Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.5754 del 22/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SESTINI Danilo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 4430/2019 R.G. proposto da:

Les Maisons S.r.l., C.M., Co.Ca., Co.Al., Avv. L.G., tutti rappresentati e difesi da quest’ultimo;

– ricorrenti –

contro

Banco BPM S.p.a., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Stefano Cavicchi, Ruggero Camerini, e Susanna Lollini, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultima in Roma, via Ulpiano, n. 29;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano, n. 4951/2018 depositata il 15 novembre 2018;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 10 gennaio 2022 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

FATTI DI CAUSA

1. La società Les Maisons S.r.l. e i suoi fideiussori C.M., Co.Ca. e Co.Al. convennero in giudizio, avanti il Tribunale di Milano, la Banca Italease S.p.a. (successivamente Banco Popolare soc. coop., oggi Banco BPM S.p.a.), chiedendo accertarsi il carattere usurario e, dunque, la nullità, ex art. 1815 c.c., degli interessi e dei costi pattuiti in relazione a contratto di locazione finanziaria – stipulato, per ottenere la disponibilità di un immobile, in data 30 luglio 2007, e risolto nel maggio del 2014 per inadempimento della utilizzatrice, in avvalimento, da parte della concedente, di clausola risolutiva espressa – con la conseguente condanna della convenuta alla restituzione delle somme indebitamente percepite.

Il tribunale rigettò la domanda e, in accoglimento di quella avanzata in via riconvenzionale dalla convenuta, condannò la conduttrice al rilascio senza dilazione dell’immobile.

2. Con sentenza n. 4951/2018, pubblicata il 15 novembre 2018, la Corte d’appello di Milano:

– ha dichiarato inammissibile, per difetto di jus postulandi, il gravame interposto dall’Avv. L.G. per conto di C.M., conseguentemente condannando il primo anche alle spese del giudizio di gravame; ha ritenuto, infatti, che l’unica procura rilasciata da quest’ultima in favore del difensore riguardasse la sola società Les Maisons S.r.l., per la quale la predetta aveva dichiarato di agire nella veste di legale rappresentante pro tempore, senza alcuna ulteriore specificazione volta a conferire il mandato ad litem per la proposizione del gravame anche a titolo personale;

– ha rigettato il gravame proposto nell’interesse degli altri appellanti sul rilievo che:

– il tasso di interesse contrattuale di riferimento, per la normale attualizzazione, pari al 6,7852%, era pacificamente contenuto entro il tasso soglia antiusura (quantificato dagli stessi appellanti nella misura del 10,10%);

– tale tasso era compiutamente indicato (in quanto rapportato all’indice “Euribor 365”) e nessun rilievo invalidante poteva avere la mancata indicazione anche dell’Indicatore Sintetico di Costo/Tasso Annuo Effettivo Globale (TAEG), in quanto prevista dal D.Lgs. n. 385 del 1993, da un lato, solo per i contratti stipulati con un consumatore (quali non erano gli appellanti), dall’altro, per i contratti di mutuo o per altre tipologie di finanziamento e diversi rapporti interbancari, comunque distinti dal leasing ed al medesimo non assimilabili; ciò senza considerare che, anche là dove ne sia prevista l’indicazione, l’ISC/Taeg ha comunque una funzione meramente informativa e non risulta fra i requisiti indefettibili del regolamento negoziale;

– gli appellanti non avevano alcun interesse ad agire in giudizio per la questione dei tassi di mora, nemmeno in presenza di un contratto che ne avesse, in ipotesi, previsto l’applicazione in misura usuraria; questo perché, secondo quanto previsto in contratto, tali interessi venivano in considerazione nella sola fase patologica del rapporto ed unicamente a seguito del verificarsi dell’inadempimento; ciò senza considerare che, peraltro:

– tali interessi non sono sottoposti al vaglio di usurarietà oggettiva, il T.E.G.M. venendo calcolato con riferimento non a quelli moratori, ma a quelli corrispettivi; i primi non hanno infatti funzione remuneratoria, ma risarcitoria, in quanto disciplinano il danno da inadempimento e sono riconducibili alle clausole penali;

– ai fini della rilevazione del tasso soglia gli interessi moratori non sono cumulabili con gli interessi corrispettivi, considerata la diversa natura di tali categorie di interessi, le disposizioni di cui all’art. 644 c.p. e art. 1815 c.c., riferendosi esclusivamente alle prestazioni di natura corrispettiva gravanti sul debitore;

– doveva infine considerarsi perfettamente lecita la pattuizione che, alla stregua di clausola penale, consentiva alla società concedente, in caso di risoluzione del contratto per inadempimento, di ottenere lo stesso utile che avrebbe conseguito se il contratto fosse stato adempiuto regolarmente dall’utilizzatore;

– a diversa conclusione non poteva condurre la tradizionale distinzione fra leasing di godimento e leasing traslativo; ciò sia perché la funzione economica del contratto di leasing va ravvisata prevalentemente nel finanziamento dell’utilizzatore, sia perché l’introduzione della disciplina di cui alla L. Fall., art. 72-quater, così come della previsione di cui alla L. Fall., art. 169-bis, u.c., relativamente allo scioglimento del contratto di leasing in corso di esecuzione al momento dell’apertura di procedura concorsuale, pur non applicabile nemmeno analogicamente alla fattispecie, comporta comunque il superamento della tradizionale distinzione tra leasing traslativo e leasing di godimento e la necessità di garantire che dallo scioglimento del vincolo contrattuale, da qualunque causa esso dipenda, discendano conseguenze giuridiche che non si risolvano nell’indebito arricchimento dell’una parte a danno dell’altra.

3. Avverso tale sentenza Les Maisons S.r.l., C.M., Co.Ca., Co.Al. e l’Avv. L.G. – quest’ultimo limitatamente al capo condannatorio delle spese di giudizio – propongono ricorso per cassazione affidato a sei motivi, cui resiste il Banco BPM S.p.a., depositando controricorso.

La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.

I ricorrenti hanno depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 83,94 e 156 c.p.c., per avere la corte d’appello ritenuto che la procura conferita per l’appello all’Avv. L. da C.M., nella qualità di legale rappresentante della società Les Maisons S.r.l., valesse a conferirgli ius postulandi in rappresentanza di quest’ultima ma non anche della stessa C., quale persona fisica, in proprio.

Deducono che costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità impone di contestualizzare ed interpretare la procura alle liti con il contenuto dell’atto cui accede e che ciò, nella specie, avrebbe dovuto portare a conclusione opposta, considerato che nell’intestazione dell’atto era chiaramente indicato che a proporre il gravame era “la società Les Maisons S.r.l… in persona del suo legale rapp.te p.t. C.M. anche in proprio quale garante”.

2. La censura è fondata, alla luce del principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui “la procura alla lite deve essere interpretata in relazione al contesto dell’atto cui accede, con la conseguenza che la procura sottoscritta dal legale rappresentante di una società, senza indicazione di tale qualità, è riferibile anche alla società stessa allorché l’atto, cui essa accede, rechi l’indicazione che la parte agisce in proprio e nella predetta qualità” (Cass. 28/06/2002, n. 9491).

In continuità con tale indirizzo Cass. Sez. U. 05/05/2017, n. 10937, ha affermato – con riferimento ad altro tipo di impugnazione, ma con argomenti spendibili anche nel caso in esame – che “qualora un ricorso per cassazione indichi come parti proponenti un soggetto in proprio e una società di cui il medesimo venga indicato come legale rappresentante ed enunci che entrambi agiscono sulla base di procura rilasciata ad un difensore in calce al ricorso,’ la circostanza che la dichiarazione di procura ivi apposta, formulata senza indicazione di chi la fa, sia poi seguita da un timbro composto della denominazione della società e dell’indicazione “l’amministratore unico”, su cui sia stata apposta una sottoscrizione per sigla, non giustifica l’eccezione di difetto di rilascio della procura da parte del soggetto legale rappresentante in proprio, dovendosi la sottoscrizione reputare apposta anche in detta qualità”.

Si è conformemente precisato che la procura speciale rilasciata da chi sia parte in giudizio per sé e quale rappresentante legale di una società deve intendersi rilasciata, oltre che in tale ultima qualità, anche in nome proprio, senza che assuma alcun rilievo in contrario la circostanza che nella procura medesima si faccia riferimento soltanto alla qualità di rappresentante legale della società (Cass. 20/06/2018, n. 16251; 02/04/2021, n. 9136).

La ragione di ciò sta nel fatto che, nella interpretazione della procura, va dato rilievo anche allo scopo difensivo che muove al giudizio (Cass. 11/02/2009, n. 3362), in quanto il principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte ovvero comunque ispirate ad un formalismo funzionale non già alla tutela dell’interesse della controparte, ma piuttosto a frustrare lo scopo stesso del processo, che è quello di consentire che si pervenga ad una decisione di merito (Cass. 09/06/2004 n. 10963).

Nella specie, l’esame diretto degli atti, consentito a questa Corte quale giudice del fatto processuale, dà conferma di quanto evidenziato in ricorso (con piena osservanza degli oneri di specificità): l’atto di appello risulta chiaramente proposto dalla C. non solo nella qualità di legale rappresentante della società Les Maisons S.r.l. ma anche in proprio; alla luce dei principi surrichiamati non è pertanto dubitabile che la procura cui nella medesima intestazione si fa riferimento, ancorché in essa risulti spesa solo la qualità di legale rappresentante della società, deve intendersi rilasciata, oltre che in tale ultima qualità, anche in nome proprio.

3. La sentenza impugnata va pertanto cassata nella parte in cui ha posto a carico solidale dell’Avv. L.G. le spese del giudizio di appello: condanna, dunque, che va eliminata in sede decisoria di merito, ex art. 384 c.p.c., comma 2.

Con riferimento invece alla posizione della C. l’erroneità della declaratoria di inammissibilità dell’appello non vale ancora a determinare l’accoglimento, sia pure solo in parte qua, del ricorso per essa proposto.

Tale accoglimento comporta infatti (solo) la necessità di esaminare, nel merito, le questioni poste a fondamento dell’appello rimaste assorbite dall’erroneo rilievo di inammissibilità del gravame.

Alla luce dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo,’ come costituzionalizzato nell’art. 111 Cost., comma 2, nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., ispirata a tali principi, trattandosi di questioni di diritto, che non richiedono ulteriori accertamenti di fatto, a tale esame può provvedere questa Corte nell’esercizio del potere lato sensu rescissorio conferitogli da detta norma.

Si tratta, del resto, delle stesse questioni il cui scrutinio è comunque imposto dai restanti motivi.

Ne’ potrebbe dirsi che il motivo avrebbe comunque ragion d’essere accolto anche solo al fine di veder sostituita la statuizione di inammissibilità con quella di rigetto dell’appello, non potendosi al riguardo apprezzare alcun concreto interesse ex art. 100 c.p.c. a fondamento di tale impugnazione.

Come è stato, infatti, efficacemente evidenziato, “non avrebbe senso cassare la sentenza impugnata in ragione della insussistenza di un’ipotesi di inammissibilità del gravame e ritenere contestualmente inconsistenti quelle censure. E tanto alla stregua di un approccio pragmatico in continuità con la consolidata giurisprudenza di questa Corte Regolatrice secondo cui anche le deduzioni concernenti l’osservanza delle regole processuali, ivi comprese quelle volte a garantire il rispetto del principio del contraddittorio, soggiacciono al principio dell’interesse al gravame, e cioè alla verifica dell’utilità concreta derivabile alla parte dall’eventuale accoglimento del mezzo azionato” (Cass. 22/03/2013, n. 7253; v. anche, ivi citata, Cass. 23/05/2008, n. 13373).

Con riferimento, dunque, alla predetta ricorrente, l’esito del ricorso resta subordinato al vaglio dei restanti motivi, cui qui di seguito si procede.

4. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 1815 c.c., comma 2; art. 644 c.p., comma 1; D.L. 29 dicembre 2000, n. 394, art. 1, comma 1, convertito dalla L. 28 febbraio 2001, n. 24; L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 1; art. 100 c.p.c., per avere la corte d’appello ritenuto irrilevante, ai fini della verifica della usurarietà dei pattuiti costi e interessi del leasing, la pattuizione di interessi di mora “ultra soglia”.

Deducono che le ragioni poste a fondamento di tale valutazione (sopra succintamente riferite): a) contrastano con la citata norma di interpretazione autentica che, ai fini di detta verifica, impone di considerare il momento della pattuizione del tasso o del costo usurario; b) sono intrinsecamente contraddittorie dal momento che la previsione in questione ha trovato concreta applicazione avendo controparte fatto valere la risoluzione del contratto per inadempimento; c) contrastano con il principio affermato da Cass. 30/10/2018, n. 27442, che, premessa “l’identica funzione sostanziale degli interessi corrispettivi e di quelli moratori”, ha affermato che “e’ nullo il patto con il quale si convengano interessi convenzionali moratori che, alla data della stipula, eccedano il tasso soglia di cui alla L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, relativo al tipo di operazione cui accede il patto di interessi moratori convenzionali”.

Chiedono affermarsi il principio di diritto secondo cui “a fronte di una pattuizione usuraria sussiste l’interesse ad agire del contraente che intenda eccepire la nullità del patto usurario, anche a prescindere dalla effettiva dazione dell’interesse ultra-soglia, essendo nullo il patto con il quale si convengano interessi convenzionali moratori che, alla data della stipula, eccedano il tasso soglia di cui alla L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, relativo al tipo di operazione cui accede il patto di interessi moratori convenzionali”, con la conseguenza che “va dichiarata la non debenza dei soli interessi corrispettivi e la sostituzione del tasso di mora ultra-soglia con quello legale pro tempore vigente”.

5. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “manifesta ed irriducibile contraddittorietà della motivazione”, per avere la sentenza impugnata, da un lato, affermato l’insussistenza dell’interesse ad agire degli odierni ricorrenti in relazione alla contestazione degli interessi moratori usurari in quanto relativi alla sola fase patologica del contratto, dall’altro dato atto, al fine di giustificare la risoluzione del rapporto, che la fase patologica del contratto si era realizzata.

6. Detti motivi, congiuntamente esaminabili in quanto strettamente intrecciati, sono inammissibili e comunque infondati.

6.1. L’inammissibilità va predicata per essere il vizio di “irriducibile contraddittorietà della motivazione” dedotto – con entrambi – con riferimento a statuizione resa su questione di diritto (la sussistenza o meno di interesse ad agire per far vaiere l’usurarietà) che come tale si sottrae per definizione ad un tal sindacato, occorrendo solo verificarne la correttezza in iure, ancorché male o per nulla motivata.

E’ noto, infatti, che non può configurarsi vizio di motivazione in relazione a questioni di mero diritto. Ciò in quanto il giudice di legittimità è investito, a norma dell’art. 384 c.p.c., del potere di integrare e correggere la motivazione della sentenza impugnata, con la conseguenza che, se chiamato a valutare la conformità a diritto della decisione impugnata, la sua valutazione ben può prescindere dalla motivazione che, in punto di diritto, sia contenuta nella sentenza impugnata, restando del tutto irrilevante anche l’eventuale mancanza di questa, quando il giudice del merito sia, comunque, pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (v. ex multis Cass. n. 41236 del 2021; n. 7880 del 2012; n. 16640 del 2005; n. 11883 del 2003; n. 12753 del 1999).

6.2. Pur interpretando la censura come volta, nella sostanza (v. Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931), a contestare la ritenuta carenza di interesse, se ne deve comunque rilevare l’infondatezza.

E’ ben vero che la corte di merito ha ripetutamente evidenziato che, nella specie, viene in rilievo la fase patologica del contratto e segnatamente la sua risoluzione ipso iure per effetto della pattuita clausola risolutiva in dipendenza dell’incontestato inadempimento da parte della società utilizzatrice dell’obbligo di pagamento dei canoni.

Non vi e’, però, alcuna contraddizione tra tale affermazione e il rilievo del difetto di interesse, in capo agli appellanti (odierni ricorrenti), a far valere l’eventuale usurarietà del pattuito tasso di mora.

La carenza di interesse al riguardo e’, infatti, coerentemente affermata in ragione del fatto che la debenza di tali interessi, ed eventualmente in quale misura, non fa parte, né direttamente, né indirettamente, del tema di lite.

Diverso sarebbe se il contratto de quo fosse ancora vigente tra le parti (e non invece, com’e’ pacifico, già risolto) o se si fosse affermato o, comunque, risultasse accertato che, in dipendenza dell’inadempimento, la società concedente aveva chiesto e/o ottenuto anche il pagamento degli interessi di mora o che addirittura l’inadempimento in ragione del quale è stata fatta valere la clausola risolutiva espressa riguardava anche il pagamento degli interessi di mora.

Tanto però non risulta nemmeno dedotto dai ricorrenti né emerge dalla sentenza, essendo piuttosto in essa evidenziato che le sole pretese della concedente, azionate ed accolte in dipendenza della risoluzione contrattuale, sono state, da un lato, la restituzione dell’immobile, dall’altro, il conseguimento della penale pattuita, ossia “il pagamento senza dilazione dei corrispettivi periodici non ancora maturati attualizzati ed il prezzo pattuito, dedotto quanto ottenuto dalla ricollocazione del bene sul mercato”: pretese, queste, in relazione alle quali nessun ruolo svolge la clausola relativa agli interessi di mora, in sostanza rimasta non attuata.

6.3. Per tal motivo si appalesa non conferente il richiamo, nella memoria, al precedente di Cass. 13/05/2021, n. 12964, che ha affermato che “la regola della usura vale… anche per gli interessi di mora” e “vale sol che gli interessi vengano pattuiti, in quanto l’art. 644 c.p., qualifica come illecita la condotta di chi si fa dare, sì, ma anche semplicemente promettere, interessi a tasso usuraio; senza considerare che la sanzione della nullità mira a tutelare il debitore, e sarebbe vanificata se costui potesse agire per la nullità della clausola solo dopo aver corrisposto gli interessi e dunque dopo averla attuata adempiendovi”.

Tale condivisibile principio (secondo cui la nullità della pattuizione di interessi moratori usurari sussiste e va accertata indipendentemente dalla dimostrazione che essi siano stati effettivamente corrisposti) non può dirsi affatto contraddetto dalla sentenza impugnata, nel caso in esame il difetto di interesse, rispetto a tale accertamento, potendosi apprezzare non per il solo fatto che tali interessi non sono stati corrisposti, ma perché – a differenza del caso esaminato nel precedente richiamato – è da escludere che possano anche in futuro essere richiesti, essendo il rapporto, come detto, già cessato per effetto della risoluzione, senza che le pretese restitutorie e risarcitorie da questa nascenti abbiano in alcun modo riguardato o supposto l’applicazione della pattuizione in questione.

6.4. Occorre a questo punto dare atto che, a pag. 12, primo cpv., della sentenza, la corte territoriale ha testualmente evidenziato che: “il tasso di mora in discussione viene in considerazione solo in presenza della necessità di procedere all’attualizzazione del valore del capitale residuo non ammortizzato all’eventuale data di risoluzione del contratto per inadempimento, mentre, in caso di sua regolare esecuzione, il tasso applicabile rimane quello del 6,782%, con la conseguenza che gli interessi di mora intervengono nella sola fase patologica del rapporto ed unicamente a seguito del verificarsi dell’inadempimento, come nel caso di specie pacificamente avvenuto”.

Tale ultimo inciso, in effetti non perspicuo, va però inteso come volto solo a rimarcare il fatto storico dell’inadempimento non anche a significare che, nella specie, si sia dato corso all’attualizzazione del valore del capitale residuo non ammortizzato con applicazione degli interessi di mora, tanto essendo escluso dalla restante parte della sentenza ove è chiaramente attestato che l’unica pretesa pecuniaria azionata da controparte è riferita alla penale pattuita, la quale a sua volta prevede (come appresso tornerà a dirsi) il pagamento dei soli corrispettivi periodici non ancora maturati attualizzati (non dunque del valore del capitale residuo non ammortizzato), dedotto quanto ottenuto dalla ricollocazione del bene sul mercato (v. pag. 16 della sentenza).

6.5. A fondamento del contrario assunto della sussistenza di un interesse ex art. 100 c.p.c., a far valere l’usurarietà oggettiva degli interessi moratori i ricorrenti alludono però (si veda infatti la formulazione del principio di diritto che essi chiedono venga enunciato) ad un possibile riflesso demolitorio anche sugli interessi corrispettivi, ancorché questi in sé – come accade nella specie, secondo quanto è pacifico in causa – siano stati pattuiti in misura inferiore al tasso soglia.

Tale assunto, oltre a non essere per nulla argomentato, tanto da non potersi in esso riconoscere la minima consistenza di una censura, si appalesa comunque infondato.

E’ sufficiente rinviare in proposito alle ampie e qui condivise motivazioni di Cass. 09/11/2020, n. 24992, che, sulla scorta di una attenta interpretazione dell’art. 1815 c.c., comma 2, secondo il dato letterale e alla luce della sua ratio, e in coerenza con gli altri approdi giurisprudenziali in materia, ha in proposito affermato che “il legislatore ha fatto una scelta conservativa – nullità parziale di tipico genere, cioè ha investito della sanzione civile solo il focolaio di illegittimità – la clausola degli interessi usurari -, e non l’intera conformazione dell’accordo negoziale. E dunque il negozio “resta in piedi”, conservando il suo nerbo di onerosità: cade la debenza esclusivamente degli interessi regolati dalla clausola nulla, il che significa che possono essere non dovuti gli interessi corrispettivi se la clausola nulla li riguarda, e che possono essere non dovuti quelli moratori se la clausola nulla riguarda loro. La sanzione non contagia le clausole legittime” (in senso conforme, del resto, si è espressa anche Cass. n. 12964 del 2021, come detto citata in memoria dai ricorrenti).

6.6. Rimangono di conseguenza assorbite le restanti censure svolte con il secondo motivo.

Esse infatti attingono affermazioni che, benché in effetti in parte errate – tale, più precisamente, quella secondo cui gli interessi di mora non sarebbero sottoposti al vaglio di usurarietà oggettiva: affermazione questa confutata dal contrario principio ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte (al qual riguardo è sufficiente rinviare all’arresto di Cass. Sez. U. 18/09/2020, n. 19597) – non costituiscono tuttavia la ratio decidendi della sentenza impugnata ma, dichiaratamente, meri obiter dicta.

Vera a assorbente giustificazione del rigetto dei motivi che riproponevano la questione dell’usuranetà degli interessi di mora e’, infatti, come detto, rappresentata dal rilievo della carenza di interesse in capo agli appellanti a far valere tale questione, “nemmeno in presenza di un contratto che ne avesse, in ipotesi, previsto l’applicazione in misura usuraria”.

Rilievo che, come s’e’ visto, resiste all’unica critica contro di esso mossa e di cui sopra s’e’ detto e che pertanto rimane idoneo a reggere sul punto la decisione.

7. Con il quarto motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 1526 c.c., comma 1, e dell’art. 1384 c.c., per avere la corte d’appello, da un lato, ritenuto inapplicabile al leasing traslativo la disciplina dettata per la vendita con riserva della proprietà dall’art. 1526 c.c., dall’altro, altresì ritenuto insindacabile la clausola contrattuale che consentiva alla società concedente, in caso di risoluzione del contratto per inadempimento, di ottenere lo stesso utile che avrebbe conseguito se il contratto fosse stato adempiuto regolarmente dall’utilizzatore.

A tal ultimo riguardo richiamano l’arresto di Cass. n. 18326 del 2018 che, chiarendo i presupposti per l’applicazione della clausola di irripetibilità dei canoni riscossi dal concedente di cui del medesimo art. 1526 c.c., comma 2, ha affermato che, in presenza di tale previsione convenzionale, al giudice è attribuita, per legge, la facoltà di ridurre l’indennità convenuta della parti “secondo le circostanze”, poiché si è alla presenza di una vera e propria clausola penale “in quanto volta alla predeterminazione del danno risarcibile nell’ipotesi di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore”, la cui operatività è rimessa esclusivamente all’iniziativa di parte.

8. Il motivo è infondato.

La decisione si rivela infatti, nei suoi esiti, corretta in iure, sebbene ciò debba dirsi alla stregua di un percorso argomentativo diverso da quello delineato in sentenza, dovendosi sul punto solo correggere la motivazione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4.

8.1. Secondo la ricostruzione accolta dalla corte territoriale, in buona sostanza, a seguito della tipizzazione del contratto di leasing ad opera della L. n. 124 del 2017 (art. 1, commi 136-140) – all’esito di un percorso normativo iniziato con l’introduzione, nel 2006, della L. Fall., art. 72-quater, proseguito con la L. Fall., art. 169-bis, in tema di concordato preventivo dell’utilizzatore e con la L. n. 208 del 2015, in materia di locazione finanziaria di immobili adibiti ad uso abitativo -, sarebbe venuta meno la distinzione tra leasing traslativo e leasing di godimento, essendo stata ascritta al contratto una disciplina unitaria, la quale, a differenza di quanto previsto dall’art. 1526 c.c., consente al concedente di pretendere dall’utilizzatore non già un equo compenso, ma di trattenere i canoni pagati, pretendere il pagamento di quelli scaduti e non pagati, ed esigere quelli ancora da scadere, più il prezzo di opzione.

In tale quadro si giustificherebbe una regolamentazione, quale quella nella specie adottata dalle parti, delle conseguenze dell’anticipato scioglimento del contratto di leasing che si discosti anche da quanto previsto dall’art. 1526 c.c., per il contratto tipico della vendita con patto di riservato dominio ed abbia quale obiettivo l’equo contemperamento degli interessi patrimoniali dei contraenti.

Ciò senza comunque dimenticare che, pur rimanendo nell’orbita della forza regolatrice offerta da detta norma codicistica, la S.C. ha più volte confermato la piena liceità di clausole che prevedano l’irripetibilità dei canoni versati al concedente e la non eccessività di clausole penali, quali quelle previste nei contratti in discussione, laddove consentano alla società finanziaria di ottenere lo stesso utile che avrebbe conseguito se il contratto fosse stato adempiuto regolarmente.

8.2. Di tale argomentare va invero rifiutata la prima parte, non potendosi condividere l’attribuzione di alcun rilievo ermeneutico, sia pure indiretto, alle novelle legislative menzionate che, intervenute successivamente alla risoluzione del contratto, non possono regolarne gli effetti nemmeno in via analogica.

Rimane invece valida e va confermata la seconda, rivelandosi comunque corretta la valutazione di liceità della clausola penale, nei termini in cui accertata in sentenza, per il caso di inadempimento dell’utilizzatore.

Premesso che proprio da tale seconda parte della motivazione si ricava per implicito la qualificazione del contratto de quo in termini di leasing traslativo e che tale qualificazione deve ritenersi pacificamente postulata anche in ricorso, che, proprio sulla base di essa, intende argomentare i dedotti profili di censura; ciò premesso, va detto che lo scrutinio del motivo trova esaustiva chiave risolutiva, nel senso appena detto, nei principi enunciati da Cass. Sez. U. 28/01/2021, n. 2061.

Ed invero, con tale arresto (alle cui ampie motivazioni va qui va fatto rimando), le Sezioni Unite di questa Corte, chiamate a risolvere il contrasto giurisprudenziale insorto proprio in ordine alla applicabilità analogica, all’ipotesi di contratto di leasing risolto per inadempimento dell’utilizzatore prima del fallimento di quest’ultimo, delle norme in tema di effetti dello scioglimento del contratto di leasing nell’ambito delle procedure concorsuali (L. Fall., artt. 72-quater e 169-bis), hanno:

– da un lato, sciolto il contrasto in favore del prevalente orientamento contrario a tale applicazione e ribadito che resta, dunque, valida la soluzione adottata dal diritto vivente di individuare, per analogia legis, nella disposizione dell’art. 1526 c.c., la disciplina della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore;

– dall’altro, anche ribadito che, pur in tale tradizionale e radicata prospettiva qualificatoria, al fine di dare compiuto rilievo alla “causa di finanziamento che sostanzia (effettivamente, anche se non in modo del tutto assorbente) l’operazione commerciale in esame e, con ciò, a vitalizzare la sintesi degli interessi delle parti in una causa concreta che quell’orientamento consolidato verrebbe a mortificare”, deve comunque ritenersi lecita, in quanto coerente con la previsione contenuta dell’art. 1526 c.c., comma 2, la penale inserita nel contratto di leasing traslativo prevedente l’acquisizione dei canoni riscossi (così come anche di quelli insoluti e/o non ancora maturati al momento della risoluzione), con detrazione, dalle somme dovute al concedente, dell’importo ricavato dalla futura vendita del bene restituito (tra le altre, le citate Cass. n. 15202 del 2018 e Cass. n. 1581 del 2020, nonché Cass., 28/08/2019, n. 21762 e Cass. 08/10/2019, n. 25031).

Una utile ricostruzione del quadro normativo è stata da ultimo operata da Cass. 14/10/2021, n. 28022, nei termini seguenti:

“La risoluzione del contratto ha fatto venir meno le obbligazioni scaturenti da esso, le quali sono state rimpiazzate da obblighi restitutori e risarcitori.

“La legge consente alle parti disciplinare ex ante, con apposito atto, sia gli uni che gli altri.

“In particolare, sul piano restitutorio, l’art. 1526 c.c., comma 2,…. consente alle parti di prevedere che i canoni già pagati dall’utilizzatore restino acquisiti al concedente, a titolo di equo indennizzo per il godimento della cosa…..

“Sul piano risarcitorio, l’art. 1382 c.c., consente alle parti di predeterminare la quantificazione del danno: e in astratto nulla vieta che il danno sia quantificato in misura pari ai canoni ancora dovuti al momento della risoluzione.

“Sul piano più strettamente economico, poi, una simile pattuizione è perfettamente coerente con la natura del contratto di leasing.

“Infatti, in caso di puntuale adempimento da parte dell’utilizzatore, il concedente avrebbe realizzato un lucro pari al coacervo dei canoni concordati. Poiché in caso di risoluzione del contratto una delle poste del risarcimento dovuto al contraente fedele è il quantum lucrari potui, è coerente con tale principio che la penale sia parametrata al lucro che il concedente avrebbe realizzato, se il contratto avesse avuto puntuale esecuzione.

“Infine, la previsione secondo cui il concedente, tornato in possesso del bene oggetto del contratto, aveva facoltà di venderlo o reimpiegarlo, defalcando dal proprio credito il ricavato della vendita del reimpiego, lungi dal costituire una pattuizione nulla, è anzi puntualmente conforme a principi già da tempo affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui legittimamente la clausola penale attribuisce al concedente, nel caso di inadempimento dell’utilizzatore, l’intero importo del finanziamento”.

Alla luce di tali considerazioni corretta deve dunque considerarsi, come detto, la valutazione di liceità della clausola penale inserita nel contratto de quo (art. 15 delle condizioni generali) che, secondo quanto accertato in sentenza (v. pag. 16, terza e quarta riga), prevedeva l’obbligo per l’utilizzatore di “pagare senza dilazione i corrispettivì periodici non ancora maturati attualizzati ed il prezzo pattuito, dedotto quanto ottenuto dalla ricollocazione del bene sul mercato”.

A tal riguardo si impone però una precisazione, già operata da Cass. n. 28022 del 2021, cit., e che va qui ribadita:

“il c. d. patto di deduzione, in virtù del quale nei contratti di leasing traslativo si stabilisce che il concedente, nel caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, ha diritto a titolo di penale al pagamento dei canoni scaduti e di quelli futuri, attualizzati al momento della risoluzione, previo diffalco di quanto ricavato dalla vendita del bene, deve essere interpretato ed applicato secondo correttezza e buona fede, con la conseguenza che:

a) se al momento in cui il concedente esige il proprio credito (restitutorio e/o risarcitorio) nei confronti dell’utilizzatore il bene è stato già rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il ricavato, salva la responsabilità del concedente ex art. 1227 c.c., comma 2, nel caso di vendita ad un prezzo vile per propria negligenza;

b) se al momento in cui esige il proprio credito nei confronti dell’utilizzatore il bene non è stato ancora rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il valore commerciale del bene, stimato col criterio del valore equo di mercato”.

Nella specie non risulta fatta questione alcuna in proposito; non risulta in particolare che la clausola penale sia stata fatta valere secondo diversa declinazione, né tanto meno che questa sia stata avallata dal giudice di merito, di guisa che detta precisazione non vale anche a segnalare un errore della sentenza impugnata che debba portare al suo annullamento in parte qua.

9. Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 117 t.u.b. nonché dell’art. 61 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.

Lamentano che la Corte d’appello ha omesso di pronunciare sul motivo di appello con il quale si era dedotto che la società concedente aveva pubblicizzato un tasso di leasing inferiore a quello effettivo, conseguentemente omettendo anche di disporre la c.t.u. contabile sollecitata a tal fine.

10. Il motivo è in parte infondato, in parte inammissibile.

Non è ravvisabile alcun vizio di omessa pronuncia avendo la corte di merito espressamente escluso la sussistenza della dedotta ipotesi di illegittimità del contratto sulla base del triplice rilievo che: a) l’indicazione del Tasso Annuo Effettivo Globale (TAEG) è prevista dal D.Lgs. n. 385 del 1993, solo per i contratti stipulati con un consumatore (quali non erano gli appellanti) e di tipologia diversa e non assimilabile al leasing; b) anche là dove ne sia prevista l’indicazione, esso ha comunque una funzione meramente informativa e non risulta fra i requisiti indefettibili del regolamento negoziale.

Tale parte della motivazione non è fatta segno di alcuna conferente censura.

Essa peraltro spiega e ampiamente giustifica anche la mancata ammissione della chiesta c.t.u. contabile, del tutto inutile una volta che si ritenga che la difformità tra tasso indicato e tasso effettivo praticato non comporti la violazione di obblighi di trasparenza, né comunque sanzioni di sorta.

I ricorrenti sembrano riferire detta richiesta anche allo scopo di accertare l’eventuale superamento del tasso soglia; in tale direzione la c.t.u. del cui mancato espletamento i ricorrenti si dolgono evidenzia però un carattere meramente esplorativo; la doglianza a fortiori si appalesa inammissibile, tanto più in quanto contraddetta dalla stessa premessa secondo cui, alla luce di elaborato tecnico di parte, il tasso effettivo sarebbe stato del 7,007%: percentuale bensì maggiore rispetto a quella indicata in contratto del 6.785%, ma tuttavia anch’essa comunque inferiore al tasso-soglia (pari, in quel periodo, al 10,095%).

11. Con il sesto motivo i ricorrenti deducono, infine, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., in relazione alla statuita condanna alla rifusione delle spese processuali, che assumono comunque non giustificata in relazione alle oscillazioni giurisprudenziali esistenti al momento della proposizione della domanda, idonee a giustificarne invece la integrale compensazione alla stregua di “gravi ed eccezionali ragioni”.

12. Il motivo è inammissibile.

Costituisce, invero, jus receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui esula dal sindacato di legittimità e rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione della opportunità della compensazione, totale o parziale, delle spese processuali, essendo la statuizione sulle spese adottata dal giudice di merito sindacabile in sede di legittimità nei soli casi di violazione del divieto, posto dall’art. 91 c.p.c., di porre anche parzialmente le spese a carico della parte vittoriosa – ipotesi nella specie non ricorrente – o nel caso di compensazione delle spese stesse fra le parti adottata con motivazione illogica o erronea (Cass. Sez. U. 15/07/2005, n. 14989; Cass. 07/03/2001, n. 3272 e successive numerose conformi).

13. Sulla scorta delle considerazioni che precedono deve pertanto pervenirsi all’accoglimento del solo primo motivo di ricorso, nei termini sopra esposti, ed al rigetto o alla declaratoria di inammissibilità dei restanti motivi.

La sentenza impugnata va conseguentemente cassata, in relazione al motivo accolto, nella parte in cui ha posto a carico solidale anche dell’Avv. L. le spese del giudizio di appello: condanna che va dunque eliminata.

14. Alla soccombenza segue la condanna degli altri ricorrenti al pagamento, in favore della società controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

La controricorrente va per contro condannata alla rifusione delle spese processuali in favore dell’Avv. L., anch’esse liquidate come da dispositivo, ma rapportate al minor valore del solo tema di lite che coinvolgeva quest’ultimo, ossia all’importo delle spese processuali del giudizio di appello, ingiustamente poste anche a suo carico, in via solidale.

15. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, con esclusione dell’Avv. L., ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

accoglie il primo motivo di ricorso, nei termini di cui in motivazione; rigetta il secondo, il terzo, il quarto e il quinto motivo; dichiara inammissibile il sesto; cassa la sentenza, in relazione al motivo accolto, nella sola parte in cui ha posto a carico solidale anche dell’Avv. L. le spese del giudizio di appello, la cui condanna è dunque eliminata.

Condanna i ricorrenti diversi dall’Avv. L.G., in solido tra di essi, al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.800 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Condanna la controricorrente Banco BPM S.p.a. al pagamento, in favore dell’Avv. L.G., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.900 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti diversi dall’Avv. L., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2022

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