LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 8821/2018 proposto da:
D.T.M.; C.M.; C.N., elettivamente domiciliati in Roma, in via Caio Mario n. 7, presso lo studio dell’avvocato Madonia Pietro, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Armati Riccardo, con procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
Banca di Credito Cooperativo di Roma – società cooperativa a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, in piazza Giuseppe Mazzini n. 15, presso lo studio dell’avvocato Gabrielli Enrico, che la rappresenta e difende, con procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 809/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 07/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 01/12/2021 dal Cons. Dott. CAIAZZO ROSARIO.
RILEVATO
Che:
D.T.M., C.M. e C.N. convennero innanzi al Tribunale di Roma la Banca di Credito cooperativo di Roma, coop. a r.l., chiedendo: di accertare e dichiarare la nullità dei contratti d’investimento intrattenuti presso la banca convenuta, e dei successivi ordini d’acquisto e vendita, per difetto di forma scritta; accertare la nullità del contratto di pegno su titoli di C.M. per mancanza dell’oggetto della garanzia; accertare l’illiceità della condotta della banca convenuta nello svolgimento dei servizi d’investimento relativi ai titoli intrattenuti presso la stessa banca, nonché nella concessione dell’affidamento in conto corrente intestato alla D.T. per la somma di Lire 3.000.000.000 deliberato il 26.10.00 per violazione degli obblighi di comportamento gravanti sugli intermediari finanziari e dell’obbligo di diligenza e buona fede nella fase esecutiva del rapporto; condannare la banca convenuta al risarcimento dei danni subiti da ciascun attore pari all’importo di tutte le perdite maturate nell’esecuzione dei rapporti d’investimento e, relativamente alla D.T., anche all’importo degli interessi passivi dei finanziamenti concessi, oltre interessi e rivalutazione.
Al riguardo, gli attori assumevano che: avevano instaurato, dal 1998, rapporti d’investimento con la suddetta banca che erano configurabili come contratti di gestione a base individuale, ex art. 37 ss, Reg. Consob n. 11522/98; infatti, la banca aveva dato autonomo impulso ad ogni operazione, o sollecitando gli attori, o comunicando le operazioni eseguite; tali rapporti erano molto rischiosi (investimenti in azioni e warrant) e di frequente esecuzione; al fine di recuperare le perdite nel frattempo maturate, la banca li aveva convinti ad incrementare l’entità delle somme investite, concedendo un affidamento in conto corrente, intestato alla D.T., per tre miliardi di lire, in violazione dell’art. 117 Tub e art. 47 Reg. Consob, poiché tale finanziamento era destinato esclusivamente all’utilizzo per i vari profili d’investimento; la banca aveva fatto sottoscrivere anche una fideiussione per Lire 3.600.000.000, da parte di C.M., ed un pegno per tre miliardi di lire, da considerarsi nullo per mancata indicazione dei titoli a garanzia; a partire dal settembre 2002, la gestione della banca si tradusse in investimenti in titoli le cui quotazioni erano in costante ribasso sul mercato, mentre le richieste degli attori di vendita di alcuni titoli non furono eseguite, avendo la stessa banca preteso la stipula di un mutuo ipotecario pari all’importo del finanziamento concesso; di conseguenza, C.M. fu costretto a rivolgersi alla sede centrale della banca per vendere alcuni titoli azionari ad un prezzo molto inferiore a quello di carico, con la conseguente rotazione del pegno su altri titoli in portafoglio.
Pertanto, gli attori lamentavano: la mancanza di forma scritta dei contratti, assumendo di non averli sottoscritti (per la D.T. e C.); la equiparabilità dei rapporti d’investimento alla gestione patrimoniale; la violazione, in ogni caso, da parte della banca, dei principi generali di cui all’art. 21 Tub per non aver essa fornito le dovute informazioni sui tipi di rischio connessi alle varie operazioni compiute, per non essersi astenuta per le operazioni inadeguate, per non aver mai comunicato agli attori il verificarsi delle perdite superiori al 50% del capitale investito, nonché per la violazione dell’art. 26, lett. f, Reg. Consob, per aver operato in modo tale da moltiplicare le commissioni di vendita e acquisto-titoli; la violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del rapporto.
Resisteva la banca, spiegando domanda riconvenzionale avente ad oggetto la condanna di due attori al pagamento della somma di Euro 1.859.416.89 pari al saldo negativo di conto corrente intestato alla D.T..
Con sentenza del 4.12.09, il Tribunale rigettò la domanda degli attori e, in accoglimento della riconvenzionale, condannò in solido D.T. e C.M. al pagamento della somma di Euro 1.859.416,89 oltre interessi convenzlonali, rilevando che: era revocabile l’ammissione della verificazione riguardante i documenti prodotti dalla banca, oggetto di disconoscimento, in quanto si trattava di documenti insuscettibili di verificazione risultando la gran parte di essi priva di sottoscrizione mentre, quanto agli altri ordini, si trattava di documentazione cartacea relativa ad ordini dei clienti impartiti telefonicamente o verbalmente; il c.t.u. aveva invece accertato la falsità di firme apposte su altri documenti, oggetto di verificazione incidentale; circa la lettera di deposito-titoli, sottoscritta dalla D.T., non era ravvisabile la nullità contrattuale in difetto di specifica domanda sul punto, avendo infatti gli attori dedotto la nullità degli ordini d’investimento e non del contratto di deposito dei titoli; era infondata la domanda relativa alla nullità dei contratti d’investimento e dei successivi ordini d’acquisto, per difetto di forma scritta, poiché l’accertamento della falsità delle firme aveva riguardato solo pattuizioni accessorie; non era ravvisabile un contratto di gestione patrimoniale individuabile; erano da ritenere provati gli ordini d’acquisto che comunque non richiedevano la forma scritta, previa registrazione cartacea o telefonica, in quanto desumibili anche dagli estratti-conto non contestati, mentre era infondata anche l’eccezione relativa alla riproduzione fonografica degli ordini su supporti magnetici in quanto non disconosciuti; era infondata la domanda afferente all’illiceità della condotta della banca nello svolgimento dei rapporti d’investimento e nella concessione dell’affidamento in conto corrente, poiché gli attori non avevano espresso doglianze circa specifiche operazioni e le relative conseguenze dannose derivatene; non risultava provato che il fido fosse stato concesso al fine di creare la provvista per le operazioni d’investimento, emergendo piuttosto una usuale utilizzazione dello stesso per le esigenze dell’attività commerciale dell’intestataria D.T.; era invece provata la riconvenzionale della banca sulla base della documentazione prodotta.
Proposero appello D.T., C.M. e V. che, con sentenza del 7.2.17, la Corte territoriale respinse, osservando che: era infondata la doglianza sulla forma dei contratti d’investimento; quanto alla dedotta nullità per difetto di forma scritta dei singoli ordini, attesa la produzione documentale della banca consistente negli ordini d’acquisto siglati dalla stessa banca e nelle registrazioni telefoniche, a comprova degli ordini orali impartiti dagli attori; circa la doglianza afferente alla violazione dei doveri d’informazione, ritenuto che la banca non aveva effettivamente provato di aver assolto i propri doveri informativi e di segnalazione delle operazioni inadeguate, la domanda risarcitoria era da ritenere comunque infondata per difetto di allegazione e di prova del nesso causale e del danno che sarebbe stato determinato dai singoli inadempimenti per ciascuna operazione; al riguardo, gli attori non avevano specificato le singole operazioni affette dalla carenza informativa (non essendo possibile addossare all’intermediario un generico ed indistinto onere probatorio in un rapporto svoltosi per oltre cinque anni); in relazione ai singoli ordini, l’atto d’impugnazione non specificava se l’inadempimento della banca riguardasse i doveri informativi, ex art. 21 tuf e art. 28, comma 2 Reg. Consob, oppure i doveri di cui all’art. 29 reg. (operazioni inadeguate); nei vari motivi d’appello gli ordini d’investimento erano trattati in modo indistinto, sicché emergeva l’incertezza nell’individuazione delle violazioni contestate tra il 1998 e il 2002; gli attori avevano comunque manifestato una sicura esperienza negli investimenti effettuati in tale periodo, rifiutando di fornire notizie sulla propria situazione finanziaria e dichiarando di avere un buon livello d’esperienza in materia di strumenti finanziari e un’alta propensione al rischio; pertanto, le operazioni effettuate dal 2002 non erano qualificabili come inadeguate, a tacere del fatto che per esse gli attori-appellanti non avevano, come detto, distinto partitamente l’entità degli investimenti, essendosi limitati ad esporre un danno complessivo di Euro 2.098.309,13 riferito indistintamente a tutti e non solo a quelli presentati come inadeguati; il difetto di allegazione era ancora più vistoso per le operazioni relative al periodo 1998-2000, in quanto per i relativi ordini non era stata specificata la tipologia dei titoli acquistati o venduti, la quantità e le somme impiegate e le perdite lamentate, con la conseguenza che per tali operazioni non emergeva neppure la prospettazione di un danno; alla luce delle precedenti considerazioni, pur rilevando che la banca non aveva provato di aver adempiuto i propri obblighi informativi (ex artt. 21 Tub e 98 Reg. Consob), era da osservare che le allegazioni degli appellanti circa il nesso causale erano del tutto carenti, non avendo essi indicato le informazioni non rese dalla banca, né tale omissione avrebbe potuto essere supplita dalla richiesta c.t.u.; pertanto, in tale ambito di grave carenza di allegazione (ed avuto riguardo all’esperienza degli investitori), non era possibile ritenere che l’adempimento degli obblighi della banca avrebbe potuto indurre gli appellanti a non effettuare i suddetti investimenti; gli appellanti non avevano contestato la parte della motivazione riguardante il disconoscimento del contenuto delle registrazioni degli ordini telefonici, e neppure avevano richiesto la trascrizione delle stesse, né di aver tentato di estrarre apposite copie e di riprodurle nel contraddittorio delle parti; l’utilizzazione del fido aveva riguardato non solo gli investimenti per cui è causa, ma anche altre operazioni attinenti all’attività commerciale della D.T.. Quest’ultima e C.M. ricorrono in cassazione con cinque motivi.
RITENUTO
Che:
Il primo motivo denunzia errore di diritto poiché la Corte d’appello, in mancanza di prova degli ordini, avrebbe dovuto “annullare” quelli indicati in citazione; al riguardo, i ricorrenti muovono dalla premessa che erano sprovvisti di gran parte dei documenti bancari in questione, a causa del comportamento omissivo della banca che aveva reso disponibile solo parte delle copie di uno dei rapporti d’investimento per cui è causa, per poi depositare, a seguito dell’ordine di esibizione emesso dal g.i., molti documenti ulteriori rispetto a quelli oggetto dell’ordine, rendendo così molto gravosa l’attività di difesa, anche perché non era stato osservato il successivo provvedimento giudiziale a carico della banca di discernere, tra i documenti prodotti, quelli oggetto dell’ordine di esibizione dagli altri.
Il secondo motivo lamenta il rigetto della domanda risarcitoria poiché non adeguatamente motivato, avendo la Corte d’appello affermato che gli attori non avevano lamentato la violazione degli obblighi informativi e di condotta dell’intermediario, senza specificare le singole operazioni e i danni cagionati, considerata anche l’incompetenza e il basso livello d’istruzione degli investitori, specie tenuto conto che prima del 1998 essi investivano solo in titoli di Stato.
I ricorrenti si dolgono altresì che la Corte d’appello abbia violato l’art. 23, comma 6, Tuf, poiché gravava sulla banca l’onere di dimostrare di aver agito con la specifica diligenza.
In particolare, i ricorrenti assumono di aver allegato le varie operazioni distintamente, indicando le perdite complessivamente ammontanti a poco più di 2 milioni di Euro, e che i giudici di secondo grado non avevano ravvisato la scorrettezza della condotta della banca che, pur dopo che i ricorrenti avevano manifestato l’intento di non investire più in titoli azionari, un funzionario della banca li avrebbe indotti a persistere nel compiere tali investimenti ad alto rischio, con ulteriori successive perdite, rifiutando anche di disinvestire alcuni titoli qualora non fosse stato stipulato un mutuo ipotecario di importo pari all’affidamento concesso.
Il terzo motivo denunzia l’erronea valutazione degli elementi istruttori e l’omesso svolgimento di attività istruttoria. Al riguardo, i ricorrenti si dolgono che la Corte d’appello abbia ritenuto la sussistenza di indizi degli ordini di acquisto (atti scritti siglati dalla banca; mancata contestazione degli estratti-conto e riproduzioni fonografiche contenenti conversazioni telefoniche) che però non comprovavano la validità degli stessi ordini di acquisto di titoli finanziari e l’adempimento degli obblighi della banca. I ricorrenti, in particolare, denunziano l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui, in mancanza di una necessaria c.t.u., pur vanamente richiesta, ha affermato la rilevanza probatoria dei nastri magnetici contenenti le registrazioni telefoniche degli ordini suddetti che non sono state ascoltate in contraddittorio, e non sono riferite alle specifiche operazioni d’investimento,soggiungendo di non aver potuto disconoscere i suddetti nastri non avendone mai avuto la materiale disponibilità e che, comunque, tale disconoscimento sarebbe stato inutile atteso che le contestazioni dei ricorrenti riguardavano non la paternità delle registrazioni ma il loro contenuto, ignorato dal Tribunale.
Inoltre, i ricorrenti censurano la sentenza anche nella parte in cui ha ritenuto l’irrilevanza dell’accertata falsità delle firme disconosciute, apposte su alcuni documenti indicati, tra cui quella riferita a C.N., apposta sul questionario per l’investitore, allegato al contratto del 1997, falsità che incide sulla questione dell’adempimento degli obblighi informativi passivi gravanti sulla banca al momento della sottoscrizione del contratto.
Il quarto motivo deduce omessa, insufficiente, errata, illogica e contraddittoria motivazione in ordine al mancato accoglimento della domanda di nullità per difetto di forma degli ordini di acquisto e vendita di titoli, in quanto la Corte territoriale non ha tenuto conto delle prescrizioni di forma contenute nel contratto-quadro, afferenti alla forma convenzionale ex art. 1352 c.c., applicabile non solo a tale contratto ma anche, a pena di nullità, ai successivi ordini negoziali di vendita.
Il quinto motivo denunzia illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine al mancato accoglimento dell’eccezione sollevata dagli attori sulla violazione da parte della banca dell’art. 47 Reg. Consob e dei principi di correttezza e buona fede in occasione dei finanziamenti concessi (tipo di finanziamento, il tasso d’interesse ed eventuali maggiori oneri).
Resiste con controricorso la Banca di credito cooperativo di Roma.
Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo è inammissibile per la sua genericità. Al riguardo, va richiamato l’orientamento di questa Corte secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regalatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrici di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione (Cass., n. 16700/20).
Inoltre, è stato affermato che in tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (V. SU, n. 23745/20).
Invero, nel caso concreto, i ricorrenti hanno espresso una doglianza generica e poco chiara in ordine ai parametri normativi oggetto della censura che, peraltro, non esplicita neppure la rilevanza della questione prospettata circa i documenti prodotti in giudizio dalla controparte a seguito dell’ordine di esibizione impartito dal g.i..
Il secondo motivo è inammissibile. Esso pur senza indicare una specifica norma di cui lamenta la violazione, deduce chiaramente sia un vizio di motivazione sul rigetto della domanda risarcitoria, come tale inammissibile, ratione temporis, sia la violazione del principio di diritto di cui all’art. 23, comma 6, Tuf. Ora, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di intermediazione finanziaria, la disciplina dettata dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 6, in armonia con la regola generale stabilita dall’art. 1218 c.c., impone all’investitore, il quale lamenti la violazione degli obblighi informativi posti a carico dell’intermediario, nel quadro dei principi che regolano il riparto degli oneri di allegazione e prova, di allegare specificamente l’inadempimento di tali obblighi, mediante la pur sintetica ma circostanziata individuazione delle informazioni che l’intermediario avrebbe omesso di somministrare, nonché di fornire la prova del danno e del nesso di causalità tra inadempimento e danno, nesso che sussiste se, ove adeguatamente informato, l’investitore avrebbe desistito dall’investimento rivelatosi poi pregiudizievole; incombe invece sull’intermediario provare che tali informazioni sono state fornite, ovvero che esse esulavano dall’ambito di quelle dovute (Cass., n. 10111/18; n. 23570/20).
Dalla funzione sistematica assegnata all’obbligo informativo gravante sull’intermediario finanziario, preordinato al riequilibrio dell’asimmetria del patrimonio conoscitivo-informativo delle parti in favore dell’investitore, al fine di consentirgli una scelta realmente consapevole, scaturisce una presunzione legale di sussistenza del nesso causale fra inadempimento informativo e pregiudizio, pur suscettibile di prova contraria da parte dell’intermediario; tale prova, tuttavia, non può consistere nella dimostrazione di una generica propensione al rischio dell’investitore, desunta anche da scelte intrinsecamente rischiose pregresse, perché anche l’investitore speculativamente orientato e disponibile ad assumersi rischi deve poter valutare la sua scelta speculativa e rischiosa nell’ambito di tutte le opzioni dello stesso genere offerte dal mercato, alla luce dei fattori di rischio che gli sono stati segnalati (Cass., n. 16126/20; n. 7905/20).
Nel caso concreto, la Corte territoriale, pur affermando che la banca aveva violato i propri obblighi informativi sulla specifica rischiosità degli investimenti effettuati, ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni ritenendo che i ricorrenti non avessero adeguatamente allegato le singole operazioni d’investimento, il relativo contenuto e i danni conseguiti ad ognuna di essa, con motivazione non censurabile in questa sede. Inoltre, il riferimento ai singoli ordini d’acquisto, contenuto nel ricorso, è inammissibile tendendo al riesame dei fatti, avendo la Corte d’appello affermato che: gli attori non avevano specificato le singole operazioni affette dalla carenza informativa; nei vari motivi d’appello gli ordini d’investimento erano trattati in modo indistinto, sicché emergeva l’incertezza nell’individuazione delle violazioni contestate tra il 1998 e il 2002.
Il terzo motivo è inammissibile poiché diretto al riesame dei fatti inerenti all’esame degli elementi di prova, ovvero a ribaltare l’interpretazione fornitane dalla Corte territoriale; peraltro, i ricorrenti lamentano la mancata ammissione di una c.t.u., affermando di non aver contestato l’origine delle registrazioni degli ordini d’investimento, bensì il loro contenuto, ma non indicando la specifica rilevanza del mezzo istruttorio richiesto.
Il quarto motivo è parimenti inammissibile. Va osservato che alla stregua di consolidato orientamento di questa Corte, in tema di intermediazione finanziaria, la forma scritta è prevista dalla legge per il contratto quadro e non anche per i singoli ordini, a meno che non siano state le parti stesse a prevederla per la sua validità ai sensi dell’art. 1352 c.c., assumendo, in tale ultima ipotesi, la finalità di assicurare una maggiore ponderazione da parte dell’investitore, di garantire all’operatore la serietà di quell’ordine e di permettergli una più agevole prova della richiesta ricevuta, sicché l’intermediario può legittimamente rifiutare l’esecuzione di un ordine non impartito per iscritto e la nullità dello stesso, per carenza del requisito della forma scritta convenzionale, può essere fatta valere da entrambi i contraenti (Cass., n. 19759/17, n. 16053/16).
Nel caso, concreto, i ricorrenti, nel censurare l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, declinano un vizio non predicabile ratione temporis, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; peraltro, va rilevato che non è stata dimostrata una specifica pattuizione relativa all’adozione della forma scritta anche per i singoli ordini d’acquisto, come evidenziato nella motivazione della sentenza impugnata.
Il quinto motivo, infine, è del pari inammissibile poiché diretto al riesame dei fatti in ordine all’asserita illegittimità del finanziamento in quanto finalizzato esclusivamente agli investimenti, avendo la Corte d’appello statuito, con accertamento incensurabile in questa sede, che esso, invece, aveva riguardato anche l’attività commerciale della D.T..
Le spese seguono la soccombenza.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio che liquida nella somma di Euro 10.200,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% quale rimborso forfettario delle spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2022