LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –
Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –
Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Sul ricorso n. 17457-2015 R.G., proposto da:
M.B., cf *****, elettivamente domiciliato in Roma, alla via G.B. Morgangi n. 2/a, presso e nello studio degli avv. Umberto Segarelli e Livio M. Listanti, dai quali è rappresentato e difeso;
– Ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, cf *****, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis;
– Controricorrente –
Avverso la sentenza n. 3264/35/2014 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 16.05.2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio l’11 novembre 2021 dal Consigliere Dott. Francesco FEDERICI.
PREMESSO che:
A M.B. fu notificato l’avviso d’accertamento con cui l’Agenzia delle entrate rideterminò D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 38, comma 4, il reddito relativo all’anno d’imposta 2003, elevato ad Euro 142.716,68, con conseguente richiesta di maggiore Irpef e addizionali, oltre interessi e sanzioni. L’Ufficio considerò che gli incrementi patrimoniali ed il finanziamento infruttifero eseguito in favore della Società Immobiliare Esse Vi.BM s.r.l., della quale il ricorrente possedeva il 25% delle quote, costituivano indici di ricchezza incongruenti con il reddito dichiarato.
Contestando i presupposti dell’atto impositivo, il contribuente adì la Commissione tributaria provinciale di Roma, che con sentenza n. 31/54/2012 ne rigettò le ragioni. La pronuncia fu appellata dal soccombente presso la Commissione tributaria regionale del Lazio, che respinse l’impugnazione con la sentenza n. 3264/35/2014. Il giudice regionale, dopo aver affrontato e rigettato le questioni preliminari, ha ritenuto che il contribuente non avesse dato prova della disponibilità di fondi atti a giustificare le spese sostenute.
Il M. ha censurato la decisione con nove motivi, chiedendone la cassazione. Ha resistito l’Agenzia delle entrate con controricorso.
Nell’adunanza camerale dell’11 novembre 2021 la causa è stata trattata e decisa sulla base degli atti depositati dalle parti.
CONSIDERATO
che:
Il ricorrente ha censurato la sentenza denunciando:
con il primo motivo l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quanto alla dedotta inesistenza del presupposto dello scostamento biennale di un quarto tra reddito dichiarato e accertato, come richiesto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4;
con il secondo la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa pronuncia sull’eccepita nullità dell’atto di accertamento per insussistenza dello scostamento per due anni tra il dichiarato e l’accertabile;
con il terzo l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quanto alla cessione di alcuni immobili, computati dall’Amministrazione finanziaria ai fini della rideterminazione del reddito, sebbene venduti in epoca anteriore all’anno d’imposta accertato;
con il quarto la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 58, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver ritenuto inammissibile la documentazione probatoria prodotta dal ricorrente in sede d’appello;
con il quinto l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quanto alla documentata disponibilità alla data del 31/12/2002 della somma di Euro 1.396.452,28 per risparmi conseguiti da sé e dal coniuge;
con il sesto la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., art. 115 c.p.c., comma 1, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38 comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver considerato le prove documentali prodotte dal ricorrente;
con il settimo la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per motivazione apparente o inidonea;
con l’ottavo la nullità della sentenza per violazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per l’omessa valutazione delle prove documentali allegate;
con il nono per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver errato nel ritenere sufficientemente motivato l’atto impositivo mediante il richiamo agli indici e coefficienti di ricchezza, senza considerare la necessità dell’allegazione di ulteriori elementi.
La controversia portata all’attenzione del collegio afferisce all’accertamento di maggiori redditi del M.B., desunti da indici di ricchezza incongruenti con il reddito dichiarato, riconducibili in parte alla rilevazione di spese sostenute dal contribuente, sintomaticamente rivelatrici di reddito (il finanziamento alla società di cui il contribuente era socio), in parte mediante fatti-indice e coefficienti previsti nel cd. redditometro (gestione e manutenzione di beni immobili).
Con i numerosi motivi di impugnazione il contribuente lamenta che la sentenza abbia rigettato le ragioni di opposizione all’atto d’accertamento, senza tener conto delle regole che presidiano gli accertamenti induttivi e in ogni caso ignorando la pur copiosa documentazione prodotta a giustificazione delle spese sostenute nell’anno 2003. Ciò tanto in riferimento al vizio motivazionale quanto con riguardo all’aspetto della violazione di legge, sostanziale e processuale.
Va premesso che questa Corte ha affermato che in tema di accertamento in rettifica delle imposte sui redditi delle persone fisiche la determinazione effettuata con metodo sintetico, sulla base degli indici previsti dai decreti ministeriali del 10 settembre e 19 novembre 1992, riguardanti il cd. redditometro, dispensa l’Amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva. Resta invece a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell’esistenza di quei fattori, l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (Cass., 19 aprile 2013, n. 9539; 10 agosto 2016, n. 16912; 31 ottobre 2018, n. 27811). Qualora tale allegazione avvenga già in sede di contraddittorio endoprocedimentale, spetta alla Amministrazione finanziaria esaminare le giustificazioni del contribuente e valutare se, ed entro quali limiti, quelle prove rendano compatibile gli indici di spesa con il reddito dichiarato. Qualora l’Amministrazione ritenga di escluderne, in tutto o in parte, la rilevanza e completezza, deve darne atto in motivazione. Ciò vale in ogni caso in sede contenziosa, ed in tale ottica si è anche affermato che “Al fine del più ampio rispetto del principio costituzionale di capacità contributiva, nel processo, che sia instaurato a seguito di accertamenti sintetici e induttivi per la determinazione dell’obbligazione fiscale del soggetto giuridico d’imposta, costituisce principio a tutela della parità delle parti quello secondo cui all’inversione dell’onere della prova, che impone al contribuente l’allegazione di prove contrarie a dimostrazione della inesistenza del maggior reddito attribuito dall’Ufficio, deve seguire, ove a quell’onere di allegazione il contribuente abbia provveduto, un esame analitico da parte dell’organo giudicante, che non può pertanto limitarsi a giudizi sommari, privi di ogni riferimento alla massa documentale entrata nel processo. Il principio, a garanzia della parità e del regolare contraddittorio processuale per la corretta definizione del rapporto giuridico d’imposta, è tanto più pervasivo quanto più si rifletta sulla limitazione di accesso nel settore tributario ai mezzi di prova, in parte inibiti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4” (Cass., 8 ottobre 2020, n. 21700).
Con riguardo poi alla prova di cui il contribuente è onerato, la giurisprudenza ha identificato le fonti economiche che possono giustificare la spesa, circoscrivendone peraltro i confini entro cui esse assumono efficacia di prova contraria ai fattori-indice di capacità contributiva evidenziati dalla Amministrazione finanziaria. Per quanto qui d’interesse, si è in particolare chiarito che la prova contraria ivi ammessa, richiedendo la dimostrazione documentale della sussistenza e del possesso, da parte del contribuente, di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, implica un riferimento alla complessiva posizione reddituale dell’intero suo nucleo familiare, costituito dai coniugi conviventi e dai figli, soprattutto minori, atteso che la presunzione del loro concorso alla produzione del reddito trova fondamento, ai fini dell’accertamento, nel vincolo che li lega (cfr. Cass., 7 marzo 2014, n. 5365; 21 novembre 2019, n. 30355). Valorizzandosi peraltro la qualità del vincolo, minor rilievo assume la circostanza della convivenza, quando in sé considerata, così da escludere la desumibilità da quest’ultima del possesso di redditi prodotti da un parente diverso o da un affine, in quanto tale estraneo al nucleo familiare (Cass., 5365/2014, cit.). Nella ricerca di un filo logico, lungo cui spiegare una ricostruzione giuridica che non prescinda dagli aspetti pratici e dalle ricadute di un accertamento di tipo induttivo sul rapporto tra contribuente e fisco, si è anche avvertito che nell’accertamento sintetico del reddito, quando il contribuente deduca che la spesa sia frutto di liberalità o di altra provenienza, deve fornire adeguata prova documentale non solo della disponibilità all’interno del nucleo familiare di tali redditi, ma anche della loro entità e della durata del possesso, ancorché non sia tenuto a dimostrare la specifica destinazione alle spese contestate (Cass., 28 marzo 2018, n. 7757; 13 novembre 2018, n. 29067; 4 agosto 2020, n. 16637). Deve in altri termini offrire la tracciabilità delle fonti di spesa, pervenute nella propria disponibilità, ma che siano comunque escluse dalla formazione della base imponibile. Si tratta di un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, cui questo Collegio intende dare continuità, e che, sul piano delle garanzie del contraddittorio, sia endoprocedimentale, sia processuale, va riferito agli accertamenti sintetici nella loro generalità.
Ebbene, allineando i motivi di ricorso per ordine di priorità logica, è necessario esaminare il quarto, con il quale si denuncia l’errore d’interpretazione della regola processuale (sebbene il ricorrente erroneamente evochi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, il n. 3 e non il n. 4), in cui sarebbe incorsa la Commissione regionale nel ritenere inammissibili le prove documentali allegate in sede d’appello. Si tratta di violazione di norma processuale che, se fondata, condurrebbe ad una declaratoria di nullità della sentenza.
Ebbene, il contribuente valorizza il passaggio della pronuncia nel quale il giudice d’appello sostiene che “come già rilevato dai primi giudici non è stata provata la disponibilità delle somme al 31 dicembre 2002, e, comunque in disparte della valutazione prodotta per la prima volta nel grado, si deve ritenere che non è stata raggiunta la prova prevista dal citato art. 38”. Nell’inciso compreso tra le due virgole il ricorrente vuole identificare un errore della Commissione che, mal interpretando la regola prevista dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, avrebbe negato la facoltà della parte di produrre nuovi documenti in sede d’appello. Il motivo è infondato, atteso che l’intero periodo della frase, letto nella sua interezza e sebbene involuto, non esclude un esame della documentazione, ma al contrario palesa la formulazione di un giudizio del giudice d’appello, secondo cui quella documentazione non era idonea a raggiungere la prova a favore del contribuente.
Sempre per rispetto di una priorità d’ordine logico delle critiche formulate nei riguardi della pronuncia, deve esaminarsi il settimo motivo, con il quale è denunciata la nullità della sentenza per motivazione apparente. Anche in questo caso si tratta di censura che, qualora fondata, assorbirebbe tutte le altre.
Il ricorrente lamenta che la ratio decidendi della sentenza sia del tutto inesistente o apparente, limitandosi ad apodittiche affermazioni, con violazione della prescrizione portata nell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.
Il motivo è fondato e trova accoglimento.
Sussiste l’apparente motivazione della sentenza ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonché quando, pur indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sul piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sull’esattezza e logicità del suo ragionamento (Cass., 7 aprile 2017, n. 9105; 5 agosto 2019, n. 20921). Essa è tale quando, pur se graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme regolatrici della fattispecie dedotta in giudizio, si rivela inidonea ad assicurarne il controllo delle argomentazioni utilizzate, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6 (Cass., 30 giugno 2020, n. 13248). Ciò perché il confezionamento della motivazione è finalizzato a rendere percepibile il fondamento della decisione, laddove argomentazioni obiettivamente inidonee imporrebbero all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture (Sez. U, 3 novembre 2016, n. 22232). E si è peraltro avvertito che l’apparente motivazione sussiste anche quando essa riveli una obiettiva carenza esplicativa del quadro probatorio (Cass., 14 febbraio 2020, n. 3819).
Nel caso di specie nella pronuncia impugnata, dopo aver riconosciuto la legittimità della rettifica del reddito mediante l’accertamento sintetico, è dato leggere che “come già rilevato dai primi giudici non è stata provata la disponibilità delle somme al 31 dicembre 2002, e si deve ritenere che non è stata raggiunta la prova prevista dal citato art. 38. In definitiva è ormai stabilito da numerosa giurisprudenza di Cassazione che incombe al contribuente l’onere di provare la mancata disponibilità dei beni e/o servizi su cui si fonda la ricostruzione giuridica del reddito”. La motivazione si rivela del tutto astratta, slegata dalle critiche mosse dal contribuente, le quali, a prescindere dalla loro condivisione e dal loro fondamento, meritavano specifica attenzione. Non risulta affatto esaminata la documentazione allegata in sede d’appello, non potendo ridursi quell’esame alla inconsistente considerazione che non sarebbe stata raggiunta la prova richiesta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38. La sentenza si limita in conclusione al richiamo succinto del principio generale posto a presidio della regola sull’onere probatorio in tema di accertamento sintetico, senza alcun riferimento al caso concreto e comunque senza alcun giudizio critico sulla documentazione prodotta nel processo. La motivazione della sentenza impugnata si riduce così ad un giudizio circolare e dal contenuto meramente assertivo, come tale del tutto apparente, che impedisce di controllare attraverso quale concreto percorso logico la commissione regionale fosse pervenuta alle sue conclusioni. Manca cioè un argomentare logico e sufficiente che sia idoneo ad assicurare il rispetto della soglia del “minimo costituzionale” imposto dall’art. 111 Cost..
Il motivo va pertanto accolto e a ciò consegue la nullità della sentenza. L’accoglimento del motivo assorbe gli altri.
La sentenza va cassata, con rinvio del processo alla Commissione tributaria regionale del Lazio, che in diversa composizione, oltre che a liquidare le spese processuali del giudizio di legittimità, provvederà ad un nuovo esame della controversia, anche sulla base della documentazione allegata dal contribuente.
P.Q.M.
Accoglie il settimo motivo, rigetta il quarto, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese processuali del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 11 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2022