Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.4395 del 10/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 20931/2017 r.g. proposto da:

BANCA NAZIONALE DEL LAVORO S.P.A., con sede legale e direzione generale in *****, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, Dott. A.L., rappresentata e difesa, giusta procura speciale allegata in calce al ricorso, dall’Avvocato Lucio De Angelis, presso il cui studio elettivamente domicilia in Roma, alla Via Val Gardena n. 3.

– ricorrente –

contro

P.S.G., rappresentata e difesa, giusta procura speciale allegata in calce al controricorso, dall’Avvocato Emilia Velletri, con cui elettivamente domicilia in Roma, alla via Alessandro Luzio n. 27, presso lo studio dell’Avvocato Giovanni Andrea Callea.

– controricorrente –

e S.P.F., rappresentato e difeso, giusta procura speciale allegata in calce al controricorso, dall’Avvocato Prof.

Giovanni Andrea Callea, presso il cui studio elettivamente domicilia in Roma, alla via Alessandro Luzio n. 27.

– controricorrente –

avverso la sentenza, n. cron. 2393/2017, della CORTE DI APPELLO DI ROMA depositata in data 11/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del giorno 04/02/2022 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese.

FATTI DI CAUSA

1. P.S.G. citò la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. (per il prosieguo, breviter, BNL) innanzi al Tribunale di Roma chiedendone la condanna al pagamento, in suo favore, di Euro 50.851,62, oltre interessi.

1.1. Dedusse che: i) il *****, aveva acceso un conto corrente di corrispondenza presso la filiale di ***** della banca predetta; ii) il *****, aveva sottoscritto un contratto di gestione titoli con la BNL Gestioni SGR, quale unica intestataria, effettuando un conferimento di Euro 245.317,03; iii) nel mese di *****, aveva acceso un ulteriore conto corrente con fido, fino alla concorrenza di Lire 200.000.000, garantito da pegno sui titoli in gestione; iv) il *****, la BNL aveva disposto la vendita delle sue quote di compartecipazione alla società di gestione fondi *****, accreditandone il ricavato sul conto corrente con fido, previa compensazione con le partite di dare, in forza di un’indicazione ricevuta, tramite fax, da S.P.F., coniuge dell’attrice non intestatario del contratto di gestione suddetto; v) era rimasta totalmente all’oscuro di tale operazione e di averne avuto conoscenza soltanto al momento della ricezione dell’estratto conto.

1.2. L’adito tribunale, nel contraddittorio con la BNL e il S.P., chiamato in causa da quest’ultima per essere manlevata delle eventuali conseguenze negative della lite, respinse la domanda attrice, dichiarando assorbita quella di manleva della BNL.

2. Pronunciandosi sul gravame proposto dalla P. e dal S.P. contro tale decisione, la Corte di appello di Roma, con sentenza del 14 marzo/11 aprile 2017, resa nel contraddittorio con la BNL, ha così statuito: “a) dichiara inammissibile l’appello proposto da S.P.F.; b) accoglie l’appello proposto da P.S.G. e, per l’effetto, condanna la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. al pagamento, in favore dell’appellante, della somma di Euro 50.851,62, oltre interessi legali dall’1/7/2002 al soddisfo, ed al pagamento del maggior danno sull’indicato importo (dall’1/7/2002) fino alla data di pubblicazione della presente sentenza, pari alla differenza – se sussistente – tra il tasso di rendimento netto, dedotta l’imposta, dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi, o tra il tasso di inflazione se superiore, e quello degli interessi legali se inferiore; c) rigetta la domanda di garanzia/manleva formulata dalla Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. nei confronti di S.P.F.; d) condanna l’appellata, Banca Nazionale del Lavoro s.p.a., al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio in favore dell’appellante, P.S.G., che liquida complessivamente, quanto al primo grado, in Euro 7.000,00, di cui Euro 2.000,00 per diritti, ed Euro 5.000,00 per onorario, oltre rimborso forfetario (12,5%) per spese generali, I.V.A. e C.P.A. nella misura di legge, e, quanto al secondo grado, in complessivi Euro 6.955,00, di cui Euro 340,00 per spese, ed Euro 6.615,00 per compensi, oltre a rimborso forfetario (15%) per spese generali, I.V.A. e C.P.A. nella misura di legge; e) dichiara integralmente compensate tra l’appellante, S.P.F. e l’appellata, Banca Nazionale del Lavoro s.p.a., le spese del presente grado di giudizio”.

2.1. In particolare, ha opinato che: i) “…l’appellante, S.P.F., marito della correntista, è stato chiamato in garanzia/manleva dalla banca in primo grado, e la relativa domanda non è stata accolta, con la conseguenza che costui, risultando totalmente vittorioso nel precedente grado d giudizio, non ha alcun interesse a proporre la presente impugnazione, non potendo conseguire da essa alcun risultato utile”; ii) “E’ fondato e va accolto l’appello proposto da P.S.G.. Dall’art. 5 del contratto di apertura di credito garantito da pegno in atti, risulta che la possibilità, per la banca, di vendere i titoli costituiti in pegno, era consentita solo in ipotesi specificatamente previste, ovvero in caso di mancato pagamento del dovuto da parte della correntista alla scadenza del fido, o in caso di revoca o riduzione di esso (“Qualora alla eventuale scadenza del fido garantito o, in caso di sua revoca o riduzione, alla scadenza del termine che…sarà… assegnato mediante lettera raccomandata l’affidato non provvedesse al pagamento di quanto dovuto per capitale, interessi ed ogni altro accessorio, siete autorizzati a soddisfarvi del vostro credito… procedendo al realizzo in tutto o in parte, dei diritti costituiti in pegno…”). Solo negli indicati casi, dunque, la banca avrebbe potuto soddisfare il proprio credito mediante la vendita dei titoli costituiti in garanzia. Pertanto, non essendosi verificate le specifiche condizioni previste dall’art. 5 del contratto, la banca non poteva procedere alla contestata vendita, con conseguente condanna della stessa alla restituzione in favore dell’attrice/appellante, P.S.G., della non contestata somma pari ad Euro 50.851,62, costituita dalla differenza tra l’importo investito (Euro 245.317,03), e quello accreditato (Euro 194.465,41)…”, oltre interessi legali ed eventuale maggior danno ex art. 1224 c.c., comma 2; iii) “Quanto alla domanda di garanzia/manleva riproposta in questa sede, in via subordinata, dalla B.N.L. nei confronti di S.P.F., (…), va applicato, (…), il disposto di cui all’art. 1398 c.c., in base al quale “colui che ha contrattato come rappresentante senza averne i poteri o eccedendo i limiti delle facoltà conferitegli, è responsabile del danno che il terzo contraente ha sofferto per avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto”. Per costante giurisprudenza, il principio dell’apparenza del diritto, mediante il quale viene tutelato l’affidamento incolpevole del terzo che abbia contrattato con colui che appariva legittimato ad impegnare altri, trova operatività alla duplice condizione che sussista la buona fede di chi ne invoca l’applicazione e un comportamento almeno colposo di colui che ha dato causa alla situazione di apparenza (…). Nel nostro caso, deve escludersi la sussistenza delle indicate condizioni atteso che, da un lato, la B.N.L. non poteva confidare senza colpa sull’esistenza dei poteri rappresentativi in capo a S.P.F., dal momento che il contratto di conto corrente garantito da pegno era intestato esclusivamente alla moglie di costui, P.S.G., e, dall’altro, non vi sono elementi dai quali desumere che vi sia stato un comportamento colposo da parte di colui che ha dato causa alla situazione di apparenza…”.

3. Per la cassazione di questa sentenza ricorre la BNL, affidandosi a quattro motivi, illustrati anche da memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c.. Resistono, con distinti controricorsi, la P. ed il S.P..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso, recante “Omesso esame di fatto decisivo, discusso dalle parti, ma del tutto pretermesso dalla sentenza impugnata (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”, ascrive alla corte di appello di essersi limitata “…ad un fugace esame astratto dei poteri, in via generale, conferiti dal contratto alla BNL, per il disinvestimento dei titoli “de quibus””, ma di avere pretermesso “la decisiva circostanza che, nella specie, vi fu, incontestabilmente, la concreta richiesta di un urgentissimo disinvestimento, formulata personalmente dalla Sig.ra P. (unitamente al proprio marito), espressamente rivolta al direttore dell’Agenzia BNL di *****, subito dopo i tragici eventi dell'*****, avvenuti a *****, suscettibili (secondo i coniugi P. – Pe.) di assai gravi ripercussioni sui mercati finanziari ed, in particolare, sul valore dei titoli “de quibus”, peraltro costituiti in pegno a garanzia della BNL”, per l’ingente credito restitutorio derivante dal fido concesso all’attrice dalla banca. Si assume che, “fin dal primo grado di giudizio (…), la BNL aveva specificatamente dedotto che entrambi i coniugi (e, quindi, anzitutto, proprio la sig.ra P.S.G.), subito dopo l’attentato terroristico dell'*****, si recarono presso l’Agenzia di ***** della BNL, per sollecitare personalmente l’urgente disinvestimento, oggetto della presente causa. I coniugi P. – Pe., anche in precedenza, si erano sempre recati insieme, presso la suddetta agenzia, per tutte le questioni concernenti i rapporti bancari intestati alla moglie. La suddetta pressante richiesta di immediato disinvestimento, venne ribadita e sollecitata con il telefax del 20.8.2008 (…), nonché con la lettera (di ulteriore sollecito) del 22.10.2001 (…), spediti, anche a nome della moglie, dal sig. Pe….”. Si invocano, sul punto, anche le risultanze della prova testimoniale espletata in primo grado.

1.1. Allo scrutinio di una tale doglianza giova premettere che lo specifico vizio denunciabile per cassazione alla stregua della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (come introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012, qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza resa l’11 aprile 2017), è relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 2195 del 2022; Cass. n. 595 del 2022; Cass. n. 395 del 2021; Cass., SU, n. 16303 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015), sicché sono inammissibili le censure che irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (cfr., ex aliis, pure nelle loro motivazioni, Cass. n. 2195 del 2022; Cass. n. 595 del 2022; Cass. n. 4477 del 2021; Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017).

1.1.1. Va ricordato, peraltro, che: i) non costituiscono, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014); ii) il “fatto” il cui esame sia stato omesso deve, inoltre, avere carattere “decisivo”, vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Tale decisività, in quanto correlata all’interesse all’impugnazione, si addice innanzitutto a quel fatto che, se scrutinato, avrebbe condotto il giudice ad una decisione favorevole al ricorrente, rimasto soccombente nel giudizio di merito. Poiché l’attributo si riferisce al “fatto” in sé, la “decisività” asserisce, inoltre, al nesso di causalità tra la circostanza non esaminata e la decisione: essa deve, cioè, apparire tale che, se presa in considerazione, avrebbe portato con certezza il giudice del merito ad una diversa ricostruzione della fattispecie (non bastando, invece, la prognosi che il fatto non esaminato avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione diversa: si vedano già Cass. n. 22979 del 2004; Cass. n. 3668 del 2013; la prognosi in termini di “certezza” della decisione diversa è richiesta, ad esempio, da Cass., SU, n. 3670 del 2015); iii) lo stesso deve essere stato “oggetto di discussione tra le parti”: deve trattarsi, quindi, necessariamente di un fatto “controverso”, contestato, non dato per pacifico tra le parti; iv) la parte ricorrente deve indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come ed il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).

1.2. Fermo quanto precede, l’odierna doglianza di BNL è insuscettibile di accoglimento nel suo complesso.

1.2.1. Invero, il descritto fatto, asseritamente decisivo, di cui è lamentato l’omesso esame risulta essere stato specificamente valutato (e disatteso) nella decisione di primo grado, benché rivelatasi favorevole alla odierna ricorrente. In quella sede, infatti, come riferisce, in proposito, la sentenza oggi impugnata (cfr. pag. 3), il tribunale osservò, tra l’altro, che, “in base al “contratto di gestione portafogli di investimento”,… “tra le parti non sono consentite comunicazioni, autorizzazioni ed istruzioni telefoniche. Al riguardo, unico mezzo ritenuto valido ed efficace è la forma scritta”. Inoltre, sempre ai sensi dell’art. 11 del contratto di gestione portafoglio,… il recesso dal contratto andava comunicato “mediante invio di lettera raccomandata con avviso di ricevimento””. Ritenne, quindi, “che, in assenza di una formale procura conferita da parte attrice al marito,… l’ordine di disinvestimento da quest’ultimo inviato via fax alla banca era da considerare inefficace, in quanto proveniente da soggetto non legittimato, né avrebbe potuto, al riguardo, avere un’efficacia sanante la successiva conferma telefonica della moglie, in quanto priva della forma necessaria…. Allo stesso modo, anche i precedenti colloqui orali svoltisi tra i coniugi e il funzionario di banca presso la filiale della BNL di *****, confermati tra l’altro da quest’ultimo in sede testimoniale, appaiono irrilevanti ai fini della valutazione della legittimità dell’ordine di disinvestimento, proveniente dal solo marito non titolare del contratto”.

1.2.2. E’ innegabile, dunque, che le parti hanno discusso sui fatti oggetto della odierna censura, ma tale dibattito si è esaurito con la riportata sentenza del tribunale, la quale, come si è visto, disattese espressamente tutte le corrispondenti argomentazioni della BNL riguardanti, appunto, le asserite disposizioni impartite verbalmente dalla P.; l’ingresso in banca di quest’ultima con il coniuge e l’ordine di disinvestimento dei titoli impartito, tramite fax, dal solo S.P..

1.3. Inoltre, stante l’evidente carenza di autosufficienza sul punto dell’odierno ricorso (che non riproduce specificamente, in parte qua, il contenuto della comparsa di risposta della banca appellata. Ne’ ad una siffatta carenza può supplire, se del caso, il contenuto della memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c., perché, come ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, tale memoria non può contenere nuove censure, ma solo illustrare quelle già proposte. Cfr., ex multis, Cass. n. 17893 del 2020; Cass. n. 24007 del 2017; Cass. n. 26332 del 2016; Cass., SU, n. 11097 del 2006), questa Corte non è posta in condizione di verificare se la stessa BNL avesse insistito sulla trattazione di quei fatti in sede di gravame, censurando puntualmente quell’assunto del tribunale, mentre l’avvenuto accoglimento dell’appello ad opera della corte distrettuale si è fondato su una (unica) ratio decidendi affatto indipendente da essi (cioè la ivi fornita interpretazione di quanto sancito dall’art. 5 del contratto di apertura di credito garantito da pegno, intercorso tra la P. e BNL).

1.4. E’ palese, infine, che, come emerge proprio dalla sentenza oggi impugnata, sia il giudice di prime cure che, successivamente, la corte capitolina, hanno giustificato la loro decisione esclusivamente interpretando le clausole del contratto di apertura di credito garantito da pegno.

1.4.1. Secondo il tribunale, infatti, “ai sensi della lett. C) del predetto contratto di pegno, era consentito alla banca, a garanzia del suo diritto di credito, di recedere dal contratto di gestione patrimoniale con gli effetti di cui al successivo art. 7. (…)” e, “in virtù di tale clausola, era riconosciuta contrattualmente alla convenuta (la banca. Ndr) la facoltà di disinvestire i titoli della parte attrice prescindendo dal relativo consenso della titolare del contratto di investimento finanziario, con conseguente “legittimità del comportamento tenuto dalla BNL s.p.a.”; la corte territoriale, invece, ha opinato che “Dall’art. 5 del contratto di apertura di credito garantito da pegno in atti, risulta che la possibilità, per la banca di vendere i titoli costituiti in pegno, era consentita solo in ipotesi specificatamente previste, ovvero in caso di mancato pagamento del dovuto da parte della correntista alla scadenza del fido, o in caso di revoca o riduzione di esso (“Qualora alla eventuale scadenza del fido garantito o, in caso di sua revoca o riduzione, alla scadenza del termine che…sarà… assegnato mediante lettera raccomandata l’affidato non provvedesse al pagamento di quanto dovuto per capitale, interessi ed ogni altro accessorio, siete autorizzati a soddisfarvi del vostro credito… procedendo al realizzo in tutto o in parte, dei diritti costituiti in pegno…”). Solo negli indicati casi, dunque, la banca avrebbe potuto soddisfare il proprio credito mediante la vendita dei titoli costituiti in garanzia. Pertanto, non essendosi verificate le specifiche condizioni previste dall’art. 5 del contratto, la banca non poteva procedere alla contestata vendita…”.

1.4.2. E’ chiaro, allora, come: i) sia stata rimarcata, in primo grado, l’inefficacia di eventuali disposizioni verbali o impartite da soggetto non legittimato, ivi sottolineandosi la necessità: i-a) di utilizzo della forma scritta per procedere validamente al disinvestimento dei titoli oggetto del contratto; i-b) di un’espressa procura cartacea conferita a soggetto non intestatario di quest’ultimo al fine di legittimarlo alla richiesta del medesimo disinvestimento; ii) l’odierno ricorso di BNL, non riproducendo specificamente, in parte qua, il contenuto della comparsa di risposta di quest’ultima in appello, preclude a questa Corte di verificare se la stessa avesse insistito ivi sulla trattazione di quei fatti, censurando puntualmente l’assunto del tribunale alla medesima sfavorevole; iii) la memoria di cui all’art. 380-bis.1 c.p.c., non può contenere nuove censure, ma solo illustrare quelle già proposte (cfr. le già richiamate Cass. n. 17893 del 2020; Cass. n. 24007 del 2017; Cass. n. 26332 del 2016; Cass., SU, n. 11097 del 2006); iv) l’accoglimento del gravame è stato fondato su una ratio decidendi (interpretazione di quanto sancito dall’art. 5 del contratto di apertura di credito garantito da pegno, intercorso tra la P. e BNL) che prescinde totalmente da quei fatti, oltre che rimasta assolutamente incensurata in questa sede, sicché nessuna decisività (nei sensi precedentemente specificati) rivelerebbe un eventuale ulteriore esame su tali fatti.

1.4.3. In definitiva, l’odierna ricorrente pretende, affatto inammissibilmente, di sottoporre a questa Corte una questione (validità ed efficacia dell’ordine o tutela del suo affidamento per il principio di apparenza) sulla quale le sue tesi sono state disattese in primo grado, né vi è adeguata dimostrazione che le stesse siano state riproposte al giudice di appello.

1.4.4. Va ricordato, altresì, che l’eventuale “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4), – da rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (cfr., in termini, Cass. n. 13855 del 2020, in motivazione. In senso sostanzialmente conforme, si vedano Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 23940 del 2017; Cass. n. 27458 del 2018).

1.5. Quanto, infine, all’assunto di BNL secondo cui l’ordine di disinvestimento fu impartito dal S.P., “anche per conto della moglie”, con il fax del 20 ottobre 2001 e con successiva “lettera del 22 ottobre 2001 di ulteriore sollecito”, se ne deve qui sancire la inammissibilità perché il contenuto di tali atti nemmeno è stato riprodotto in ricorso. Deve trovare applicazione, pertanto, il qui condiviso principio secondo cui, “in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità” (cfr. Cass., SU, n. 34469 del 2019).

2. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso prospettano, rispettivamente:

II) “Violazione o falsa applicazione degli artt. 1398 e 2043 c.c.. Illiceità (di natura extracontrattuale) dell’asserita iniziativa del “falsus procurator” in ipotesi non legittimata da un effettivo incarico del “dominus” (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”. Muovendo dall’assunto che l’iniziativa del falsus procurator, che si arroghi un potere non conferitogli, è certamente illecita (e fonte di responsabilità extracontrattuale), poiché concretizza un comportamento contrario ai generali doveri di correttezza e buona fede, nonché al divieto di neminem laedere, si afferma essere “del tutto erronea ed ingiusta la statuizione della sentenza impugnata, la quale, invece, ha esentato da ogni responsabilità il sig. S.P.F., il quale, secondo la sentenza stessa era l'(asserito esclusivo) autore dell’illecita iniziativa, di impartire alla BNL l’ordine di disinvestimento”. Sotto altro profilo, si rappresenta che “soltanto tale ordine di disinvestimento (ricevuto ed eseguito dalla BNL) costituisce l’oggetto della cospicua richiesta di risarcimento, proposta (contro la stessa BNL) dalla sig.ra P.S.G., la quale ne deduce (in realtà, contro buona fede) l’illiceità, per esser del tutto “ignara” dell’iniziativa medesima. La Corte territoriale, incorrendo in un grave errore ulteriore, suppone che l’azione risarcitoria della sig.ra P., riguarderebbe l’eventuale sanatoria di contratti, che si suppongono conclusi in una situazione di apparenza del diritto, invocata per convalidare i contratti stessi. Nella presente causa, per contro, tali contratti non sono mai stati impugnati e, correlativamente, non è mai sorta alcuna questione sull’eventuale loro convalida, in dipendenza di una situazione di apparenza. Nel presente giudizio, non è mai stato formulato alcun riferimento al principio dell’apparenza e, tanto meno, per convalidare i contratti di disinvestimento, poi conclusi (del resto, con soggetti del tutto estranei al presente giudizio)”;

III) “Violazione o falsa applicazione degli artt. 1393 e 1398 c.c., per la sussistenza di una mera facoltà e non già di un obbligo, di controllare l’effettivo conferimento del potere rappresentativo (al “falsus procurator”). Correlativa persistenza del “falsus procurator” per il suo antigiuridico comportamento (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”. Si assume che “non soltanto non sussistevano concreti motivi per dubitare dell’effettivo potere rappresentativo del marito della intestataria dei titoli di investimento “de quibus”, ma v’erano assai attendibili ragioni per ritenere effettivamente sussistente il potere rappresentativo medesimo. Infatti, il Sig. Pe., insieme alla propria moglie, sig.ra P., si era sempre in precedenza recato presso la BNL”. Si afferma, inoltre, che la sentenza impugnata suppone un insussistente obbligo di controllo, mentre, nella specie, poteva configurarsi, al riguardo, soltanto una mera facoltà, insufficiente per l’affermazione aprioristica e del tutto immotivata di una responsabilità risa rcitoria.

2.1. Tali doglianze, scrutinabili congiuntamente perché connesse, sono complessivamente inammissibili.

2.2. Invero, nella misura in cui le si volessero intendere come dirette a contestare l’avvenuto accoglimento della domanda della P. nei confronti di BNL, esse – pure tenuto conto di quanto si è appena detto disattendendosi il primo motivo – si rivelano del tutto prive di reale collegamento con la concreta, già descritta, ratio decidendi, su questo aspetto, della sentenza impugnata.

2.3. Laddove, invece, volte a contestare quanto ritenuto dalla corte distrettuale sulla domanda di manleva della odierna ricorrente, le stesse mostrano di obliterare completamente che la corte distrettuale ha escluso, nella specie, l’esistenza di un affidamento incolpevole del terzo, appunto la BNL, perché: i) quest’ultima “non poteva confidare senza colpa sull’esistenza dei poteri rappresentativi in capo a S.P.F., dal momento che il contratto di conto corrente garantito da pegno era intestato esclusivamente alla moglie di costui, P.S.G….”. Affermazione, questa, che è rimasta priva di qualsivoglia adeguata censura in questa sede; ii) “non vi sono elementi dai quali desumere che vi sia stato un comportamento colposo da parte di colui che ha dato causa alla situazione di apparenza…”, essendosi negata, in tal modo, con accertamento fattuale qui sindacabile solo sotto il profilo motivazionale e nei ristretti limiti in cui il novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lo consente (alcunché, però, è stato dedotto, sotto questo aspetto, nelle censure in esame, e dovendosi richiamare quanto si è già detto in relazione al primo motivo), la configurabilità di un comportamento colposo della rappresentata, tale da ingenerare nella banca la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza fosse stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente.

2.3.1. Trattasi di conclusione assolutamente coerente con i consolidati principi di legittimità, che qui si intendono ribadire, secondo cui: i) “in tema di rappresentanza, possono essere invocati i principi dell’apparenza del diritto e dell’affidamento incolpevole allorché non solo vi sia la buona fede del terzo che ha stipulato con il falso rappresentante, ma anche un comportamento colposo del rappresentato, tale da ingenerare nel terzo la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente” (cfr. Cass. n. 18519 del 2018; Cass. n. 3787 del 2012. In senso sostanzialmente conforme, si vedano pure Cass. n. 15645 del 2017 e Cass. n. 23448 del 2014); ii) ove sorga contestazione sull’esistenza del potere di rappresentanza del soggetto che abbia speso il nome altrui, l’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza di tale potere compete al terzo contraente che pretenda di addossare al rappresentato gli effetti del contratto concluso a suo nome (cfr. Cass. n. 15454 del 2020; Cass. n. 20549 del 2018; Cass. n. 1660 del 1980; Cass. n. 3788 del 1978; Cass. n. 3961 del 1978); iii) nei contratti formali, per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam (tale dovendosi indubbiamente considerare il contratto di gestione titoli intercorso tra la P. e la BNL) il principio dell’apparenza del diritto non può trovare applicazione rispetto alla rappresentanza, atteso che per i suddetti contratti sussiste un onere legale di documentazione della procura, dalla cui mancanza si deve dedurre l’esistenza di una colpa inescusabile dell’altro contraente (cfr. Cass. n. 3364 del 2010).

2.4. A tanto deve soltanto aggiungersi che il giudizio di legittimità non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass. n. 8758 del 2017, Cass., SU, n. 34476 del 2019 e Cass. n. 32026 del 2021; Cass. n. 40495 del 2021; Cass. n. 1822 del 2022; Cass. n. 2195 del 2022; Cass. n. 3156 del 2022).

3. Il quarto motivo di ricorso, infine, denuncia la “assoluta mancanza di motivazione, nonché, in ogni caso, illogicità e contraddittorietà della motivazione, in ordine alla pretesa colpa della BNL, nell’accertamento della sussistenza dei poteri del falsus procurator. Violazione conseguente dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4)”. Si afferma che “la sentenza impugnata, (…), non spende una sola parola di motivazione, per sorreggere l’affermazione, che resta del tutto apodittica, secondo cui “la BNL non poteva confidare senza colpa sull’esistenza dei poteri rappresentativi””.

3.1. Allo scrutinio di questa doglianza è doveroso premettere che, come ancora recentemente ribadito da questa Corte (cfr. anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 593 del 2022; Cass. n. 11229 del 2021; Cass. n. 395 del 2021, per effetto della già descritta nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è ormai denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; questa anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014; Cass. n. 7472 del 2017. Nello stesso senso anche le più recenti Cass. n. 20042 del 2020 e Cass. n. 23620 del 2020) o di sua contraddittorietà (cfr. Cass., n. 24395 del 2020). In particolare, il vizio di omessa o apparente motivazione della decisione sussiste qualora il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (cfr. Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 23684 del 2020; Cass. n. 20042 del 2020; Cass. Cass. n. 9105 del 2017; Cass. n. 9113 del 2012).

3.2. Ciò posto, sotto il profilo del denunciato vizio di motivazione contraddittoria o illogica, la censura è radicalmente inammissibile perché fa riferimento ad una nozione di vizio di motivazione non riconducibile ad alcuna delle ipotesi previste dal codice di rito, ed in particolare non sussumibile nel vizio contemplato dall’appena menzionato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella sua novellata formulazione, atteso che tale mezzo di impugnazione può concernere esclusivamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti.

3.2.1. Con riguardo, invece, alla lamentata totale assenza di motivazione come precedentemente descritta, un simile vizio, da apprezzare qui non rispetto alla correttezza della soluzione adottata o alla sufficienza della motivazione offerta, bensì unicamente sotto il profilo dell’esistenza di una motivazione effettiva, e’, nella specie, palesemente insussistente, avendo la corte territoriale chiaramente indicato – con motivazione che, pur nella sua sinteticità, soddisfa comunque il “minimo costituzionale” richiesto da Cass. n. 8053 del 2014 – la ragione (“la BNL non poteva confidare senza colpa sull’esistenza dei poteri rappresentativi in capo a S.P.F., dal momento che il contratto di conto corrente garantito da pegno era intestato esclusivamente alla moglie di costui, P.S.G….”) della ritenuta configurabilità della colpa della odierna ricorrente quanto al mancato accertamento della insussistenza del potere rappresentativo del S.P..

3.2.2. Va qui solo ricordato che quello di gestione titoli intercorso tra la P. e la BNL è indubbiamente un contratto formale, sicché pure volendosi convenire con quest’ultima sul fatto che la prima avesse certamente la facoltà di avvalersi di un rappresentante per l’esercizio dei diritti da esso derivatile, ciò avrebbe comunque imposto la forma scritta nel conferimento del corrispondente incarico, la mancanza della quale, pertanto, unitamente all’inapplicabilità del principio dell’apparenza del diritto rispetto alla rappresentanza stessa, giustifica l’affermazione della colpa inescusabile BNL (cfr. la già citata Cass. n. 3364 del 2010).

4. In definitiva, l’odierno ricorso va respinto, restando le spese di questo giudizio di legittimità regolate dal principio di soccombenza, con attribuzione all’Avv. Prof. Giovanni Andrea Callea ed all’Avv. Emilia Velletri, difensori, rispettivamente, del S.P. e della P., per dichiarazione di fattone anticipo. Deve darsi atto, altresì, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, che si liquidano, per ciascuna parte controricorrente, in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge, con attribuzione all’Avv. Prof. Giovanni Andrea Callea ed all’Avv. Emilia Velletri, difensori, rispettivamente, del S.P. e della P., per dichiarazione di fattone anticipo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 4 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2022

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