Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.5981 del 23/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5949-2019 proposto da:

Z.Z.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G.

AURISPA 10, presso lo studio dell’Avvocato STEFANO CALIGIURI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

ONEONONE S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, 17, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO COCOLA, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3813/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 13/12/2018 R.G.N. 4794/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 04/11/2021 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI.

RILEVATO

che:

1. La Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva a sua volta rigettato i ricorsi proposti da Z.Z.D. la quale aveva chiesto, con un primo ricorso, il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la ONEONONE s.r.l., l’inquadramento nel terzo livello del c.c.n.l. del terziario dal 1.10.2006 al 31.7.2014 e la condanna della datrice di lavoro al pagamento delle differenze retributive maturate e non erogate. Con altro ricorso, l’accertamento della illegittimità del licenziamento intimatole a decorrere dal 31.7.2014 per un insussistente giustificato motivo oggettivo e comunque senza aver osservato l’obbligo di repechage e la condanna della convenuta al risarcimento del danno ed al ripristino del rapporto.

2. Il giudice di appello ha ritenuto che correttamente fosse stato mutato il rito applicabile alla controversia atteso che era risultato dimostrato che alla società datrice, che aveva meno di 15 dipendenti presso le singole sedi e comunque non più di sessanta a livello nazionale, non trovava applicazione la L. n. 300 del 1970, art. 18, e ss.mm.. Ha poi ritenuto che fosse stata offerta la prova del giustificato motivo oggettivo posto a base del recesso. Ha escluso che sussistessero opportunità di ricollocazione della lavoratrice evidenziando che non vi erano posizioni di impiegata d’ordine disponibili e che la stessa non poteva essere assegnata a mansioni di estetista massaggiatrice. Ha escluso che la situazione aziendale determinatasi a distanza di due anni dal recesso potesse rilevare ai fini della legittimità o meno del licenziamento. Quanto al Libro Unico del Lavoro, prodotto dalla Società, ha rilevato che si trattava di atto formato da un consulente del lavoro della società autorizzato dall’INAIL. Inoltre ha ritenuto non rilevanti le posizioni di altri dipendenti anche perché in parte riferite a periodi di tempo di molto successivi ed a profili professionali diversi da quello della lavoratrice. Ha escluso che il rapporto di lavoro subordinato potesse essere esteso al periodo in cui la ricorrente aveva lavorato per la società in virtù di un contratto a progetto osservando che le deduzioni erano generiche, comunque erano rimaste prive di riscontro probatorio e le censure mosse alla sentenza di primo grado non erano idonee a scalfire il contenuto della motivazione. Ha escluso che fossero stati acquisiti elementi per riconoscere il superiore inquadramento chiesto ed ha escluso del pari che fosse stata raggiunta la prova dell’avvenuto demansionamento della lavoratrice evidenziando che inoltre la motivazione della sentenza sul punto non era stata specificatamente censurata con l’appello. Infine, ha ritenuto irrilevante il rifiuto da parte della società datrice di aderire alla proposta conciliativa osservando che questo era risultato giustificato dalla accertata infondatezza delle pretese avanzate.

3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Z.Z.D. che ha avanzato sette motivi ai quali ha resistito con controricorso la ONEONONE s.r.l.. La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c., e, successivamente, il suo difensore ha depositato rinuncia al mandato.

CONSIDERATO

che:

4. Preliminarmente va dato atto del fatto che la sopravvenuta rinuncia che il difensore del ricorrente ha comunicato alla Corte prima dell’udienza di discussione già fissata non dispiega alcun effetto sul giudizio, caratterizzato da uno svolgimento per impulso d’ufficio, per effetto del principio della cosiddetta “perpetuatio” dell’ufficio di difensore di cui è espressione l’art. 85 c.p.c. (cfr. Cass. 08/11/2017 n. 26429).

5. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5, e degli artt. 115 e 210 c.p.c., oltre che la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

5.1. Deduce la ricorrente che la Corte territoriale avrebbe ritenuto provata, pur in mancanza di idonea documentazione, l’avvenuta soppressione del posto di lavoro a decorrere dal 30.10.2014 quando erano comunque trascorsi oltre 3 mesi dalla data del licenziamento della lavoratrice. Osserva che l’onere di provare l’esistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento gravava sulla datrice di lavoro che doveva dimostrare che ricorreva una situazione strutturale che non aveva i caratteri della transitorietà o della contingenza e che influiva in modo decisivo sulla normale attività della parte datoriale e imponeva una effettiva riduzione dei costi ed un riassetto organizzativo non pretestuoso ma con caratteri dell’effettività. Sostiene allora la lavoratrice che non solo non era stata provata la soppressione del posto di lavoro ed il riassetto organizzativo ma inoltre era emersa una ripresa dell’attività lavorativa ed una soppressione solo parziale dell’attività, riferita eventualmente al solo settore wellness degli alberghi e non ad altri. Deduce che, comunque, non potevano essere considerati non contestati fatti rispetto ai quali nulla era stato prodotto.

6. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5, della L. n. 300 del 1970, art. 3, degli art. 2697,2727,1175,1375 e 2103 c.c., oltre che degli artt. 4 e 36 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3..

6.1. Deduce la ricorrente che la datrice di lavoro sarebbe rimasta inadempiente all’onere che su di lei incombeva di dimostrare l’impossibilità di una differente utilizzazione della lavoratrice in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte anche con riguardo alla possibile adibizione a mansioni equivalenti o inferiori.

7. I due motivi, da esaminare congiuntamente poiché per profili diversi attengono alla valutazione della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato alla Z. sono infondati.

7.1. Va premesso che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo il datore di lavoro ha l’onere di provare che la sua scelta imprenditoriale abbia comportato la soppressione del posto di lavoro e che le ragioni addotte a sostegno della modifica organizzativa da lui attuata abbiano inciso, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato. Ne consegue che il licenziamento risulterà ingiustificato, per la mancanza di veridicità o la pretestuosità della causale addotta, in presenza dell’accertamento in concreto dell’inesistenza di dette ragioni (cfr. Cass. 20/07/2020 n. 15400). Inoltre, laddove il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia stato intimato a causa della soppressione del posto cui era addetto il lavoratore, il datore ha l’onere di provare che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti ed anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale.(Cass. 11/11/2019 n. 29099). Va rammentato ancora che ai fini dell’obbligo del “repechage”, non vengono in rilievo tutte le mansioni inferiori dell’organigramma aziendale ma solo quelle che siano compatibili con le competenze professionali del lavoratore, ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza, senza che sia previsto un obbligo del datore di lavoro di fornire un’ulteriore o diversa formazione del prestatore per la salvaguardia del posto di lavoro (cfr. Cass. 03/12/2019 n. 31520) fermo restando che grava sul datore di lavoro l’obbligo di provare – in base a circostanze oggettivamente riscontrabili – che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per occupare la diversa posizione libera in azienda. Diversamente opinando, infatti, il rispetto dell’obbligo di “repechage” risulterebbe sostanzialmente affidato ad una mera valutazione discrezionale dell’imprenditore (cfr. Cass. 27/09/2018 n. 23340).

7.2. Tanto premesso va rilevato che nella specie la Corte di merito, nel confermare la decisione di primo grado, ha accertato che la società aveva offerto la prova della cessazione dei contratti per la gestione delle spa negli alberghi e della dismissione di quel servizio anche presso il Westin Excelsior di ***** dove la ricorrente lavorava nel centro benessere con mansioni di addetta all’accoglienza e supporto del cliente. Ha del pari accertato che in tale contesto era risultato che anche un’altra lavoratrice che vi era addetta era stata licenziata. Nella sostanza, pertanto, la Corte di appello, con accertamento di fatto a lei riservato ed incensurabile se non sotto il profilo, qui neppure dedotto, del vizio di motivazione, ha verificato che il posto di lavoro al quale era addetta la odierna ricorrente era stato effettivamente soppresso. Le censure, pur veicolate come violazioni di norme di legge anche in tema di idoneità della prova raccolta e di corretta distribuzione dei relativi oneri sono funzionali, in concreto, ad una diversa ricostruzione dei fatti come acquisiti al giudizio che non è ammissibile in sede di legittimità.

7.3. Quanto al denunciato inadempimento da parte della società all’onere di dimostrare l’impossibilità di riutilizzare la lavoratrice in una diversa collocazione aziendale va rilevato che, ancora una volta con un compiuto accertamento di fatto, la Corte di merito ha verificato che gli unici posti disponibili presso altri appalti ancora in essere corrispondevano a mansioni del tutto estranee a quelle per cui la dipendente, impiegata addetta all’accoglienza, era stata assunta. La Corte ha infatti dato atto che dall’istruttoria svolta era emerso che si trattava di posizioni che richiedevano particolari competenze professionali come estetista e massaggiatrice e, per altro verso, ha verificato che le posizioni compatibili residuate in altre strutture erano tutte coperte. Ancora una volta si tratta di un accertamento di fatto non censurabile sulla base del quale la Corte di appello è pervenuta ad una decisione conforme ai principi di diritto affermati in materia da questa Corte che si sono più sopra ricordati.

8. Anche il terzo motivo di ricorso – con il quale è denunciata la violazione degli art. 112,115,116 c.p.c., e degli artt. 2697 e 2727 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, o, in subordine, l’omesso esame di un fatto decisivo in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – non può trovare accoglimento.

8.1. Sostiene la ricorrente che la Corte territoriale non avrebbe affatto tenuto in considerazione il fatto che la società One On One aveva continuato ad assumere personale non solo in coincidenza con il licenziamento della ricorrente, ma anche successivamente allo stesso e sottolinea che di tanto era stata data la prova sia attraverso dichiarazioni testimoniale che documentalmente non solo con il deposito del Libro Unico del Lavoro del 2016 ma anche con quelli degli anni precedenti che la Corte di appello non avrebbe tenuto in considerazione.

8.2. Rileva tuttavia il Collegio che da un canto il riferimento contenuto nella censura all’art. 112 c.p.c., non è pertinente ove si consideri che con tale norma è imposto al giudice di pronunciare sulla domanda e non oltre la stessa con censurabilità, se denunciata, dell’interpretazione data dal giudice di merito ma non è questo il contenuto della censura che, piuttosto, investe il contenuto e la valutazione della prova acquisita al giudizio. Ne’ può porsi una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione alla denunciata erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito. Tale violazione sussiste solo allorché si alleghi che il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. Cass. 27/12/2016 n. 27000) e la censura non pone tale questione. Allo stesso modo poi la sentenza non è incorsa in una errata distribuzione degli oneri probatori che ha pacificamente gravato il datore di lavoro sia della prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo sia della prova della incollocabilità altrimenti della lavoratrice. In definitiva la censura si risolve, come detto, in un diverso apprezzamento del materiale probatorio ed è per tale aspetto inammissibile. Quanto all’enunciata violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., va rammentato che questa è ravvisabile solo allorché ricorra il cd. vizio di sussunzione, ovvero quando il giudice di merito, dopo avere qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li reputi, tuttavia, sufficienti a dimostrare il fatto controverso (cfr. Cass. 13/02/2020 n. 3541) ma si tratta di doglianza che non risulta essere stata compitamente esplicitata.

9. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del contratto intercorso tra le parti, stipulato in data 21.12.2007 ed in subordine la nullità della sentenza in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Sostiene la ricorrente che il giudice di appello non avrebbe tenuto in considerazione il fatto che nel contratto di lavoro intercorso tra lei e la società ONEONONE s.r.l., del 21 dicembre 2007, era precisato che “Nel caso l’azienda lo ritenga necessario, e comunque nel rispetto della norma prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 13, lei potrà essere trasferita per ragioni tecniche, organizzative e produttive, anche per lunghi periodi presso altre sedi di lavoro in Italia o in Stati membri della Comunità Europea dove riceverà un alloggio adeguato, le indennità previste per il distacco e il rimborso delle spese effettive di viaggio” e che proprio tale clausola avrebbe consentito, ove rispettata, di trasferire la lavoratrice ad altra sede così come era avvenuto per altri dipendenti. Illogicamente poi la Corte avrebbe valorizzato l’obbligo di provvedere ad alloggio ed indennità per il distacco ed al rimborso delle spese di viaggio.

10. La censura oltre che infondata è anche inammissibile.

10.1. Va premesso che la Corte di appello ha tenuto esplicitamente conto nella sua sentenza della clausola richiamata dalla ricorrente ed ha chiarito le ragioni per le quali non era possibile attribuire alla pattuizione il significato voluto dalla lavoratrice. E’ evidente allora che non si può ravvisare la mancanza di motivazione denunciata e la questione avrebbe dovuto essere posta semmai sotto il diverso e non prospettato profilo del vizio di interpretazione della clausola contrattuale.

11. Il quinto motivo di ricorso ha ad oggetto la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, e della L. n. 604 del 1966, art. 7, modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 40, oltre che degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3..

11.1. Sostiene la ricorrente che la Corte di Appello, nell’esaminare la censura che aveva ad oggetto la statuizione di primo grado di mutamento del rito in relazione all’insussistenza del requisito dimensionale non avrebbe tenuto in considerazione la documentazione allegata all’appello limitandosi a considerare i soli documenti depositati dalla società datrice. Deduce che dall’esame della visura della società si poteva evincere che l’erogazione e la commercializzazione dei servizi di personal training e cura della persona era estesa al territorio nazionale e che la società svolgeva la sua attività in molte regioni italiane (come risulta anche dal suo sito internet). Inoltre la certificazione attestante il numero dei dipendenti non era stata rilasciata dall’INPS e comunque da un aggiornamento più recente era risultato che il numero era salito da 16 a 18. Sottolinea perciò che, nel ricorso dei requisiti dimensionali, il mancato rispetto della preventiva comunicazione della conciliazione renderebbe inefficace il licenziamento.

12. Il motivo è inammissibile in quanto, in disparte il contenuto della rubrica, si risolve in una prospettazione di una diversa ricostruzione degli elementi di fatto acquisiti al processo che come si è già chiarito non è ammissibile. La Corte di merito sulla base della documentazione acquisita al processo ha accertato infatti che nella sede non vi erano più di 15 dipendenti e che comunque il totale dei dipendenti della società non superava i sessanta con la conseguenza che al licenziamento non trovava applicazione la procedura prevista la L. n. 604 del 1966, art. 7, comma 1, nel testo modificato dalla L. n. 92 del 2012.

13. Il sesto motivo di ricorso – con il quale è denunciata la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la Corte territoriale rigettato l’appello con motivazione non manifesta essendosi limitata ad affermare che era stato disposto il deposito del Libro Unico del Lavoro dal quale era emerso che la società non aveva al momento del licenziamento più di 15 dipendenti per ciascuna sede né complessivamente più di 60 dipendenti a livello nazionale ed ha ritenuto che le contestazioni avanzate dall’appellante su tale produzione fossero prive di fondamento in quanto la documentazione prodotta appariva conforme alla normativa in materia – da un canto trascura di considerare che la motivazione sul punto c’e’ ed è adeguata dall’altro pretende che la Corte di legittimità proceda ad una diversa ricostruzione dei fatti che sono stati presi in esame dal giudice di appello e valutati ai fini dell’accertamento del requisito dimensionale.

14. Con l’ultimo motivo di ricorso è denunciata la violazione dell’art. 420 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ovvero, in subordine, la nullità della sentenza in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4, e con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Sostiene la Z. che il giudice di secondo grado non avrebbe tenuto nella dovuta considerazione la circostanza che in primo grado le parti erano state invitate a valutare un’ipotesi transattiva, per la somma onnicomprensiva di Euro 27.000,00, e mentre la ricorrente vi aveva aderito, la datrice di lavoro l’aveva integralmente rifiutata. Ciò nonostante la Corte territoriale con motivazione incoerente ed illogica aveva ritenuto che il rifiuto della proposta conciliativa era giustificato dall’esito del giudizio.

15. Il motivo è infondato. La Corte ha chiarito le ragioni per le quali il rifiuto della proposta conciliativa nel caso in esame era sostenuto da un giustificato motivo ravvisato specificatamente nella accertata infondatezza complessiva di tutte le pretese azionate e sulla base di tale considerazione ha ritenuto irrilevante tale condotta ai fini della regolazione delle spese. Si tratta di affermazione che si iscrive esattamente nel dettato dell’art. 420 c.p.c., comma 1, come modificato dalla L. n. 183 del 2010, art. 31, che autorizza il giudice a valutare se il rifiuto della proposta conciliativa formulata nel corso dell’udienza di discussione risulti o meno ingiustificato e tale valutazione non può che essere fatta all’esito del giudizio tenendo conto, come ha fatto la Corte del suo esito conclusivo.

16. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato D.P.R., art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 4.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato D.P.R., art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 4 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2022

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