell’effettività delle prestazioni professionali, la quale poteva farsi induttivamente derivare dalla sola esistenza del rapporto di clientela, questo implicando indefettibilmente le singole attività allegate.
Anche la censura sul diminuito valore monetario dei crediti professionali è inammissibile, sia perché invoca l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., su domanda che invece è stata decisa dalla sentenza impugnata, sia ex art. 360-bis c.p.c., comma 1. Deve ribadirsi la consolidata interpretazione secondo cui il credito dell’avvocato per il pagamento dei compensi professionali costituisce un credito di valuta (né si trasforma in credito “di valore” per effetto dell’inadempimento del cliente), restando in quanto tale soggetto al principio nominalistico. La rivalutazione monetaria del credito dell’avvocato non può, perciò, essere automaticamente riconosciuta, dovendo essere adeguatamente dimostrato il pregiudizio patrimoniale risentito causa del ritardato pagamento del credito, senza che possa trovare applicazione la disciplina dell’art. 429 c.p.c.. Dalla mora conseguente all’inadempimento del cliente discende, quindi, la corresponsione degli interessi nella misura legale, indipendentemente da ogni prova del pregiudizio subito, salvo che l’avvocato creditore dimostri il maggior danno ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, il quale, può, peraltro, ritenersi esistente in via presuntiva, sempre che il medesimo creditore alleghi che, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali (Cass. Sez. 2, 26/02/2002, n. 2823; Cass. Sez. 2, 15/02/1999, n. 1266; Cass. Sez. 2, 24/09/2014, n. 20131; Cass. Sez. 2, 22/06/2004, n. 11594; Cass. Sez. 2, 15/07/2003, n. 11031; Cass. Sez. U., 16/07/2008, n. 19499).
A fronte della dichiarazione di inammissibilità di più motivi di gravame per difetto di specificità ad opera della Corte d’appello di Roma, il ricorrente per cassazione non ha adempiuto l’onere di impugnare la relativa statuizione con la denuncia di error in procedendo per violazione dell’art. 342 c.p.c., il che comporta il passaggio in giudicato della pronuncia di inammissibilità e priva la medesima parte dell’interesse a far valere in sede di legittimità l’erroneità del mancato accoglimento nel merito delle proprie domande.
L’onere della indicazione specifica dei motivi di ricorso, imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, neppure può dirsi adempiuto “per relationem” con il generico rinvio ai motivi dell’atto di appello portati contro la sentenza di primo grado. Quanto alla violazione dei “giudicati panprocessuali” ex artt. 324 e 329 c.p.c., art. 2909 c.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, permane l’inammissibilità per inosservanza dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, già motivata nel p. 1.1.
La violazione del D.M. n. 585 del 1994 e dell’art. 2223 c.c., non è stata dedotta dal ricorrente con riferimento alle singole voci ed agli importi considerati, e tale difetto di specificità mina l’ammissibilità della censura sull’ipotizzato vizio di error in iudìcando. Spetta, peraltro, comunque all’attore, negli speciali procedimenti per la liquidazione dei compensi di avvocato, dar prova dell’effettivo valore della causa nella quale è stata prestata l’opera professionale.
6. Il ricorso in esame va perciò dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio di cassazione vengono regolate secondo soccombenza in favore del controricorrente nell’importo liquidato in dispositivo.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 2 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2022
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