LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. VANNUCCI Marco – rel. Consigliere –
Dott. FERRO Massimo – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 29877/2015 proposto da:
P.P., e M.N., elettivamente domiciliati in Roma, Via Chiana, n. 48, presso lo studio dell’avvocato Antonio Pileggi, che li rappresenta e difende per procure speciali estese in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Fondo Pensioni per il Personale della Banca Commerciale Italiana in liquidazione, in persona dei liquidatori pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Marcello Prestinari, n. 13, presso lo studio dell’avvocato Massimo Pallini, rappresentato e difeso dagli avvocati Pietro Ichino, Enrico Brugnatelli, e Francesco Brugnatelli per procure speciali rispettivamente estese in calce al controricorso e alla memoria di costituzione a mezzo di nuovo difensore;
– controricorrente –
avverso il decreto n. 12867/2015 del Tribunale di Milano, depositato il 16 novembre 2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25 gennaio 2022 dal consigliere Dott. Marco Vannucci.
FATTI DI CAUSA
1. Con decreto emesso il 16 novembre 2015 il Tribunale di Milano rigettò le opposizioni di P.P. e di M.N. allo stato passivo formato dai liquidatori del Fondo Pensioni per il Personale della Banca Commerciale Italiana in liquidazione (di seguito indicato come “Fondo”) nella parte in cui aveva escluso dal passivo della procedura di liquidazione: P. per credito pari a Euro 40.143,68, assistito dall’invocato privilegio di cui all’art. 2751-bis c.c., n. 1), oltre interessi e rivalutazione monetaria; M. per credito pari a Euro 27.521,70, assistito dall’invocato privilegio di cui all’art. 2751-bis c.c., n. 1), oltre interessi e rivalutazione monetaria.
1.1 Dopo avere descritto le vicende interessanti la vita del Fondo, dalla sua erezione in ente morale con R.D. 11 agosto 1921, n. 1201 fino alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 2 maggio 2013 dell’avviso di deposito dello stato passivo formato dai liquidatori del Fondo (oggetto di opposizione), la motivazione del decreto è nel senso che:
la questione centrale coinvolta dalla controversia è quella dell’applicabilità (o meno) al procedimento di liquidazione del patrimonio dell’ente dell’art. 27 del relativo statuto per l’ipotesi del verificarsi di plusvalenze derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare e dei diritti degli iscritti al Fondo di beneficiare di tali plusvalenze;
diversamente da quanto sostenuto dagli opponenti, il citato art. 27 dello statuto (prevedente l’attribuzione a lavoratori aventi determinati requisiti delle plusvalenze derivate dalla dismissione di immobili appartenenti al Fondo) era applicabile solo al normale esercizio dell’attività del Fondo, non anche alla fase finalizzata alla liquidazione del suo intero patrimonio (compresa la proprietà di immobili), in quanto con l’accordo intervenuto il 10 dicembre 2004 fra le “fonti istitutive del Fondo Pensioni” (id est, la Banca e le associazioni sindacali dei lavoratori dipendenti della banca) si decise di avviare il procedimento di liquidazione dell’ente e di destinare il ricavato dalla liquidazione dell’intero patrimonio immobiliare “non più alle categorie di pensionati e pensionabili cui si rivolgeva l’art. 27, ma esclusivamente a due categorie: quella di chi, all’epoca della riforma, era già andato in pensione e percepiva la relativa rendita e di quanti al 10/12/2004 erano ancora in attività”;
con tale accordo, inoltre: furono soppressi l’istituto della pensione di reversibilità e la possibilità di ottenere anticipazioni; fu deciso di sospendere, a partire dal 1 gennaio 2015, ogni ulteriore esborso di danaro ai creditori di “zainetti” (id est, le somme di danaro in accumulo nei conti individuali progettate con l’accordo, fra le stesse parti, del 16 dicembre 1999, il cui contenuto venne trasfuso nello statuto del Fondo); furono sospese le erogazioni in favore dei pensionati con “attribuzione, in luogo delle pensioni, di acconti sulla liquidazione della loro posizione”;
l’effetto dell’accordo del 2004 fu quello “di abrogare, pur implicitamente, l’art. 27 dello statuto, in quanto norma in concreto incompatibile con la volontà delle parti di destinare il ricavato della liquidazione dell’intero patrimonio del Fondo non più alle categorie di pensionati e pensionabili cui si rivolgeva l’art. 27, ma esclusivamente a due categorie: quella di chi, all’epoca della riforma, era già andato in pensione e percepiva la relativa rendita e di quanti al 10/12/2004 erano ancora in attività”; e tale interpretazione deriva dalle indicazioni testuali riprodotte nella motivazione (pagg. 8 e 9), nonché dai comportamenti delle parti di tale accordo nella motivazione dell’atto specificamente descritti (pagg. 10 e 11);
l’accordo del 2004, fonte avente rango pari a quello del 16 dicembre 1999, era peraltro idoneo “a dettare i criteri della futura liquidazione del Fondo, anche in contrasto con le previsioni statutarie che non contengono alcuna disposizione diretta a disciplinare la liquidazione dell’ente e la ripartizione del suo patrimonio”;
sotto il profilo sostanziale, d’altra parte, l’art. 27 dello statuto non attribuiva ai lavoratori iscritti al Fondo “un diritto soggettivo perfetto sulla dotazione dell’ente”, ma solo la “previsione di una possibile, ma niente affatto certa, integrazione del trattamento pensionistico complementare…nel caso di realizzazione di plusvalenze”, sì che la posizione soggettiva degli iscritti ben poteva “essere incisa dalla contrattazione collettiva anche in mancanza di uno specifico mandato o di una successiva ratifica da parte dei singoli lavoratori”;
l’accordo del 2004 non determina neppure lesione dell’art. 2117 c.c., non essendovi stata nella specie alcuna distrazione del patrimonio dell’ente dalla sua funzione previdenziale, bensì una modificazione legittima e ragionevole dei criteri di distribuzione del ricavato della vendita del patrimonio immobiliare nell’ambito della procedura di liquidazione generale del Fondo;
i due opponenti “aderirono alla riforma del Fondo, giacché tutte le loro rivendicazioni poggiano, sia pure con declinazioni diverse, sulla pretesa, perdurante vigenza dell’art. 27,” e non giova a loro “invocare l’accordo del 1999" (con il quale venne attuata una profonda riforma del Fondo” descritta nella pag. 2 della motivazione e le cui previsioni vennero “consacrate nel nuovo Statuo, approvato da COVIP il 20 dicembre 2000) “in quanto evidentemente assorbito e superato dal nuovo Statuto approvato”; se così non fosse sarebbe stato “del tutto superfluo l’aver richiesto agli iscritti di aderire al nuovo Statuto ed avere provveduto all’immediata liquidazione delle somme spettanti ai non aderenti”;
l’eccezione di prescrizione del diritto fatto valere dall’opponente M. era infondata, non essendo applicabile a tale diritto la prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948 c.c., n. 5), bensì quella ordinaria decennale (non verificatasi), “fermo restando che la maggior pretesa fatta valere dall’opponente che, in qualità di attivo, è già stato ammesso al passivo per Euro 76.414,66”;
il rapporto di lavoro fra la banca e l’opponente P. era cessato il ***** “nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo”; il suo rapporto con il Fondo “e’ cessato al momento del suo pensionamento e della richiesta liquidazione del cd. zainetto, con conseguente irrilevanza di tutte le vicende verificatesi nel periodo successivo”, e infondatezza dell’eccezione di prescrizione;
inoltre, “la percezione in un’unica soluzione del capitale maturato sul loro conto individuale, lo ha sottratto ai rischi cui, invece, sono rimasti inevitabilmente esposti i pensionati titolari di rendite e cioè sia al rischio “fisiologico” legato all’aspettativa di sopravvivenza di ognuno, sia ai timori legati alla situazione di disequilibrio in cui il Fondo fin dalla fine degli anni novanta si è venuto a trovare, senza che vi fosse alcuna certezza sugli esiti della dismissione degli immobili” e ciò spiega la diversità delle previsioni che li riguardano”.
2. P.P. e M.N. chiedono la cassazione del decreto con ricorso contenente quattro motivi, assistiti da memoria.
3. Il Fondo resiste con controricorso, assistito da memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. da parte del Tribunale di Milano per avere il decreto impugnato rigettato le proprie domande sulla base di un argomento (quello della abrogazione implicita dell’art. 27 dello statuto del Fondo) mai dedotto neppure dal Fondo (i cui argomenti sono riprodotti nella pag. 20 del ricorso) senza sollecitare il contraddittorio fra le parti sul punto e per avere trascurato che gli accordi del 16 dicembre 1999 e del 10 dicembre 2004, mai approvato dal COVIP e non sottoposto all’adesione individuale di essi ricorrenti (che invece avevano approvato l’accordo del 1999) erano stati stipulati fra soggetti fra loro non coincidenti.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono che il decreto impugnato è caratterizzato da violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 17 e del D.Lgs. n. 252 del 2005, art. 19, comma 2, lett. b), per non avere considerato che l’accordo del 2004 non era stato approvato dalla COVIP, come da tali disposizioni prescritto per le modificazioni dello statuto del Fondo.
3. Con il terzo motivo i ricorrenti censurano il decreto impugnato per violazione e falsa applicazione degli artt. 2077 e 1362 c.c. per avere trascurato che nell’accordo del 2004, i cui contenuti non erano stati da essi ricorrenti approvati, non conteneva alcun riferimento all’art. 27 dello statuto (per come modificato in esecuzione dell’accordo del 1999) e che tale clausola statutaria attribuiva ai lavoratori iscritti prima del 28 aprile 1993 e in servizio al 1 dicembre 2000 un diritto, seppure condizionato e non una mera aspettativa alla ripartizione delle plusvalenze realizzate dalla dismissione del patrimonio immobiliare dell’ente.
4. Infine i ricorrenti censurano (quarto motivo) il decreto impugnato per violazione e falsa applicazione dell’art. 3 dell’accordo del 16 dicembre 1999, il cui contenuto venne recepito nell’art. 27 dello statuto del Fondo, nonché dell’accordo del 10 dicembre 2004, nonché, in subordine, per violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1366,1367 e 1371 c.c.. in quanto, dall’interpretazione letterale delle clausole dell’accordo del 2004 (nel ricorso riprodotte) non emergeva alcuna volontà delle parti nel senso dell’abrogazione dell’art. 27 dello statuto.
5. Prima di passare all’esame dei, teste’ riassunti, motivi di ricorso è doveroso evidenziare che le questioni in questa sede sollevate dalla ricorrente hanno formato oggetto di dieci provvedimenti (una sentenza e nove ordinanze), emessi dalla Sezione Lavoro della Corte nel corso dell’anno 2021, dispositivi del rigetto di altrettanti ricorsi proposti per la cassazione di dieci decreti emessi dal Tribunale di Milano, recanti, come quello in esame, rigetto di altrettante opposizioni allo stato passivo del Fondo.
Si tratta, in particolare: della sentenza n. 22267; delle ordinanze n. 32536, n. 32553, n. 35178, n. 35976, n. 35985, n. 36227, n. 36228, n. 36708 n. 36923.
L’esame dei contenuti di tali precedenti rivela che: i decreti impugnati nei dieci procedimenti definiti dalla Sezione Lavoro avevano, quanto alle questioni di diritto coinvolte dalla liquidazione del Fondo, contenuti fra loro sovrapponibili; le nove ordinanze sopra citate sviluppano ordini di concetti espressamente mutuati dalla sentenza n. 22267 del 2021; i contenuti dei dieci decreti già scrutinati sono, a loro volta, sovrapponibili a quelli caratterizzanti il decreto in questa sede impugnato dai ricorrenti; le censure mosse a tali decreti si identificano, in buona sostanza, con quelle dai ricorrenti sviluppate per la cassazione del decreto da loro impugnato.
I ricorrenti non sviluppano, neppure con la memoria da loro depositata, argomenti di consistenza tale da determinare un ripensamento (come tale determinante una doverosa rimessione del ricorso alle sezioni unite della Corte) dell’orientamento interpretativo fatto proprio da tali dieci precedenti.
6. I motivi di ricorso sono trattati congiuntamente in quanto fra loro strettamente connessi.
Nel caso di specie il decreto impugnato accerta che:
a) con accordo collettivo stipulato il 16 dicembre 1999 fra le “fonti istitutive del Fondo Pensioni” (id est, la Banca e le associazioni sindacali dei lavoratori dipendenti della banca) venne disposta, per quanto qui interessa, anche la modificazione dell’art. 27 dello statuto del Fondo, approvata dalla Commissione di vigilanza sui Fondi Pensione (C.O.V.I.P.) il 20 dicembre 2000, relativa alla ripartizione fra i soggetti espressamente indicati in tale clausola “delle plusvalenze realizzate, a partire dall’anno 2000, nel comparto immobiliare del patrimonio del Fondo rispetto alla sua consistenza all’ultima data di valorizzazione” (il contenuto dell’art. 27 è riprodotto nella pag. 7 del decreto);
b) con accordo collettivo stipulato il 10 dicembre 2004 fra le stesse “fonti istitutive” (la deduzione dei ricorrenti relativa alla non identità delle associazioni sindacali parti di ciascuno dei menzionati accordi è inapprezzabile in quanto investe questione di mero fatto incidentalmente prospettata, oltretutto in maniera alquanto generica, senza denunciare vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)) venne deciso di procedere alla liquidazione del Fondo, con conseguente, per quanto qui interessa, vendita anche dell’intero suo patrimonio immobiliare il cui ricavato si decise di ripartire con le modalità nel decreto indicate, divergenti da quelle indicate dal citato art. 27 per le plusvalenze conseguite dalle vendite di immobili avvenute a partire dall’anno 2000;
c) lo statuto del Fondo non conteneva “alcuna disposizione diretta a disciplinare la liquidazione dell’ente e la ripartizione del suo patrimonio” (pag. 11 del decreto);
d) il consiglio di amministrazione del Fondo: nel periodo intercorso “tra la seconda metà del 2005 e l’inizio del 2006”, liquidò “l’intero patrimonio immobiliare” dell’ente, ricavando “Euro. 1.106 mln”, con realizzazione di una plusvalenza di “Euro. 536,2 mln”; il 13 giugno 2006 dispose l’avvio del procedimento di estinzione del Fondo con “ripartizione delle successive disponibilità patrimoniali proporzionalmente suddivise tra iscritti attivi e pensionati, in ragione dell’ammontare complessivo di zainetti e riserve”; il 21 novembre 2006 accertò l’estinzione del Fondo “per l’impossibilità sopravvenuta dell’originario scopo e per la compiuta realizzazione dello scopo derivante dalla trasformazione”;
e) il Prefetto, su richiesta del consiglio di amministrazione, dichiarò l’estinzione del Fondo il 20 dicembre 2006 e il Presidente del Tribunale nominò i liquidatori.
Tali accertamenti non sono messi in discussione dai ricorrenti; che non hanno neppure contestato avanti il giudice di merito la validità del menzionato accordo collettivo del 10 dicembre 2004.
Tanto premesso, la denuncia di violazione del’art. 112 c.p.c., è sostanzialmente priva di oggetto, in quanto, come la giurisprudenza della Sezione Lavoro della Corte, citata nel precedente punto 7, non ha mancato di rilevare, risulta di alquanta evidenza, dall’esame del contenuto della motivazione del decreto impugnato relativo ai rapporti fra contenuto dell’art. 27 dello statuto del Fondo (per come modificato in esecuzione dell’accordo fra le “fonti istitutive” del Fondo del 16 dicembre 1999) e contenuto dell’accordo fra le stesse “fonti istitutive” del Fondo del 10 dicembre 2004, che nel caso di specie non si trattò “dell’abrogazione dell’art. 27 dello Statuto e della precedente disciplina, ma solo di una deroga alle vecchie previsioni in relazione alla liquidazione dell’intero fondo, sicché non colgono nel segno i motivi di ricorso…che fanno riferimento alla non abrogazione delle norme pregresse: in altri termini, le vecchie norme non si applicano non in quanto abrogate, ma in quanto non si riferiscono alla liquidazione del fondo, disciplinato solo dalle norme successive” (così, in motivazione, Cass. n. 22267 del 2021 cit., nonché le altre cit., supra, sub 7.).
L’affermazione, contenuta nel decreto impugnato, secondo cui l’effetto dell’accordo del 10 dicembre 2004 fu quello “di abrogare, pur implicitamente, l’art. 27 dello statuto” è giuridicamente non corretta (nella disciplina legale delle associazioni riconosciute sono contemplate solo modificazioni statutarie esplicite): la stessa però va di necessità letta unitamente all’affermazione, che si rinviene nella stessa frase, secondo cui tale clausola statutaria è “in concreto incompatibile con la volontà delle parti di destinare il ricavato della liquidazione dell’intero patrimonio del Fondo non più alle categorie di pensionati e pensionabili cui si rivolgeva l’art. 27, ma esclusivamente a due categorie: quella di chi, all’epoca della riforma, era già andato in pensione e percepiva la relativa rendita e di quanti al 10/12/2004 erano ancora in attività”.
Il decreto impugnato è quindi da correggere nella sola parte in cui reca l’affermazione dell’avvenuta “abrogazione implicita” della clausola; nel senso dell’espunzione di tale affermazione (art. 376 c.p.c., u.c.).
Sono per contro conformi a diritto le affermazioni, desumibili dal decreto impugnato, secondo cui:
a) tale clausola statutaria, in quanto diretta a disciplinare i diritti dei lavoratori nel caso di dismissioni di parte del patrimonio immobiliare appartenente al Fondo, funzionali al perseguimento dello scopo suo proprio, è di per sé inidonea, in mancanza di altra clausola dello statuto che ne richiami il contenuto per il caso di liquidazione generale del patrimonio dell’ente, a disciplinare i diritti conseguenti alla decisione, di fonte pattizia, di disporre la liquidazione generale del patrimonio dell’ente (compresa la parte costituita da proprietà di beni immobili), avente tale esclusivo scopo dismissivo e, come tale, non funzionale al conseguimento dello scopo originario dello stesso ente nel cui ambito si inseriva l’art. 27 del relativo statuto;
il citato accordo collettivo del 10 dicembre 2004 ben poteva dunque prevedere modalità, diverse da quelle indicate dalla clausola statutaria, di ripartizione delle plusvalenze conseguite dai prezzi di vendita di tutte le proprietà di beni immobili appartenenti al Fondo nell’ambito del procedimento di liquidazione generale in discorso.
Inoltre, quanto alla conformità alla legge del contenuto dell’accordo collettivo del 10 dicembre 2004, i citati provvedimenti della Sezione Lavoro della Corte non hanno mancato di evidenziare (ribadendo sul punto i principi affermati da: Cass. n. 12751 del 1992; Cass. n. 16635 del 2003; Cass. n. 21234 del 2007; Cass. n. 13960 del 2014) che “nell’ipotesi di successione tra contratti collettivi, le modificazioni “in peius” per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 c.c.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale” (così, in motivazione, per tutte, Cass. n. 22267 del 2021, cit.).
Invero, l’accordo collettivo del 10 dicembre 2004, non avente alcuna incidenza di segno negativo sul patrimonio delle persone che avevano già acquisto il diritto al trattamento pensionistico prima della modificazione dell’art. 27 dello statuto (come detto avvenuta per effetto dell’accordo del 16 dicembre 1999), e avevano dunque già ricevuto il trattamento pieno, così facendo affidamento anche per il futuro sulla consistenza quantitativa di tale trattamento, “appare ragionevole e rispettoso del dettato normativo di cui al D.Lgs. n. 124 del 1993, che ammette che, in presenza di squilibri finanziari nella gestione di fondi di previdenza complementare costituiti per contratto collettivo, la stessa contrattazione può rideterminare la disciplina delle prestazioni” (così, in motivazione, per tutte, Cass. n. 22267 del 2021, cit.).
Da tali considerazioni discende il rigetto del ricorso; con conseguente condanna dei ricorrenti al rimborso in favore della parte vittoriosa delle spese processuali da costei anticipate nel presente giudizio nella misura in dispositivo liquidata.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti a rimborsare al controricorrente le spese da questi anticipate nel giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200 per esborsi e in Euro 7.000 per compenso di avvocato, oltre spese forfetarie pari al 15% di tale compenso, I.V.A. e c.p.A. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 25 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2022
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