LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 468/2017 proposto da:
S.M.C., M.C., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MAGNAGRECIA, 84, presso lo studio dell’avvocato LUCA CHESSA, rappresentati e difesi dall’avvocato LUCA MARCONI;
– ricorrenti –
contro
V.C.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 137/2016 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 19/05/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 12/10/2021 dal Consigliere Dott. ROSSANA GIANNACCARI.
FATTI DI CAUSA
V.C., proprietaria di un appartamento sito al piano terra, citò in giudizio innanzi al Tribunale di Milano M.C. e S.M., proprietari di un appartamento ubicato nel medesimo immobile, lamentando che i convenuti avevano alterato il tetto comune mediante la realizzazione di una terrazza al posto del tetto.
Si costituirono i convenuti e, in via riconvenzionale, chiesero la condanna dell’attrice alla rifusione delle spese sostenute per il rifacimento della scala che portava al terrazzo.
La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 19.5.2016, confermò la sentenza di primo grado, con cui era stata accolta la domanda principale; osservò che le modifiche al tetto non comportavano semplicemente un uso più intenso della cosa comune, in ragione della rilevanza degli interventi e delle dimensioni della terrazza, che rendevano impossibile l’utilizzo da parte degli altri condomini del bene comune anche per utilizzazioni future come l’appoggio di antenne, di pannelli solari o di altre utilità.
La corte distrettuale ritenne che non vi fosse la prova dell’autorizzazione dell’attrice all’intervento di modifica del tetto comune, non essendo, a tal fine, sufficiente il bonifico di Euro 4000,00, ricevuto dai convenuti, perché privo dell’indicazione della causale.
Quanto alla domanda riconvenzionale proposta dai convenuti di rimborso delle spese sostenute per il rifacimento della scala che portava al terrazzo, modificata sia in larghezza che in estensione, la Corte di merito ritenne che esse non fossero dovute perché si trattava di un’innovazione non autorizzata e non di un mero intervento di manutenzione – e, sotto altro profilo la scala serviva solamente l’appartamento al piano superiore.
Le spese di lite vennero compensate nella misura di 1/4 a carico dell’attrice, in considerazione dell’esito del giudizio, considerando la prevalente soccombenza dei convenuti, in considerazione della rilevanza anche economica del ripristino della falda del tetto.
Per la cassazione del decreto hanno proposto ricorso M.C. e S.M. sulla base di quattro motivi. Non ha svolto attività difensiva V.C..
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, oltre al vizio motivazionale in relazione alla mancata prova dell’accordo, intercorso tra le parti, in ordine alla modifica del tetto comune, non avendo la Corte di merito dato ingresso alle prove richieste dai ricorrenti; inoltre, avrebbe ritenuto insufficiente il bonifico di Euro 4000,00, ricevuto dai convenuti, perché privo dell’indicazione della causale. Detta motivazione sarebbe, inoltre, insufficiente e contraddittoria per omessa valutazione di ulteriori elementi di prova, segnatamente la sentenza del Tribunale di Trento, che avrebbe imposto detti lavori, la contestualità tra la fine dei lavori, attestata dal rilascio di abitabilità e il pagamento delle somme percepite dai convenuti. Si tratterebbe di elementi di prova decisivi indipendentemente dall’omessa indicazione della causale del bonifico. Il comportamento dall’attrice, che avrebbe provveduto, senza riserve e contestazioni a rimborsare la quota parte dei lavori eseguiti per la realizzazione della vasca terrazza costituirebbe quindi prova del consenso all’esecuzione degli interventi.
Il motivo non è fondato.
In tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c., è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cassazione civile sez. un., 30/09/2020, n. 20867).
Nel caso di specie, i ricorrenti censurano l’apprezzamento delle prove da parte del giudice di merito attraverso un’alternativa valutazione delle risultanze di causa, al fine di provare che le parti si erano accordate per la modifica del tetto, inammissibile in sede di legittimità.
Inammissibile e’, altresì, la censura relativa al vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione, in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134 (Cass. Sez., Unite 8054/2014).
Si è quindi fuori dall’ambito della violazione dell’art. 116 c.p.c. e del vizio motivazionale in quanto la Corte di merito ha valutato la prova costituita dal bonifico ricevuto dai convenuti, pur non ricavando da esso la prova dell’autorizzazione al consenso delle opere modificative del tetto.
Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, oltre al vizio motivazionale, perché sarebbe stato onere dell’attrice provare che l’intervento alterava la destinazione del bene comune o, in alternativa, impediva ai convenuti di farne pari uso mentre tale onere sarebbe stato posto a carico del convenuti. Sarebbe quindi errato far discendere dalla modifica del bene comune l’illegittimità dell’intervento, ai sensi dell’art. 1102 c.c., senza dimostrare l’alterazione della destinazione ed il pregiudizio derivante dalla possibilità dei condomini di farne pari uso. Nel caso di specie, la modifica del tetto avrebbe riguardato un’estensione pari al 20-25% della falda del tetto comune tale da consentire ai comproprietari l’utilizzazione del bene. Contrariamente a quanto affermato dalla corte di merito, le modifiche apportate consentirebbero un uso più intenso della cosa comune da parte del condomino, senza alterarne la destinazione.
Il motivo non è fondato.
In tema di condominio negli edifici, le innovazioni di cui all’art. 1120 c.c., si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall’ad, 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne, poi, l’aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui perseguimento sono rivolte (Cassazione civile sez. II, 29/01/2021, n. 2126;Cassazione civile sez. II, 04/09/2017, n. 20712).
A norma dell’art. 1102 c.c., comma 1, applicabile al condominio negli edifici in virtù del rinvio operato dall’art. 1139 c.c., ciascun condomino può apportare a sue spese le “modificazioni” necessarie per il migliore godimento delle cose comuni, sempre che osservi il duplice limite di non alterare la destinazione e di non impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso, secondo il loro diritto. Entro questi limiti, perciò, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti, ciascun condomino può servirsi altresì dei muri perimetrali comuni dell’edificio, del tetto e degli spazi comuni purché non ne alteri la destinazione e non leda il decoro architettonico del fabbricato, statuito espressamente dall’art. 1120 c.c., in tema di innovazioni (Cassazione civile sez. II, 13/11/2020, n. 25790).
Nel caso di specie, la trasformazione del tetto comune in terrazza si inquadra nella modificazione della cosa comune, ragione per la quale non è richiesto il consenso dell’altro condomino.
Deve sottolinearsi come la più recente interpretazione di questa Corte afferma che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, sempre che un tale intervento dia luogo a modifiche non significative della consistenza del bene, in rapporto alla sua estensione, e sia attuato con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio di una terrazza mediante idonei materiali (Cass. Sez. 2, 03/08/2012, n. 14107; si vedano anche Cass. Sez. 6 – 2, 04/02/2013, n. 2500; Cass. Sez. 6-2, 25/01/2018, n. 1850; Cass. Sez. 6-2, 21/02/2018, n. 4256).
La Corte d’appello di Trento ha accertato in fatto che le modifiche al tetto non comportavano semplicemente un uso più intenso della cosa comune, in ragione della rilevanza degli interventi e delle dimensioni della terrazza, lunga oltre sei metri ed estesa mq 16,35, a fronte di una falda di poco meno di dieci metri. Detta estensione rendeva impossibile l’utilizzo da parte degli altri condomini del bene comune anche per utilizzazioni future come l’appoggio di antenne, di pannelli solari o di altre utilità.
E’ evidente come l’accertamento sia riservato al giudice di merito e, come tale, è censurabile in sede di legittimità non per violazione dell’art. 1102 c.c., ma soltanto nei limiti di cui all’art. 360 c.c., comma 1, n. 5.
Ne’ può accedersi alla tesi dei ricorrenti in relazione alla possibilità di un uso frazionato del terrazzo; esso, secondo la giurisprudenza di questa Corte, può essere consentito per accordo fra i partecipanti solo se l’utilizzazione, concessa nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c., rientri tra quelle cui è destinato il bene e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comunisti, trovando l’utilizzazione da parte di ciascun comproprietario un limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri. Qualora, pertanto, la cosa comune sia alterata o addirittura sottratta definitivamente alla possibilità di godimento collettivo nei termini funzionali originariamente praticati, non si rientra più nell’ambito dell’uso frazionato consentito, ma nell’appropriazione di parte della cosa comune, per legittimare la quale è necessario il consenso negoziale di tutti i partecipanti che – trattandosi di beni immobili – deve essere espresso in forma scritta “ad substantiam” (Cassazione civile sez. II, 11/09/2020, n. 18929).
Nel caso di specie, va ravvisata l’illegittimità della trasformazione del tetto comune in terrazzo, per violazione dell’art. 1102 c.c., in quanto era stata sottratta parte del tetto comune alla fruizione collettiva.
Con il terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e 324 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1120 c.c., art. 1123 c.c. e art. 1124 c.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: vi sarebbe la violazione del giudicato interno costituito dalla sentenza del Tribunale di Trento N. 1304/2014, che avrebbe ritenuto che detta scala non costituiva un’innovazione poiché non mutava la destinazione della cosa comune. Si tratterebbe, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, di una modifica della cosa comune perché non ne altererebbe l’entità sostanziale e non ne muterebbe la destinazione originaria ma renderebbe più comodo il godimento della cosa comune. Inoltre, secondo i ricorrenti, la realizzazione della scala avrebbe dato maggior luce all’appartamento della V.. Nell’ambito dello stesso motivo, i ricorrenti contestano che la scala servisse solo il proprietario dell’appartamento sito al piano terra sicché alle spese di manutenzione e/o sostituzione della scala avrebbero dovuto concorrere tutti i condomini, ai sensi dell’art. 1124 c.c..
Il motivo non è fondato ma la motivazione deve essere corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c..
Alla luce della richiamata distinzione tra modifica ed innovazione, il rifacimento della scala, con cambiamento di posizione e dimensioni, costituisce una modificazione e non una innovazione, come erroneamente sostenuto dalla Corte di merito in quanto non alterava la destinazione della cosa comune.
La sentenza va però confermata perché il dispositivo è conforme a diritto, previa correzione della motivazione, in quanto la Corte distrettuale ha accertato che la scala in questione serviva unicamente l’appartamento al piano superiore sicché, a norma degli artt. 1123 e 1124 c.c., la spese per la sua sostituzione e manutenzione non gravano sul proprietario della porzione al piano terra.
L’art. 1123 c.c., comma 2, prevede che la partecipazione a ciascuna spesa debba essere proporzionata al godimento che ogni condomino può trarre dalla cosa comune (Cass. 12.11.97 n. 11152, Cass. 20.11.96 n. 10214).
L’obbligazione di concorrere alle spese in relazione all’uso, da intendersi non in senso soggettivo ma in relazione alla destinazione del bene ai condomini in misura diversa, implica che il condomino non è tenuto a sopportare le spese relative alla cosa che in alcun modo, per ragioni strutturali o attinenti alla sua destinazione, possano arrecargli utilità.
L’obbligo di contribuire alle spese deve essere quindi fondato sull’utilità che ad ogni singola proprietà esclusiva può derivare dalla cosa comune sicché se la cosa oggetto dell’intervento non può servire ad uno o più condomini non vi è obbligo di contribuire alle spese.
Il criterio della ripartizione delle spese in relazione all’uso trova anche regolamentazione nell’ipotesi di condominio parziale, configurabile ex lege tutte le volte in cui un bene risulti, per le sue obbiettive caratteristiche strutturali e funzionali, destinato oggettivamente al servizio e/o al godimento, in modo esclusivo, di una parte soltanto dell’edificio in condominio. In tal caso, i partecipanti al gruppo non hanno il diritto di partecipare all’assemblea relativamente alle cose di cui non hanno la titolarità e, conseguentemente non concorrono alle spese se dalle cose indicate dall’art. 1117 c.c. (scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte del fabbricato) essi non ne traggano utilità, salva diversa attribuzione per titolo (Cass. Civ., Sez. II, 16.1.2020 n. 791; Cass. Civ., Sez. II, 19.6.2000, n. 8292).
A fortiori, il principio di diritto citato è applicabile in caso di condominio minimo.
Con il quarto motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 93 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte distrettuale compensato per un quarto le spese di lite di lite, senza motivare in relazione alla prevalente soccombenza dei ricorrenti.
Il motivo è infondato.
Ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, in caso di soccombenza reciproca il giudice può compensare le spese di lite parzialmente ove non ritenga di compensare integralmente le spese, nell’ipotesi in cui la domanda di una parte, pur se accolta, ha valore minore rispetto a quella, anch’essa accolta, dell’altra parte (ex multis Cassazione civile sez. VI, 21/01/2020, n. 1269).
Nel caso di specie, la Corte distrettuale ha comparato gli esiti delle diverse domande formulate dalle parti ed il loro peso dal punto di vista economico, soprattutto in relazione alla necessità di ripristino del tetto e, ritenendo prevalente la soccombenza degli appellanti, ha disposto la compensazione parziale delle spese nella misura di tre quarti a loro carico.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in dispositivo.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 12 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2022
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