LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. PALLECCHIA Antonella – Consigliere –
Dott. GIAIME GUIZZA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7543/2021 R.G. proposto da:
A.M., nella qualità di procuratore generale di A.F., Argento Antonio, Balboni Antonella, Bartolozzi Giuseppina, Benzone + ALTRI OMESSI, tutti rappresentati e difesi dall’Avv. Marco Tortorella, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Domenico Chelini, n. 5;
– ricorrenti –
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Salute, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e Ministero dell’Economia e delle Finanze, rappresentati e difesi ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici domiciliano ope legis in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrenti –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 4307/2020, depositata il 17 settembre 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19 gennaio 2022 dal Consigliere Dott. Iannello Emilio.
FATTI DI CAUSA
1. Numerosi medici specializzati, fra i quali gli odierni ricorrenti, convennero davanti al Tribunale di Roma la Presidenza del Consiglio dei ministri, il M.I.U.R., il Ministero della Salute e il Ministero dell’Economia e delle Finanze, chiedendone la condanna, in solido, al risarcimento dei danni conseguenti alla mancata attuazione delle direttive Europee 75/362/CEE, 75/363/CEE e 82/76/CEE, in tema di adeguata retribuzione spettante per la frequenza di corsi di specializzazione in anni per alcuni compresi nel – per altri invece anteriori o successivi al – periodo 1983-1991.
Con sentenza n. 17375 del 2019, pubblicata in data 13 settembre 2018, il tribunale accolse solo la domanda di A.F., ritenendo per gli altri attori prescritto il dedotto credito risarcitorio.
2. La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 4307/2020 depositata in data 17 settembre 2020, ha rigettato gli appelli.
3. Avverso tale decisione A.M., nella qualità di procuratore generale di A.F., e gli altri ventidue medici indicati in epigrafe, propongono ricorso per cassazione articolando due motivi, cui resistono le amministrazioni intimate depositando controricorso.
Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La sentenza impugnata è stata resa anche nei confronti di altri medici nei cui confronti nessuno dei ricorsi è stato notificato.
Tuttavia, trattandosi di litisconsorti facoltativi ed essendo applicabile, in conseguenza, l’art. 332 c.p.c., non occorre far luogo all’ordine di notificazione dell’impugnazione ai sensi di tale norma, essendo ormai l’impugnazione per essi preclusa.
2. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi in materia di risarcimento del danno derivante da omesso e/o tardivo recepimento di direttive comunitarie nonché degli artt. 5 e 189 del Trattato CEE, dell’art. 10 Cost.; dell’art. 19, comma 1, seconda parte, del Trattato sull’Unione Europea; dell’Art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, cd. Carta di Nizza (approvata il 7 dicembre 2000); delle Dir. CEE 82/76, 75/363 e 93/16, delle sentenze della Corte di Giustizia Europea 25 febbraio 1999 (procedimento C-131/97) e del 3 ottobre 2000; violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU; degli artt. 1, 10, 11 e 12 preleggi; degli artt. 2934,2935 e 2938 c.c., del D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, art. 6…, nonché della L. n. 370 del 1999, art. 11”.
Sostengono in sintesi, che la L. n. 370 del 1999 non può assumere rilievo ai fini della determinazione del danno risarcibile e, conseguentemente, neanche ai fini della individuazione della data di decorrenza del termine di prescrizione.
Il tribunale avrebbe quindi errato, mancando di considerare che la prescrizione non avrebbe potuto farsi decorrere se non da quando sarebbero state elise le incertezze giurisprudenziali di settore, ovvero, quanto meno, nel 2005 sulla giurisdizione, nel 2009 sull’azione esperibile e la stessa sua prescrizione, nel 2011 sulla legittimazione passiva unica dello Stato, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria, se del caso da investire con rinvio pregiudiziale, attesa la necessità di assicurare la piena ed effettiva attuazione della normativa sovranazionale.
3. La censura è inammissibile, a norma dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c..
Come noto, infatti, la giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito che il diritto al risarcimento del danno da inadempimento della direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, insorto in favore dei soggetti che avevano seguito corsi di specializzazione medica iniziati, dopo l’applicabilità del regime Eurounitario ed entro l’anno accademico 1990-1991, in condizioni tali che, se detta direttiva fosse stata attuata, avrebbero acquisito i diritti da essa previsti, si prescrive nel termine di dieci anni decorrente, per quanto osservato dalla corte territoriale, dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11, laddove, al contempo, in riferimento a detta situazione, nessuna influenza può avere la sopravvenuta disposizione di cui alla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 4, comma 43 – secondo cui la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da mancato recepimento di direttive comunitarie soggiace alla disciplina dell’art. 2947 c.c. e decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato – trattandosi di norma che, in difetto di espressa previsione, non può che spiegare la sua efficacia rispetto a quanto verificatosi successivamente alla sua entrata in vigore, ossia al 10 gennaio 2012 (Cass., 09/02/2012, n. 1917, che riprende Cass., nn. 10813, 10814, 10815, 10816 del 2011, evocate nei ricorsi, ed è confermata da innumerevoli successivi arresti, come, ad esempio, Cass., 19/07/2019, n. 16452 e Cass., 24/01/2020, n. 1589).
Ne’ potrebbe sostenersi che il leading case del 2011 abbia preso in considerazione un termine prudenziale in ottica di conformità comunitaria, in ragione di quanto allora esaminabile, e tale da essere comunque sufficiente a respingere, in quel tempo, l’eccezione di prescrizione, e che, invece, solo successivamente al 1999 la giurisprudenza di questa Corte ha escluso quelle incertezze inibenti la decorrenza della prescrizione in pregiudizio del danneggiato, relative ad aspetti quali: l’individuazione della giurisdizione, se ordinaria o amministrativa; la natura dell’azione esperibile, se contrattuale o aquiliana; il termine di prescrizione; l’individuazione del legittimato passivo della domanda, se solo lo Stato o meno.
Detti argomenti – come già questa Corte ha più volte avuto modo di rimarcare (v. da ultimo Cass. 31/03/2021, n. 8843) – sono del tutto infondati e inidonei a indurre a un ripensamento della stabile nomofilachia richiamata e, infatti, per un verso confermata in tempi ben susseguenti al 2011, per altro verso tale da non potersi più riferire solo al rigetto dell’eccezione di prescrizione allora effettuato secondo quanto obiettato dal patrocinio oggi ricorrente.
E’ appena il caso di osservare che la questione della giurisdizione non incide affatto sulla consapevolezza della cristallizzazione della lesione e quindi sulla possibilità, per il danneggiato, di interrompere la sua inerzia e il decorso dell’estinzione prescrizionale che, come noto, non ha bisogno di iniziative giurisdizionali ma può ben essere stragiudiziale.
Per lo stesso motivo non ha alcun rilievo l’individuazione della natura dell’azione esperibile mentre la più ampia durata decennale della stessa, quale ricostruita, fa sì che la sua determinazione non abbia avuto alcun riflesso sulla maturazione della stessa.
Quanto alla legittimazione passiva – premesso che è dello Stato in persona della Presidenza del consiglio dei Ministri, mentre l’evocazione in giudizio di un diverso organo statuale, qui in ogni caso contestuale alla prima, non si traduce nella mancata instaurazione del rapporto processuale, costituendo una mera irregolarità, sanabile ai sensi della L. n. 260 del 1958, art. 4 (Cass., Sez. U., 27/11/2018, n. 30649), sicché solo se diretta nei confronti della sola Università l’interruzione della prescrizione risulta inidonea (Cass., 25/07/2019, n. 20099) – nella fattispecie non emerge, né è dedotta, un’eventuale attività interruttiva nei confronti dell’ente universitario o altri soggetti, fermo restando che dalla stessa normativa del 1999 doveva ragionevolmente desumersi che il destinatario del credito era individuabile nell’amministrazione statale e non nell’autonomia universitaria.
E’ opportuno ribadire, quanto alla remunerazione, che a seguito dell’intervento con il quale il legislatore – dettando la L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11 – ha effettuato una aestimatio del danno, alla precedente obbligazione risarcitoria per mancata attuazione delle direttive si è sostituita un’obbligazione satisfattiva avente natura di debito di valuta, iscritta in una cornice di disciplina comunitaria nella quale non è rinvenibile una definizione di retribuzione adeguata, né sono posti i criteri per la determinazione della stessa, come ribadito ferma, pure in chiave CEDU, la non irrisorietà della quantificazione nazionale – anche dalla pronuncia, evocata in ricorso, della Corte di giustizia, 24 gennaio 2018, C-616/16 e C617-16 (Cass., 24/01/2020, n. 1641, cui si rimanda per una più ampia ricostruzione giurisprudenziale).
Quanto sopra è in linea con ciò che si deve dire per la disciplina del trattamento economico dei medici specializzandi di cui al D.Lgs. n. 368 del 1999, art. 39, applicabile, per effetto di ripetuti differimenti, in favore dei medici iscritti alle scuole di specializzazione a decorrere dall’anno accademico 2006-2007 e non a quelli iscritti negli anni antecedenti, che, ove a regime secondo la normativa statale di recepimento, restano soggetti alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991, sia sotto il profilo ordinamentale che economico, giacché, in particolare, la direttiva n. 93/16, rispetto alla quale quella n. 2005/36 nulla sposta, non ha introdotto alcun nuovo e ulteriore obbligo con riguardo alla misura della borsa di studio (Cass. 14/03/2018, n. 6355, e le moltissime successive conformi, quale, solo a titolo esemplificativo, Cass., 24/05/2019, n. 14168).
Ciò per dire che non è individuabile alcun momento in cui si è stabilita una remunerazione adeguata da valutarsi come la sola recettiva della disciplina unionale, tale da poter concludere, anche in tesi, che esclusivamente a far data da allora avrebbe potuto decorrere la prescrizione.
Non vi è alcuna violazione della normativa sovranazionale, e alcuna irragionevolezza o disparità di trattamento posto che l’incremento previsto nell’esercizio della discrezionalità legislativa per i corsi di specializzazione collocati in tempi successivi, non escludendo l’adeguatezza della remunerazione precedente, è stato espressione di una scelta che rientra nelle opzioni legislative di regolare diversamente situazioni successive nel tempo (cfr., anche, di recente, Cass., 19/02/2019, n. 4809; 18/02/2021, n. 4307).
4. Come desumibile dai rilievi appena fatti, non vi è alcuna incertezza, sulla questione qui in scrutinio, che imponga il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Al riguardo va rilevato che, nella illustrazione del motivo, i ricorrenti hanno chiesto che sia sottoposta alla C.G.U.E. la seguente questione pregiudiziale: “se alla stregua del diritto dell’unione, un rimedio giurisdizionale possa considerarsi effettivo prima che sia definita la natura giuridica dell’azione esperibile, con le conseguenti ricadute sui termini di prescrizione, prima che sia identificato il soggetto legittimato passivamente e prima che sia individuata la giurisdizione interna competente a conoscere la domanda”.
Si tratta di una istanza che, al di là dei termini generici in cui è formulata, è da ritenersi manifestamente infondata.
Per quanto già detto, infatti, non solo a partire dal 27 ottobre 1999 nessuna norma dell’ordinamento interno impediva agli odierni ricorrenti di promuovere un giudizio per domandare il risarcimento del danno da tardiva attuazione delle direttive comunitarie; deve ora aggiungersi che nessun dubbio poteva sussistere su quale fosse il soggetto tenuto a rispondere di tale danno (lo Stato), e che qualsiasi eventuale incertezza circa l’individuazione del giudice munito di giurisdizione a conoscere della relativa domanda non poteva impedire il decorso della prescrizione, dal momento che qualsiasi eventuale errore poteva essere rimediato mediante lo strumento del regolamento di giurisdizione (v. in termini, da ultimo, Cass. 02/12/2021, n. 38109, in motivazione, p. 20.1, pagg. 19-20).
5. Con il secondo motivo si denuncia, con riferimento alla sola posizione del Dott. Filippo A., “violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi in materia di risarcimento del danno derivante da omesso e/o tardivo recepimento di direttive comunitarie, degli artt. 5 e 189 del Trattato CEE; delle Dir. CEE 82/76, 75/363 e 93/16, delle sentenze della Corte di Giustizia Europea 25 febbraio 1999 (procedimento C-131/97) e del 3 ottobre 2000; degli artt. 2,3,10 e 97 Cost.; del D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, art. 6… e della L. n. 370 del 1999, art. 11; violazione o falsa applicazione del Reg. CE 03/05/1998, n. 974/98 (in G.U.C.E. 11 maggio 1998, n. L 139) e Reg. CE 31 dicembre 1998, n. 2866/982 (in G.U.C.E. 31 dicembre 1998, n. L 359); degli artt. 1223,1226,1227 e 2056 c.c., della L. n. 370 del 1999, art. 11 e del D.Lgs. n. 257 del 1991; violazione dell’art. 112 c.p.c. tra chiesto e pronunciato per omessa pronuncia in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5”.
Lamentano che la corte d’appello ha omesso di pronunciare sul secondo, terzo e quarto motivo di gravame con i quali si censurava la liquidazione dell’indennizzo riconosciuto in favore del predetto, in quanto operata utilizzando come parametro la remunerazione annua stabilita dal legislatore nella citata L. n. 370 del 1999, art. 11, anziché quella fissata in sede di attuazione delle direttive comunitarie (D.Lgs. n. 257 del 1991), e senza inoltre riconoscere anche gli interessi compensativi per il danno da ritardo.
6. Il motivo è inammissibile e, comunque, infondato.
6.1. L’inammissibilità va affermata in applicazione del principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui “la parte che, in sede di ricorso per cassazione, deduce che il giudice di appello sarebbe incorso nella violazione dell’art. 112 c.p.c. per non essersi pronunciato su un motivo di appello o, comunque, su una conclusione formulata nell’atto di appello, è tenuta, ai fini dell’astratta idoneità del motivo ad individuare tale violazione, a precisare – a pena di inammissibilità – che il motivo o la conclusione sono stati mantenuti nel giudizio di appello fino al momento della precisazione delle conclusioni” (Cass. 03/03/2010, n. 5087 e succ. conff.): onere nella specie non assolto.
6.2. Se ne può comunque rilevare anche l’infondatezza alla stregua delle seguenti considerazioni.
6.2.1. Va premesso che, alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111 Cost.,, comma 2, nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c. ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su una questione di mero diritto, che non richiede ulteriori accertamenti di fatto, la Corte di cassazione può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la questione nel merito, purché su di essa si sia svolto il contraddittorio, dovendosi ritenere che l’art. 384 c.p.c., comma 2, come modificato dalla L. n. 40 del 2006, art. 12, attribuisce alla Corte di cassazione una funzione non più soltanto rescindente ma anche rescissoria e che la perdita del grado di merito resti compensata con la realizzazione del principio di speditezza (Cass. nn. 5139 e 24914 del 2011, 8622 del 2012; 23740 del 2013).
6.2.2. Ciò posto il motivo si appalesa infondato.
Come ripetutamente evidenziato nella giurisprudenza di legittimità, infatti, gli importi da corrispondere ai medici specializzandi italiani che hanno frequentato il corso di specializzazione dopo il 31 dicembre 1982, derivanti dal tardivo recepimento delle direttive CE n. 362 del 1975 e n. 76 del 1982, non possono essere commisurati all’importo della borsa di studio così come introdotta e quantificata nel D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, che non ha efficacia retroattiva ed è diretto ad individuare, secondo la discrezionalità del legislatore interno, la misura della retribuzione dovuta per le prestazioni fornite dai medici specializzandi.
L’obbligazione scaturente dalla mancata attuazione di direttive, invece, non ha natura né retributiva, né risarcitoria, e non può dar luogo ad una riparazione integrale, desumibile dai criteri di calcolo della legge sopracitata.
La suddetta obbligazione ha invece natura indennitaria e pararisarcitoria da quantificarsi scegliendo un parametro equitativo che sia fondato sul canone di parità di trattamento per situazioni analoghe. Tale parametro deve essere desunto dalle indicazioni contenute nella L. 19 ottobre 1999, n. 370, con la quale lo Stato italiano ha ritenuto di procedere ad un parziale adempimento soggettivo nei confronti di tutte le categorie che, dopo il 31 dicembre 1982, si siano trovate nelle condizioni fattuali idonee all’acquisizione dei diritti previsti dalle direttive comunitarie, senza però essere ricompresi nel D.Lgs. n. 257 del 1991 (Cass. n. 21498 del 2011, n. 1917 del 2012, n. 23635 del 2014).
Come affermato da Cass. n. 1917 del 2012 e 5533 del 2012, cui si rinvia per lo sviluppo argomentativo, con la L. n. 370 del 1999, art. 11, lo Stato italiano, in coerenza ai criteri dettati dalla Corte di giustizia, ha compiuto – come sopra s’e’ già detto – una aestimatio del danno da ritardata attuazione della direttiva comunitaria in grado di contemplare le sue diverse componenti, e dunque tanto il danno da mancata percezione della remunerazione adeguata da parte dello specializzando, quanto il pregiudizio relativo all’inidoneità del diploma di specializzazione al riconoscimento negli altri stati membri, e al suo minor valore sul piano interno ai fini dei concorsi per l’accesso ai profili professionali.
E’ stato inoltre affermato che il parametro di cui alla L. n. 370 del 1999, art. 11, è di per sé sufficiente a coprire tutta l’area dei pregiudizi causalmente collegabili al tardivo adempimento del legislatore italiano all’obbligo di trasposizione della normativa comunitaria, salva la rigorosa prova, da parte del danneggiato, di circostanze diverse da quelle normali, tempestivamente e analiticamente dedotte in giudizio prima della maturazione delle preclusioni assertive o di merito e di quelle istruttorie (Cass. n. 14376 del 2015).
Della tempestiva allegazione di tali circostanze nel giudizio di merito e della loro mancata considerazione da parte del giudice d’appello non vi è in ricorso alcuna specifica indicazione o doglianza merce’ l’appropriata denuncia di omesso esame ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, essendo solo in rubrica dedotto il vizio motivazionale, peraltro secondo la disposizione non più vigente.
6.2.3. Nella illustrazione del motivo di gravame in questione gli odierni ricorrenti avevano sollecitato, anche su tale questione, l’interpello della CGUE con rinvio pregiudiziale.
L’istanza non può essere accolta.
Lo stabilire quale dovesse essere la remunerazione dovuta ai frequentanti i corsi di specializzazione in medicina e, infatti, una scelta discrezionale che l’ordinamento comunitario ha lasciato agli Stati membri.
Dunque, nessuna violazione del diritto comunitario è ipotizzabile da parte della sentenza impugnata, per la semplice ragione che il diritto comunitario non si occupa e non si è mai occupato del quantum dovuto ai frequentanti le scuole di specializzazione (v. Cass. n. 31922 del 10/12/2018; n. 17051 del 28/06/2018; n. 15520 del 13/06/2018).
Ne’ è ipotizzabile alcuna disparità di trattamento fra coloro che si sono iscritti alle scuole di specializzazione dopo il 1991 e coloro che le hanno frequentate in precedenza.
Se è vero, infatti, che ai secondi è stata riconosciuta una remunerazione maggiore del risarcimento liquidato ope legis ai primi, è altresì vero che soltanto i secondi nell’iscriversi alle scuole di specializzazione hanno assunto oneri ed impegni (il tempo pieno, in primo luogo) sconosciuti ai primi.
6.2.4. Per le stesse considerazioni è da ritenersi infondata la pretesa relativa agli interessi compensativi, correttamente dunque disattesa dal primo giudice.
Trattandosi, infatti, di un peculiare diritto (para)risarcitorio, la sua quantificazione equitativa – da compiersi, come detto, sulla base delle indicazioni contenute nella L. n. 370 del 1999 – comporta esclusivamente la decorrenza degli interessi nella misura legale (e non anche la necessità della rivalutazione monetaria, salva la prova del maggior danno ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2) dalla data della messa in mora, in quanto, con la monetizzazione effettuata dalla L. n. 370 del 1999, l’obbligazione risarcitoria ha acquistato carattere di obbligazione di valuta (Cass. n. 23635 del 2014, n. 1917 del 2012, n. 458 del 2019).
7. Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con la conseguente condanna dei ricorrenti alla rifusione, in favore delle amministrazioni resistenti, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.
Quanto al valore in base al quale parametrare gli importi va precisato che, “non ricorrendo l’identità di posizione processuale dei… soggetti assistiti dal medesimo avvocato, non trova applicazione il D.M. n. 55 del 2014, art. 4, comma 2” (Cass. n. 6110 del 04/03/2021).
Il valore della causa, ai fini della liquidazione del compenso, è pertanto di Euro 631.110,36, risultante dalla somma dei seguenti tre addendi:
i) Euro 100.709,10 (prodotto della moltiplicazione di Euro 33.569,70 (pari all’importo unitario di Euro 6.713,94 dell’indennizzo annuale che sarebbe spettato, se del caso, ove non prescritto, moltiplicato per cinque) per i n. 3 ricorrenti specializzati dopo 5 anni di corso);
ii) Euro 510.259,44 (prodotto della moltiplicazione di Euro 26.855,76 (risultante dalla moltiplicazione di detto importo unitario per quattro anni di corso) per i n. 19 ricorrenti specializzati dopo 4 anni di corso);
iii) Euro 20.141,82 (importo annuo unitario moltiplicato per tre anni di corso) per il solo altro ricorrente specializzato dopo 3 anni di corso.
8. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, art. 1-bis.
PQM
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore delle amministrazioni controricorrenti, in solido, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 15.000 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 19 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2022
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