Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.4909 del 15/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16466/2019 proposto da:

G.L.G., rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIO VALENTINI, (Pec:

antonio.valentini.pecordineavvocatilaquila.it), ed Avv. LUCIA MUZZIOLI, Via M. Gelsomini 26/A;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI PRATA D’ANSIDONIA, in persona del SINDACO p.t., E.P., rappresentato e difeso dall’avvocato FABRIZIO FOGLIETTI, elettivamente domiciliato in ROMA presso lo Studio legale SABATINI, SINAGRA, SANCI, viale GORIZIA N. 14;

– controricorrente –

e contro

GRAN SASSO ACQUA SPA, in persona del rappresentante legale p.t., A.F., rappresentata e già difesa dall’avvocato ALESSANDRO PICCININI, ed elettivamente domiciliata in ROMA presso lo Studio dell’avvocato MASSIMILIANO FICUS, Via CARLO POMA N. 4/SC. D, ora dall’Avv. Gabriella Bocchi, domiciliata in Cassazione;

– controricorrente –

e contro

W.F. COSTRUZIONI, già IMPRESA F. GEOM. W. e C. SAS, in persona del legale rappresentante, F.W., rappresentata e difesa dall’avvocato VALENTINO VENTA, elettivamente domiciliata in ROMA presso lo Studio dell’avvocato ANNALISA PACE, via TREMITI n. 10;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 390/2019 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata in data 6 marzo 2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio in data 15/12/2021 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.

FATTI DI CAUSA

G.L.G. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di L’aquila, il Comune di Prata d’Ansidonia e l’Impresa F. Geom. W. & C. SAS, per chiederne, previo accertamento della responsabilità, la condanna, in solido e/o per quanto di rispettiva ragione, al risarcimento dei danni, indicati nella misura di Lire 10.000.000 ovvero in quella diversa provata in corso di causa.

A tal fine adduceva che, a causa di un forte temporale verificatosi in data *****, l’immobile di sua proprietà era stato invaso da acque luride affioranti dai sanitari del bagno, le quali si erano propagate lungo la facciata ed erano penetrate nella cantina adibita a dispensa. La causa dei danni veniva imputata all’ostruzione della condotta fognaria verificatasi in occasione dei lavori di realizzazione della rete metanifera appaltati dal Comune alla Impresa F..

L’impresa F., costituitasi in giudizio, contestava la propria responsabilità, imputando l’ostruzione al palese stato di degrado della rete fognaria nel tratto in cui veniva attraversata dalla rete idrica.

Il Comune deduceva, invece, che l’ostruzione della rete con un pezzo di tavola nella conduttura andava ascritto alla Impresa F., che aveva lasciato alcune tavole di legno all’interno e nei pressi di un pozzetto rimasto aperto. Chiedeva ed otteneva di chiamare in giudizio il Co.Ge.Ri, ora Gran Sasso Acqua SPA, asserendo che il suo comportamento avesse concorso a cagionare il danno, perché il tratto di fognario ostruito era attraversato da un tubo di rete idrica di sua proprietà.

Il Co.Ge.Ri. respingeva ogni addebito, affermandosi gestore della sola rete idrica.

Con sentenza n. 190/2011, il Tribunale rigettava la domanda dell’attrice.

La Corte d’Appello di L’Aquila, con la sentenza n. 390/2019, respingeva l’appello principale di G.L.G. e quello incidentale del Comune di Prata d’Ansidonia.

Segnatamente, la Corte territoriale rigettava la domanda ex art. 2051 c.c., nei confronti dell’Impresa F., ritenendo che l’esecuzione dei lavori di metanizzazione, che giustificava la disponibilità, da parte sua, del tratto di rete fognaria, non la rendesse custode dello stesso ed escludesse, quindi, l’applicabilità dell’art. 2051 c.c., aggiungendo che la sentenza di prime cure aveva adeguatamente motivato anche in punto di inapplicabilità dell’art. 2043 c.c.; riteneva infondata la censura di violazione dell’art. 115 c.p.c., da parte del Tribunale, perché tanto il Comune quanto il Consorzio avevano espressamente contestato la sussistenza dei danni lamentati e la loro quantificazione e detta contestazione non poteva essere censurata per genericità, perché il grado di specificità della contestazione e’, secondo un principio giurisprudenziale consolidato, da rapportare al grado di specificità delle allegazioni e delle prove; escludeva la possibilità di applicare l’art. 1226 c.c., perché l’esercizio del potere di liquidare equitativamente il danno presuppone la prova della sua ricorrenza e questa prova era mancata perché agli atti vi era solo un preventivo dei lavori da cui non poteva evincersi la necessità di demolire e rifare l’intera pavimentazione e la scala né quella di tinteggiare le pareti, né la richiedente si era trovata nell’impossibilità di provare le spese occorse per il ripristino dell’immobile.

Affidandosi a 4 motivi G.L.G. ricorre per la cassazione della suddetta decisione.

Resistono con separati controricorsi il Comune di Prata d’Ansidonia, Gran Sasso Acqua SPA e W.F. Costruzioni SRL.

La causa è stata trattata in Camera di Consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni scritte.

Il Comune di Prata d’Ansidonia illustra il proprio controricorso con memoria.

MOTIVAZIONI IN DIRITTO 1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non avere la Corte territoriale ritenuto sussistente il rapporto di custodia con riferimento all’Impresa F..

La tesi sostenuta è che la Corte territoriale abbia escluso la ricorrenza di un rapporto di custodia, omettendo di considerare una serie di univoche circostanze fattuali e precisamente: i) che l’evento dannoso si era verificato in occasione dell’esecuzione dei lavori alla rete metanifera che erano stati affidati in appalto all’Impresa F.; ii) che proprio il personale della Impresa F. aveva riscontrato l’ostruzione della condotta fognaria con pezzi di tavola nel punto in cui il tubo della fogna veniva attraversato da quello della rete idrica; iii) che gli operai della Impresa F. stavano effettuando delle operazioni che avevano interessato il pozzetto e soprattutto la griglia a monte dello stesso.

Premesso che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, in quanto il sindacato demandato a questa Corte non concerne l’esistenza di un logico e complessivo apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, non potendo oramai verificare l’adeguatezza o l’inconferenza fattuale delle argomentazioni di cui il giudice di merito si sia avvalso per formare il proprio convincimento, deve escludersi che la censura qui prospettata abbia ad oggetto lo specifico vizio denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e che abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); il quale è denunciabile, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, cioè con l’indicazione da parte del ricorrente del “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, del “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, dell “come” e del “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e della sua “decisività” (in termini Cass. sez. un., 07/04/2014, n. 8054).

Nell’ordinanza 25/09/2018, n. 22786, questa Corte ha precisato cosa si intende per “fatto” decisivo per il giudizio e che cosa non vi si può ricondurre.

Fatto storico, rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e’:

i), un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico (cfr. Cass. n. 21152 del 2014; Cass., Sez. Un., n. 5745 del 2015);

ii) un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto (cfr. Cass. n. 5133 del 2014);

iii) una vicenda la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053 del 2014).

Non sono fatti idonei a cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5:

iv) le argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015);

v) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053 del 2014);

vi) una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (cfr. Cass. n. 21439 del 2015);

vi) le domande o le eccezioni formulate nella causa di merito, ovvero i motivi di appello, i quali costituiscono i fatti costitutivi della “domanda” in sede di gravame.

In disparte il mancato soddisfacimento degli oneri di allegazione posti a carico di chi denuncia il vizio qui scrutinato, unitamente alla violazione della prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, quanto alle prove che la Corte territoriale non avrebbe esaminato, la censura si risolve nella contestazione della insussistenza del rapporto di custodia attraverso la riproposizione di argomentazioni già esaminate dalla sentenza impugnata e ritenute non conducenti, perché contrastanti con le risultanze istruttorie, da cui era emerso che l’impresa F. non stava effettuando lavori sulla fogna comunale e non aveva rimosso il tombino, e con l’oggetto del contratto di appalto.

Nella sostanza la censura si risolve nella richiesta di una diversa valutazione delle emergenze istruttorie che questa Corte non può soddisfare, stanti i limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità, senza alcuna censura che investa l’error iuris in cui eventualmente la sentenza impugnata sarebbe incorsa nell’escludere la ricorrenza di un rapporto custodiale rilevante ai sensi dell’art. 2051 c.c..

Per completezza, gli elementi istruttori lamentati come pretermessi, per quanto è dato comprendere nonostante la già rilevata carenza di specificità del motivo, parrebbero riguardare profili che rileverebbero ai fini della diversa fattispecie prevista dall’art. 2043 c.c., la cui utile conoscibilità in grado di appello è stata dalla Corte territoriale reputata esclusa con motivazione non adeguatamente attinta da valida censura in questa sede: ciò che costituirebbe ulteriore ragione di inammissibilità, per irrilevanza, della relativa doglianza.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 115 e 167 c.p.c., e dell’art. 1226 c.c..

La statuizione attinta dalla censura è quella con cui la Corte territoriale ha ritenuto carente la dimostrazione del quantum debeatur in ordine ai danni alla pavimentazione, alla scalinata, all’arredo ed alla tinteggiatura esterna e non surrogabile l’onere probatorio con l’invocazione della liquidazione equitativa; l’errore della sentenza gravata sarebbe quello di non aver attribuito rilievo al fatto che i convenuti avevano contestato la quantificazione dei danni solo ricorrendo ad una formula di stile non involgente le circostanze poste a fondamento della domanda; di conseguenza, il fatto costitutivo dedotto avrebbe dovuto essere considerato incontroverso ed espunto dall’ambito degli accertamenti richiesti ed avrebbe dovuto giustificare la liquidazione equitativa del danno, in ragione dell’oggettiva difficoltà di quantificarlo, perché quanto conservato in cantina era stato prontamente gettato, come dimostrato attraverso prova per testi, e perché dalla prova fotografica in atti emergevano i segni della colatura dei liquami dal balcone lungo tutta la facciata e dal preventivo dei lavori da eseguire il giudice a quo avrebbe dovuto ritenere provato il danno e forniti gli elementi per la sua liquidazione ex art. 1226 c.c..

I profili di censura sono plurimi e meritano di essere trattati separatamente.

La dedotta violazione dell’art. 115 c.p.c., è infondata, perché il giudice a quo ha correttamente applicato la giurisprudenza di questa Corte. E’ vero che la regola è che la contestazione debba essere chiara e specifica, giacché se fosse “sufficiente una contestazione generica e di stile per costringere l’attore a provare tutti i fatti costitutivi della domanda, si finirebbe per negare in pratica la regola che viene ammessa in teoria: e cioè l’onere di contestazione tempestiva (Cass. n. 10860 del 18/05/2011; Cass. n. 19896 del 06/10/2015; Cass. n. 6094 del 26/03/2015)… tuttavia anche l’onere di analitica contestazione dei fatti dedotti dall’attore non è senza eccezioni: esso, infatti, viene meno quando l’attore, per primo, si sottragga all’onere di analitica allegazione dei fatti posti a fondamento della domanda. L’onere di contribuire alla fissazione del thema decidendum e, di conseguenza, del thema probandum, opera infatti identicamente rispetto all’una o all’altra delle parti in causa, sicché, a fronte di una generica deduzione da parte del ricorrente, la difesa della parte resistente non può che essere per forza di cose altrettanto generica, ed in questo caso la genericità della difesa non solleva affatto l’attore dai suoi oneri probatori”. Pertanto, se l’allegazione attorea è specifica, e la contestazione del convenuto manca od è generica, l’attore è esonerato dall’onere di provare i fatti allegati e genericamente contestati; se l’allegazione attorea è specifica, e la contestazione del convenuto è altrettanto specifica, l’attore ha l’onere di provare i fatti allegati; se l’allegazione attorea è generica e la contestazione del convenuto è altrettanto generica, l’attore ha l’onere di provare i fatti allegati; se l’allegazione attorea è generica, e la contestazione del convenuto è specifica (il che non può teoricamente escludersi), l’attore ha non solo l’onere di provare i fatti allegati, ma – prima ancora – quello di contestare analiticamente i fatti dedotti dal convenuto, che altrimenti dovranno darsi per ammessi (Cass. 29/04/2020, n. 8376).

L’applicazione dei suddetti principi alla fattispecie concreta è stata corretta perché, a fronte di un’allegazione generica, nell’atto introduttivo del giudizio, da parte dell’odierna ricorrente, i convenuti contestarono con lo stesso grado di genericità i fatti addotti, conseguendone l’onere della ricorrente di soddisfare l’onere di allegarli specificamente ed altrettanto specificamente provarli.

Anche la censura relativa alla violazione dell’art. 1226 c.c., da parte del giudice a quo non coglie nel segno. La sentenza, infatti, resiste alle critiche mossele perché come insegna la giurisprudenza di questa Corte, la valutazione equitativa presuppone che il danno sia certo nella sua esistenza ontologica (Cass. 19/12/2011, n. 27447), cioè che “la sussistenza di un danno risarcibile nell’an debeatur sia stata dimostrata ovvero sia incontestata” (Cass. 04/04/2017, n. 8662). Ne consegue che, ove la prova del danno non sia stata raggiunta, anche in ordine alla sua ascrivibilità alle controparti per quanto argomentato in relazione al primo mezzo di ricorso, non può chiedersi al giudice di creare i presupposti logici e normativi per la liquidazione del danno richiesto (Cass. 04/08/2017, n. 19447).

La ratio della valutazione equitativa, una volta che la prova del danno risarcibile sia stata raggiunta, e, in mancanza degli elementi necessari per procedere ad una sua puntuale quantificazione, è quella di rimettere al potere-dovere del giudice di sopperire alle eventuali difficoltà di quantificazione del danno, al fine di assicurare l’effettività della tutela risarcitoria (Cass. 06/04/2017, n. 8920) e la ricerca di una omogeneità tra risarcimento accordato e danno risentito; giammai la valutazione equitativa assume valenza surrogatoria della prova del danno, né può pensarsi di utilizzarla per sopperire alla difficoltà di dimostrazione del nesso causale tra l’inadempimento o altra condotta illecita che ne sta alla base ed il danno (Cass. 27/04/2017, n. 10393). Tanto comporta che risponde a diritto la conclusione cui è pervenuta la Corte territoriale.

Ne’ ha rilievo la censura tutta fattuale circa l’efficacia probatoria del preventivo di spesa, che si concretizza nella pretesa di sostituirsi al giudice di merito nella valutazione, invece, spettante solo a lui, del rilievo da attribuire alle prove prodotte in giudizio.

Per finire, va rilevato che la violazione dell’art. 2697 c.c., può configurarsi solo ove venga dedotto che il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni. Viceversa, allorquando il motivo deducente la violazione del paradigma dell’art. 2697 c.c., non risulti argomentato in questi termini, ma solo con la postulazione (erronea) che la valutazione delle risultanze probatorie ha condotto ad un esito non corretto, il motivo stesso è inammissibile come motivo in iure ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c. (se si considera l’art. 2697 c.c., norma processuale) e ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (se si considera l’art. 2697 c.c., norma sostanziale, sulla base della vecchia idea dell’essere le norme sulle prove norme sostanziali) e, nel regime dell’art. 360, n. 5, oggi vigente,si risolve in un surrettizio tentativo di postulare il controllo della valutazione delle prove oggi vietato ai sensi di quella norma (Cass., Sez. Un., 5/08/2016, n. 16598).

In definitiva, il motivo non merita accoglimento in tutte le sue articolazioni.

3. Con il terzo motivo la ricorrente imputa alla sentenza impugnata di avere omesso l’esame di un punto decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, consistente nell’omesso esame delle prove orali e della documentazione ritualmente allegata e prodotta nel giudizio di primo grado.

La censura presenta gli stessi limiti di quella prospettata con il primo motivo, quanto alla ricorrenza dei presupposti che supportano la denuncia di omesso esame di fatto decisivo: e va incontro alla stessa sorte. Merita di essere sottolineato, peraltro, che le prove asseritamente pretermesse non sono state indicate con modalità idonee a soddisfare le prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, così come precisati ripetutamente dalla giurisprudenza di questa Corte: cfr. Cass., Sez. Un., 23/12/2019, n. 34469.

Del resto, neppure risulta adeguatamente censurata la specifica argomentazione in diritto della corte territoriale di esclusione di un’impossibilità di una prova precisa.

4.Con il quarto motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per essere stata condannata al pagamento delle spese di lite, soprattutto nei confronti degli appellanti incidentali, le cui doglianze, interpretate come condizionate, erano state ritenute assorbite dal rigetto dell’appello principale.

Il motivo è infondato, perché la condanna si è fondata sulla corretta applicazione del principio della soccombenza, da intendersi, per costante orientamento di questa Corte, nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese, dovendosi ricordare che la condanna alle spese processuali non trova il suo fondamento in un credito risarcitorio, ma trova la sua ragione nella volontà del legislatore di evitare che le spese sostenute dalla parte vittoriosa gravino su di essa; il legislatore ha quindi individuato nella parte soccombente quella tenuta a sostenere il relativo onere, salvo tuttavia i giusti motivi di cui all’art. 92 c.p.c., che costituiscono l’applicazione di un principio di equità risalente nel tempo (come ricorda, tra le più recenti, Cass. 01/12/2021, n. 37831).

L’assorbimento dei ricorsi incidentali non modifica il criterio di individuazione della parte soccombente, a cui carico porre il pagamento delle spese processuali.

5. Il ricorso è quindi da rigettare.

6. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

7. Si dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per porre a carico della ricorrente l’obbligo di pagamento del doppio del contributo unificato, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore delle parti controricorrenti, liquidandole in Euro 1.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge a favore della società W.F. Costruzioni e della società Gran Sasso Acqua ciascuna e in Euro 1.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge a favore del Comune di Prata d’Ansidonia.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello da corrispondere per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, dalla Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 15 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2022

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