Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.4006 del 08/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14110/2017 R.G. proposto da:

B.L., rappresentato e difeso, anche. disgiuntamente, dagli Avv.ti FRANCESCO SCIAUDONE, e DAVIDE GIORGIO CONTINI, e nello studio di quest’ultimo elettivamente domiciliato in Roma, via Pinciana, n. 25;

– ricorrente –

contro

BANCA D’ITALIA, rappresentata e difesa dalle Avv.sse FLAVIA SFORZA, E PAOLA BATTISTINI, dell’Avvocatura della Banca stessa, con domicilio eletto presso le medesime in Roma, via Nazionale, n. 91;

– controricorrente –

avverso il decreto della Corte di appello di Roma n. 9991/16 depositato il 28/11/2016.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21/07/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO.

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Il sig. D.B.L., già direttore generale della Banca Popolare di Cividale s.c.p.a., ha proposto ricorso, sulla scorta di tre motivi, per la cassazione del decreto con cui la Corte d’appello di Roma ha rigettato l’opposizione ex art. 145 T.U.B. (D.Lgs. n. 385 del 1993) da lui proposta avverso il provvedimento sanzionatorio adottato nei suoi confronti dalla Banca d’Italia con la Delib. n. 374 del 2014 del 15 luglio 2014.

2. Con la suddetta delibera la Banca d’Italia aveva inflitto al D.B., in relazione all’attività da lui svolta come direttore generale della Banca Popolare di Cividale s.c.p.a., la sanzione pecuniaria di Euro 25.000 per carenze nell’organizzazione e nei controlli interni, con particolare riferimento al processo del credito, in base all’art. 53, comma 1, lett. b) e d) e art. 67, comma 1, lett. b) e d) T.U.B..

3. La corte capitolina ha preliminarmente rigettato la doglianza con cui l’opponente si era lamentato – deducendo la violazione del proprio diritto di difesa – di non aver ricevuto risposta alla propria domanda di accesso agli atti del procedimento. Tale doglianza, secondo la corte territoriale, era infondata sotto un duplice profilo. In primo luogo, perché la Banca d’Italia aveva accolto la suddetta istanza di accesso agli atti e aveva comunicato all’interessato tale accoglimento mediante lettera raccomandata, il cui mancato ricevimento non poteva esserle addebitato. In secondo luogo, perché, in ogni caso, le irregolarità riscontrate nel corso degli accertamenti ispettivi erano state integralmente descritte nelle note contestative, sì da consentire al ricorrente di esercitare compiutamente le proprie difese, né sussistevano “ulteriori documenti, atti o comunicazioni diverse del rapporto ispettivo”; cosicché il D.B. “ben avrebbe potuto esercitare compiutamente le proprie difese, che non erano inderogabilmente condizionate all’accesso agli atti” (pag. 3, secondo capoverso, del decreto).

4. Nel merito, la Corte d’appello di Roma ha rigettato il motivo di opposizione concernente la dedotta mancanza dell’elemento soggettivo dell’illecito, disattendendo le argomentazioni dell’opponente centrate sul rilievo che le violazioni accertate dall’Organo di vigilanza si riferivano non alla società capogruppo, presso la quale il D.B. rivestiva la qualità di direttore generale, bensì alla società operativa del gruppo, la Banca di Cividale s.p.a..

5. Da ultimo, la corte territoriale ha escluso che il fatto che il D.B. fosse stato già precedentemente sanzionato dalla Banca d’Italia, con provvedimento del 31.8.2010, per la medesime condotte omissive oggetto del provvedimento sanzionatorio impugnato in questo giudizio integrasse violazione del principio del ne bis in idem, osservando che la seconda sanzione trovava causa nella persistenza della condotta omissiva, ossia nella mancata adozione delle misure necessarie a porre rimedio alle carenze già precedentemente rilevate e sanzionate, valendo ciò a integrare un nuovo illecito.

6. Al ricorso del D.B. la Banca d’Italia ha resistito depositando controricorso.

7. La causa è stata discussa e decisa nella camera di consiglio del 21 luglio 2021 per la quale entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

8. Con il primo motivo di ricorso, riferito all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 il sig. D.B. deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 145 T.U.B. e dei principi in materia di contraddittorio nel procedimento sanzionatorio della Banca d’Italia, nonché dei principi in materia di diritto di accesso agli atti del procedimento di cui alla L. n. 241 del 1990. Il motivo attinge la statuizione di rigetto del motivo di opposizione relativo alla violazione del diritto del ricorrente all’acceso agli atti e censura entrambe le rationes decidendi su cui tale statuizione si fonda, riassunte nel precedente paragrafo 4.

9. Quanto alla ratio decidendi consistente nel rilievo che la Banca d’Italia aveva risposto positivamente alla richiesta di accesso agli atti, con raccomandata pervenuta regolarmente al domicilio del D.B. e rimasta in giacenza presso l’ufficio postale, il ricorrente, nella narrativa dei fatti di causa, espone che “da indagini effettuate dal rag. D.B. presso Poste Italiane S.p.A. è emerso che durante il mese di ***** si sono verificati diversi episodi di ritardo nelle spedizioni, oltre a disguidi di varia natura e che, per vero, dalla consultazione del sito di Poste Italiane è emerso che la comunicazione di riscontro di cui sopra non è mai stata consegnata al destinatario in quanto alla data del 25 agosto 2014 (dopo la notifica del provvedimento sanzionatorio) era ancora in lavorazione (dal 28.11.2013) presso i “*****”” (pag. 4, terzultimo capoverso ricorso). Sulla scorta di tale premessa di fatto, il ricorrente, nello svolgimento del motivo in esame, lamenta che la corte d’appello abbia omesso di esaminare la circostanza che egli, per causa a lui non imputabile, era giunto a conoscenza dell’accoglimento della sua istanza di accesso agli atti soltanto dopo la ricezione del provvedimento sanzionatorio a lui destinato e che la riproposizione di tale istanza, da lui conseguentemente effettuata, non aveva ottenuto alcuna risposta.

9.1. La censura è infondata. Va preliminarmente evidenziato che la corte d’appello ha esaminato la circostanza del mancato ritiro, da parte del D.B., della raccomandata contenente l’accoglimento della sua richiesta di accesso; alle pag. 2-3 del decreto impugnato si legge, infatti: “dall’esame degli atti risulta che la raccomandata con la quale si consentiva il diritto di accesso agli atti nei termini proposti era stata inviata all’effettivo domicilio del D.B. (*****) e restituita per compiuta giacenza. Dalla stessa narrazione del ricorrente non emerge alcun addebito da muoversi alla BdI circa l’asserito non ricevimento della predetta raccomandata”. Ciò posto, risulta agevole rilevare che la doglianza del ricorrente si risolve, in sostanza, nell’assunto che – poiché egli non aveva mai ricevuto la raccomandata contenente l’accoglimento della sua istanza di accesso agli atti a causa di un disguido del servizio postale – la corte capitolina avrebbe errato nel non “valutare il comportamento della Banca d’Italia (che avrebbe dovuto riaprire il procedimento una volta avuta conferma dell’omessa ricezione degli atti da parte del D.B. senza sua colpa)” (pag. 9, rigo 10, del ricorso). Si tratta doglianza che non può trovare accoglimento per una duplice ragione.

9.2. In primo luogo, detta doglianza muove da un presupposto di fatto – che la raccomandata contenente l’accoglimento della istanza di accesso agli atti del D.B. fosse ancora in lavorazione presso Poste Italiane alla data del 25 agosto 2014 – il quale non risulta coerente con la ricostruzione dei fatti di causa operata dalla corte territoriale. Nell’impugnato decreto si afferma, infatti, che la suddetta raccomandata era stata “restituita per compiuta giacenza” (pag. 3, rigo 1, del decreto), vale a dire che la procedura di lavorazione della raccomandata era stata completata; infatti, ai sensi degli artt. 20 e segg. delle Condizioni generali di servizio per l’espletamento del servizio universale postale di Poste Italiane (Tabella A allegata alla Delib. dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni n. 385/13/cons del 20 giugno 2013), gli invii a firma (tra cui gli invii raccomandati) che non sia stato possibile recapitare all’indirizzo indicato vengono lasciati in deposito per trenta giorni presso l’ufficio postale, dandosi avviso al destinatario, prima di essere restituiti al mittente. Secondo l’accertamento di fatto della corte capitolina, non specificamente censurato nel ricorso del D.B., la lavorazione della raccomandata era dunque terminata; cosicché la censura in esame risulta inammissibile, in quanto basata su una ricostruzione dei fatti di causa alternativa a quella che emerge dalla pronuncia di merito.

9.3. In ogni caso, l’argomentazione giuridica sviluppata nella censura in esame va giudicata di per sé stessa priva di fondamento. Nel decreto della corte capitolina si sottolinea come, in sede di merito, il D.B. non abbia mosso alcun addebito alla Banca d’Italia in ordine alla regolarità delle modalità di invio della raccomandata contenente l’accoglimento della istanza di accesso agli atti da lui proposta. Nemmeno in questa sede di legittimità il D.B. imputa alla Banca d’Italia la violazione delle regole procedimentali che la stessa deve seguire nel rispondere ad una richiesta di accesso agli atti. Egli lamenta, invece, che la Banca d’Italia non abbia riaperto il procedimento dopo aver saputo che il sanzionato non aveva ricevuto, per fatto non a lui imputabile, la comunicazione di accoglimento della domanda di accesso agli atti da lui avanzata. In sostanza, secondo il ricorrente, la corte territoriale avrebbe dovuto annullare l’impugnato provvedimento sanzionatorio non per unii vizio di legittimità del procedimento amministrativo da cui esso è scaturito, ma a causa di un comportamento della Banca d’Italia posteriore alla emanazione del provvedimento impugnato; ciò di cui il ricorrente si lamenta, in ultima analisi, è la mancata adozione di un provvedimento di auto-annullamento della sanzione, in via di autotutela, con conseguente riapertura del procedimento sanzionatorio. Tale doglianza non può trovare accoglimento, giacché un provvedimento emesso all’esito di un procedimento in relazione al cui svolgimento non si deduca la violazione di alcuna prescrizione normativa non può ritenersi illegittimo a causa di fatti estranei alla sfera dell’amministrazione procedente (i disservizi postali), alla stessa resi noti dopo la chiusura del procedimento e l’emanazione del provvedimento conclusivo del medesimo.

9.4. Ne’, sotto altro aspetto, il ricorrente poteva fondatamente pretendere la riapertura del procedimento sanzionatorio per la dedotta violazione del proprio diritto di accesso agli atti, posto che tale diritto era autonomamente tutelabile attraverso l’impugnativa giurisdizionale del silenzio-diniego, ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 25, comma 4. Tale disposizione – alla cui stregua “Decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta. In caso di diniego dell’accesso, espresso o tacito, o di differimento dello stesso ai sensi dell’art. 24, comma 4, il richiedente può presentare ricorso al tribunale amministrativo regionale ai sensi del comma 5…” – trova infatti applicazione anche nel procedimento sanzionatorio della Banca d’Italia, giacché le Disposizioni di Vigilanza in materia di sanzioni e procedura sanzionatoria amministrativa (Provvedimento del 18 dicembre 2012), dispongono, nella Sezione II, p. 2, primo capoverso: “I soggetti sottoposti al procedimento sanzionatorio possono accedere ai documenti del procedimento nella parte in cui li riguardano, in base alle disposizioni della L. 7 agosto 1990, n. 241”.

9.5. La censura rivolta alla prima ratio decidendi della statuizione di rigetto del motivo di opposizione relativo alla violazione del diritto del ricorrente all’acceso agli atti va quindi disattesa.

9.6. Quanto alla seconda ratio decidendi di tale statuizione, consistente nell’argomento che le irregolarità riscontrate nel corso degli accertamenti ispettivi erano state integralmente descritte nelle note contestative, il ricorrente ne lamenta l’intrinseca illogicità e sottolinea come detto argomento risulti smentito dal fatto stesso che l’istanza di accesso agli atti da lui presentata era stata accolta dalla Banca d’Italia. La censura risulta inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse, giacché la statuizione di rigetto del motivo di opposizione concernente il mancato accesso agli atti del sig. D.B. si regge autonomamente sulla ratio decidendi fondata sul rilievo che la richiesta di accesso agli atti da costui proposta aveva trovato completo accoglimento. Deve quindi trovare applicazione il principio, più volte affermato da questa Corte, che qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (così, tra le tante Cass. 11493/2018).

9.7. Il primo mezzo di ricorso va quindi in definitiva rigettato, per l’infondatezza della prima delle due censure in cui si articola e per l’inammissibilità, per sopravvenuta carenza di interesse, della seconda.

10. Con il secondo motivo di ricorso, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 3 il sig. D.B. deduce la violazione e la falsa applicazione della normativa di vigilanza e l’omesso esame del fatto che il ricorrente ricopriva il ruolo di direttore generale di una banca diversa da quella in cui si sono verificati gli illeciti contestati dalla Banca d’Italia. Secondo il ricorrente, nella contestazione mossa al D.B. dall’Organo di vigilanza difetterebbe tanto l’elemento oggettivo quanto l’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo.

10.1. Nel mezzo di ricorso si argomenta che il D.B. era il direttore generale della banca capogruppo e non della banca in cui erano state riscontrate le anomalie e disfunzioni organizzative rilevate in sede ispettiva; addebitargli queste ultime, pertanto, postulerebbe una forma di responsabilità oggettiva, non prevista dall’ordinamento, per condotte omissive relative a situazioni estranee alla sfera di controllo dell’agente. D’altra parte, prosegue il ricorrente, la corte di appello avrebbe “del tutto omesso indicare, individuare e attribuire al rag. D.B. un titolo di responsabilità per i fatti oggetto di contestazione nel provvedimento sanzionatorio che fosse direttamente riconducibile ai doveri connessi alla propria qualifica di direttore generale della capogruppo” (pag. 11, secondo capoverso, della sentenza). Quanto all’elemento soggettivo dell’illecito, nel motivo si argomenta che, una volta escluso che al D.B. potesse effettivamente contestarsi una condotta omissiva in relazione a comportamenti che esulavano dalla sfera di controllo attribuita alla sua funzione, la Banca d’Italia non avrebbe potuto avvalersi della presunzione di colpa di cui la L. n. 689 del 1981, art. 3. In sintesi, il motivo di ricorso si risolve nell’assunto che il direttore generale della capogruppo “non aveva alcun dovere di controllo e vigilanza sulla Banca Cividale s.p.a. (né sulla società Tabogan s.r.l.) che possa dirsi essere stato reiteratamente omesso” (pag. 12, rigo 1 e segg., del ricorso).

10.2. Il motivo non può trovare accoglimento. In primo luogo va rilevato che esso prende le mosse da un presupposto fattuale che il D.B. “non era direttore generale della banca sottoposta ad ispezione ma di altra Banca (la capogruppo)” (cfr. pag. 10, terzo capoverso, del ricorso) che risulta smentito dalla narrativa dei fatti di causa offerta nello stesso ricorso, là dove si riferisce specificamente che la Banca Popolare di Cividale S.c.p.a., di cui l’odierno ricorrente era direttore generale, era stata sottoposta ad ispezione (cfr. pag. 2 del ricorso, penultimo capoverso: “a seguito degli accertamenti ispettivi eseguiti presso la Capogruppo dal 26 Marzo 2013 al 7 agosto 2013”).

10.3. Anche a prescindere dal suddetto rilevo, va comunque evidenziato che l’impugnato decreto – dopo aver richiamato gli obblighi imposti dalla normativa di vigilanza ed aver affermato che “rispetto a queste ed ulteriori prescrizioni in materia di vigilanza prudenziale per le banche il D.B. è venuto meno a detti obblighi” (pag. 4, quarto capoverso, del decreto) – si è fatto espressamente carico dell’assunto del ricorrente alla cui stregua egli non avrebbe potuto essere chiamato a rispondere, quale direttore generale della società capogruppo, delle disfunzioni organizzative di una società controllata e tale assunto ha motivatamente disatteso, evidenziando come esso si fondasse su una “interpretazione riduttiva del suo ruolo da parte del D.B., senza tener conto delle specifiche responsabilità che la normativa primaria e secondaria pone a carico degli esponenti della capogruppo di un gruppo bancario” (pag. 5, primo capoverso, del decreto). Tale affermazione della corte territoriale fa riferimento proprio alla disciplina evocata nella lettera di contestazione dell’illecito; quest’ultima – come emerge dal relativo stralcio trascritto nella nota 1 della pag. 3 del ricorso – richiama, tra l’altro:

– l’art. 67, comma 1 T.U.B., che recita: “Al fine di esercitare la vigilanza consolidata, la Banca d’Italia impartisce alla capogruppo, con provvedimenti di carattere generale, disposizioni concernenti il gruppo bancario complessivamente considerato o suoi componenti, aventi ad oggetto:… b) il contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni;… d) il governo societario, l’organizzazione amministrativa e contabile, nonché i controlli interni e i sistemi di remunerazione e di incentivazionea….)”;

– le Istruzioni di vigilanza per le banche (Circ. 299/99), Titolo IV, Capitolo 11, la cui Sezione III (Sistema dei controlli interni del gruppo bancario) riguarda precisamente i compiti della capogruppo in materia di controlli interni al gruppo bancario;

– le Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche (Circ. 263/06), Titolo I, Capitolo 1, Parte IV (La gestione e il controllo dei rischi. Ruolo degli organi aziendali), il cui Paragrafo 3 è rubricato “La gestione e il controllo dei rischi nel gruppo bancario”.

10.4. La responsabilità contestata al D.B. dalla Banca d’Italia, e ritenuta sussistente dalla corte territoriale, non è quindi, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, una responsabilità oggettiva per fatto altrui (ossia per fatto degli organi e dei dipendenti della banca controllata) ma una responsabilità per fatto proprio, ossia per infrazioni concernenti l’attività della capogruppo, distinte ed ulteriori rispetto alle infrazioni concernenti l’attività della banca controllata. A fronte della lineare motivazione del decreto impugnato, il mezzo di ricorso risulta del tutto aspecifico. La denuncia di violazione di legge si risolve in una generica protesta di violazione della normativa di vigilanza, senza alcuna identificazione delle disposizioni di cui si lamenta la violazione o la falsa applicazione e senza alcuna indicazione delle affermazioni in diritto contrastanti con tali regole esplicitamente o implicitamente contenute nell’impugnato decreto. Quanto alla denuncia di omesso esame di fatto decisivo (enunciata nella rubrica del mezzo, pur senza espresso richiamo all’art. 360 c.p.c., n. 5), pur essa va disattesa, perché il “fatto decisivo” a cui tale denuncia si riferisce – ossia il fatto che il D.B. era direttore generale della banca capogruppo, e non della controllata – è stato esaminato dalla corte d’appello, come illustrato nel paragrafo precedente.

10.5. Per quanto riguarda, infine, il riferimento del motivo in esame al tema dell’elemento psicologico dell’illecito (pag. 11, terzultimo capoverso, del ricorso), è qui sufficiente richiamare il principio, enunciato in Cass. 6625/20, che, in relazione agli illeciti di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 144 nei confronti di soggetti che svolgono funzioni di direzione, amministrazione o controllo di istituti bancari il legislatore individua una serie di fattispecie, destinate a salvaguardare procedure e funzioni incentrate sulla mera condotta, secondo un criterio di agire o di omettere doveroso, ricollegando il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico e limitando l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della condotta inosservante, sicché, integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dalla L. n. 689 del 1981, art. 3 l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza.

11. Con il terzo motivo di ricorso, riferito all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 il sig. D.B. contesta la violazione e la falsa applicazione dei principi costituzionali in materia di ne bis in idem e dell’art. 2697 c.c., nonché l’omesso esame dei documenti agli atti, reiterando la tesi, già dedotta in sede di merito, che per le irregolarità oggetto del provvedimento sanzionatorio impugnato in questo giudizio (comportamenti illegittimi riguardanti il processo dei crediti e il relativo rischio di credito) egli era già stato sanzionato dalla Banca d’Italia con il provvedimento sanzionatorio emesso il 31 agosto 2010. I rilievi della Banca d’Italia posti alla base del provvedimento sanzionatorio oggetto del presente giudizio si riferiscono, osserva il ricorrente, alla gestione del credito fino al 2010, ossia ad un periodo perfettamente coincidente con quello a cui si riferiscono le condotte sanzionate con il provvedimento emesso nel 2010 all’esito della precedente ispezione. Sotto altro aspetto, nel motivo si argomenta che la corte d’appello avrebbe altresì violato il disposto dell’art. 2697 c.c., addossando all’opponente onere della prova di essersi attivato per porre fine alla condotta omissiva contestatagli.

11.1. Il motivo è infondato. Quanto alla dedotta violazione del principio ne bis in idem, la censura muove da un presupposto di fatto – che il provvedimento sanzionatorio impugnato in questo giudizio abbia ad oggetto condotte omissive relative al medesimo periodo a cui si riferiscono le condotte omissive già sanzionate con il provvedimento nel 2010 – difforme dall’accertamento di fatto contenuto nell’impugnato decreto, alla cui stregua il provvedimento sanzionatorio oggetto del presente giudizio era stato emesso in relazione a “nuove violazioni rilevate all’esito dell’ispezione del 2013” (pag. 6, quarto capoverso, del decreto), ossia, più precisamente, in relazione alla protrazione, da parte del D.B., delle condotte omissive già sanzionata con il provvedimento del 2010.

11.2. In relazione alla condotta oggetto del provvedimento sanzionatorio impugnato in questo giudizio – così come individuata dal giudice di merito con accertamento di fatto che il ricorrente non ha adeguatamente cesurato – difetta, poi, il presupposto dell’idem factum. Se, infatti, le omissioni contestate al D.B. hanno ad oggetto i medesimi comportamenti doverosi, tali omissioni si sono, tuttavia, protratte attraverso periodi temporali diversi. La corte territoriale, là dove ha affermato che “il successivo accertamento della persistenza delle violazioni già accertate nel contesto di un precedente accertamento integra senz’altro una nuova fattispecie sanzionatoria” (pag. 6 terzultimo capoverso del decreto) si è dunque correttamente attenuta a principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità e costituzionale; si veda, per tutte, C. Cost. n. 53/2018, p. 4, dove si legge: “la giurisprudenza di legittimità appare salda nel ritenere, in senso contrario, che, con riguardo al reato permanente, il divieto di un secondo giudizio riguarda soltanto la condotta posta in essere nel periodo indicato nell’imputazione e accertata con la sentenza irrevocabile, e non anche la prosecuzione o la ripresa della stessa condotta in epoca successiva, la quale integra un “fatto storico” diverso, non coperto dal giudicato, per il quale non vi è alcun impedimento a procedere (tra le molte, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 5 marzo-15 maggio 2015, n. 20315; sezione terza penale, sentenza 21 aprile-11 maggio 2015, n. 19354; sezione seconda penale, sentenza 12 luglio-13 settembre 2011, n. 33838). Ciò in quanto l’identità del fatto, rilevante ai fini dell’operatività del principio del ne bis in idem, sussiste – secondo un radicato principio giurisprudenziale – solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (per tutte, Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 giugno-28 settembre 2005, n. 34655; nel senso che l’art. 649 c.p.p. “viva” nei termini ora indicati si e’, del resto, già espressa più volte questa Corte: sentenze n. 200 del 2016 e n. 129 del 2008)”.

11.3. Per quanto poi concerne la dedotta violazione dell’art. 2967 c.c., è sufficiente rilevare che la corte d’appello non ha mai negato che l’onere della prova dell’illecito amministrativo gravasse sull’Organo di vigilanza, ma ha ritenuto che, in concreto, tale onere fosse stato adeguatamente soddisfatto dalla produzione delle risultanze ispettive. Tanto premesso, l’infondatezza della doglianza del ricorrente risulta agevolmente dal rilievo che – fermo restando che il concreto apprezzamento della attendibilità e concludenza di una risultanza istruttoria costituisce compito del giudice di merito – la corte capitolina, valorizzando le risultanze ispettive, si è correttamente conformata all’insegnamento di questa Suprema Corte alla cui stregua i verbali ispettivi, per tutti gli aspetti, anche relativi all’esame della documentazione, in relazione ai quali non hanno efficacia probatoria privilegiata, “costituiscono comunque elemento di prova, che il giudice deve in ogni caso valutare, in concorso con gli altri elementi, potendo essere disattesi solo in caso di motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio, attesa la certezza, fino a querela di falso, che quei documenti sono comunque stati esaminati dall’agente verificatore” (Cass. 11481/20, pag. 17-18).

12. Conclusivamente il ricorso va rigettato.

13. Le spese seguono la soccombenza.

14. Deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente a rifondere alla Banca d’Italia le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 5.000, oltre Euro 200 per esborsi e altri accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 21 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2022

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