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Praticante avvocato esercita oltre i 6 anni? Scatta il reato

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, Sentenza n.23608 del 27/04/2022 (dep. 16/06/2022)

Com'è noto, i praticanti avvocati, una volta iscritti al registro speciale tenuto dal consiglio dell'ordine, possono esercitare il patrocinio, nei limiti territoriali e di competenza stabiliti, per un "periodo non superiore a sei anni" (art. 8, comma 2, R.D.L. n. 1578/1993).

Ma che succede se il praticante continua ad esercitare dopo la scadenza dei sei anni?

La Cassazione, con sentenza n. 23608 depositata il 16 giugno 2022, ha confermato la condanna del praticante avvocato per il reato di esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p.

Nella specie, il praticante, nonostante la scadenza dei sei anni, aveva continuato a difendere le parti civili, costituendosi nel procedimento, compiendo attività istruttoria e rassegnando le conclusioni.

Tuttavia la Corte ha rigettato la richiesta di risarcimento delle parti civili nei confronti del praticante, in quanto le stesse non hanno provato alcun danno patrimoniale o non patrimoniale subito a seguito della dichiarazione di nullità delle attività difensive svolte.

Reato di esercizio abusivo della professione, praticante avvocato, scadenza dei 6 anni, configurabilità

Integra il reato di esercizio abusivo della professione di cui all'art. 348 del Codice Penale, la condotta del praticante avvocato che, pur essendo scaduto il termine di sei anni previsto dall’art. 8, comma secondo, R.D.L. n. 1578/1993 dall’iscrizione nel registro dei Praticanti Avvocati, continui a svolgere il patrocinio (nella specie il praticante aveva proseguito nella difesa delle parti civili, costituitesi nel procedimento, compiendo attività istruttoria e rassegnando le conclusioni).

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Corte di Cassazione, sez. VI Penale, Sentenza n.23608 del 27/04/2022 (dep. 16/06/2022)

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Benevento, ha revocato le statuizioni civili disposte in favore di D.B.A., confermando la condanna di I.Q. in ordine al reato di cui all'art. 348 c.p. alla pena di Euro 500,00 di multa.

2. Propone ricorso per cassazione il difensore di fiducia della parte civile D.B.A., avv. Giuseppe Bellaroba, deducendo due motivi di ricorso, di seguito riassunti nei limiti strettamente necessari alla motivazione.

Con il primo motivo reitera l'eccezione di intempestività dell'appello proposto dall'imputato, deducendo la violazione dell'art. 585 c.p.p., comma 2, lett. c).

Con il secondo motivo deduce la mancanza o apparenza della motivazione in merito alla revoca delle statuizioni civili nonché la violazione del diritto al giusto processo ai sensi dell'art. 6 CEDU. Contrariamente a quanto affermato dalla sentenza impugnata, la parte civile ha subito sia un danno patrimoniale - avendo dovuto sopportare i costi della difesa rispetto ad un'azione che non poteva essere promossa da un difensore non abilitato all'esercizio della professione ed in considerazione dell'inesistenza degli atti processuali posti in essere da detto difensore - che non patrimoniale in relazione alle frasi offensive dell'onore e della reputazione del D.B. pronunciate da I. nel corso del dibattimento e non assistite da "immunità giudiziale", stante il carattere abusivo della professione.

3. Il difensore di I.Q. ha depositato una memoria con la quale ha chiesto il rigetto del ricorso deducendo: i) l'inammissibilità del primo motivo di ricorso alla stregua dell'orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità e, comunque, il difetto di legittimazione della parte civile ad impugnare la sentenza agli effetti penali; ii) l'inammissibilità del secondo motivo di ricorso sia alla stregua delle argomentazioni esposte nella sentenza impugnata che della tardività delle argomentazioni dedotte per la prima volta con il ricorso per cassazione (si allega a tal fine l'atto di costituzione di parte civile); iii) l'inammissibilità del ricorso per sopravvenuto decesso del ricorrente, in assenza di una manifestazione di interesse da parte degli eredi (deposita, a tal fine, il certificato di morte della parte civile ricorrente).

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.Il ricorso è inammissibile per complessiva manifesta infondatezza e genericità dei motivi dedotti.

2.In primo luogo deve essere esaminata la questione dedotta dall'imputato in merito alla rilevanza, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, del sopravvenuto decesso della parte civile ricorrente.

L'eccezione è infondata.

Alla morte della persona costituita parte civile non conseguono gli effetti della revoca tacita, né quelli interruttivi del rapporto processuale previsti dall'art. 300 c.p.c. inapplicabili al processo penale in quanto la costituzione resta valida "ex tunc" e, pertanto, la mancata comparizione in appello degli eredi del defunto titolare del diritto o la loro assoluta inerzia non integrano un comportamento equivalente alla revoca tacita o presunta, essendo questa configurabile, ai sensi dell'art. 82, comma 2, c.p.p., nel solo caso di omessa presentazione delle conclusioni nel corso della discussione in fase di dibattimento di primo grado (Sez. 6, n. 54641 del 27/09/2018 Giacopuzzi Rv. 274635; Sez. 4, n. 39506 del 15/07/2016 Camprini Rv. 267904).

3. Va, inoltre, rigettata l'eccezione relativa al difetto di legittimazione del ricorrente avendo questo impugnato la sentenza ai soli effetti civili.

4.Passando all'esame del ricorso, il primo motivo è manifestamente infondato.

Rileva il Collegio che la sentenza di primo grado, emessa il 25 settembre 2018, aveva indicato il termine di sessanta giorni per il deposito della motivazione che scadeva il 24 novembre 2018. La Corte di appello ha ritenuto tempestiva l'impugnazione proposta dall'imputato, considerando quale dies a quo il giorno successivo a quello di scadenza del termine indicato dal giudice.

Così facendo, ha fatto buon governo dell'orientamento ermeneutico maggioritario, dal Collegio pienamente condiviso e ribadito, secondo il quale in tema di computo dei termini processuali, ai fini della tempestività della proposizione dell'impugnazione nel caso di imputato presente al dibattimento e di sentenza con riserva di deposito della motivazione, il termine per il deposito del gravame inizia a decorrere dal primo giorno successivo alla scadenza di quello previsto per il deposito della sentenza, in virtù del principio generale di cui all'art. 172 c.p.p., comma 4, (Sez. 5, n. 30723 del 21/06/2021, Rv. 281683; Sez. 4, n. 6490 del 26/11/2020, dep. 2021, Olmetti, Rv. 280927; Sez. 6, n. 25598 del 27/05/2020, Rv. 279874).

Va, infatti, considerato che l'art. 585 c.p.p., comma 2, lett. c), nel disciplinare la decorrenza del termine per l'impugnazione in caso di deposito della sentenza non contestuale alla sua deliberazione, prevede quale dies a quo, la "scadenza dei termine stabilito dalla legge o determinato dal giudice per il deposito della sentenza".

In dottrina si è condivisibilmente osservato che la disciplina contenuta all'art. 585 c.p.p. è volta a consentire alle parti di conoscere preventivamente il dies a quo di decorrenza del termine per l'impugnazione, che è predeterminato per legge; ciò, come rilevato da Sez. U., n. 155 del 29/09/2011, dep. 2012, Rossi, in motivazione, al fine di evitare costi e tempi per la notificazione dell'avviso di deposito del provvedimento.

Può, pertanto, ritenersi che il significato del sintagma contenuto alla lettera c) del comma 2, sia correlato esclusivamente a tale scopo e non alla individuazione di una regola di computo del termine per l'impugnazione che comprenda anche il giorno inziale.

In assenza di una espressa deroga alla regola di computo del termine indicata all'art. 172, comma 4, c.p.p., deve, dunque, affermarsi che il dies a quo del termine per l'impugnazione va individuato nel giorno successivo alla scadenza di quello previsto per il deposito della sentenza, così come, in virtù del medesimo principio, il termine per il deposito della motivazione della sentenza inizia a decorrere dal giorno successivo a quello della lettura del dispositivo (Sez. 3, n. 36644 del 15/07/2019, A., Rv. 277721).

Il Collegio è consapevole dell'esistenza di un difforme orientamento che, invece, individua il termine iniziale di cui all'art. 585, comma 2, lett. c),, c.p.p. nello stesso giorno di scadenza del termine per il deposito della sentenza (Sez. 6, n. 51126 del 18/07/2019, Evangelisti, Rv. 278192; Sez. 3, n. 17416 del 23/02/2016, Di Eugenio, Rv. 266982).

Tale diverso principio si fonda, oltre che sull'analisi letterale della norma, su un obiter contenuto nella sentenza delle Sezioni Unite n. 155 del 2011, Rossi, in cui il Supremo Consesso, esaminando la questione controversa relativa all'applicabilità dell'art. 172, comma 3, c.p.p. al termine per il deposito della sentenza, nel rispondere positivamente a tale quesito, ha affermato che la proroga al giorno successivo non festivo del termine per il deposito della sentenza che cade in giorno festivo si riflette anche sul successivo termine per l'impugnazione della sentenza giacché, testualmente, "il giorno iniziale di decorrenza del secondo termine coincide con quello in cui cade il primo termine". In particolare, il Supremo Consesso ha affermato il principio così massimato: Nelle ipotesi in cui è previsto, come nell'art. 585 c.p.p., comma 2, lett. c), che il termine assegnato per il compimento di un'attività processuale decorra dalla scadenza del termine assegnato per altra attività processuale, la proroga di diritto del giorno festivo - in cui il precedente termine venga a cadere - al primo giorno successivo non festivo, determina altresì lo spostamento della decorrenza del termine successivo con esso coincidente. Tale situazione, tuttavia, non si verifica ove ricorrano cause di sospensione quale quella prevista per il periodo feriale che, diversamente operando per i due termini, comportino una discontinuità in base al calendario comune tra il giorno in cui il primo termine scade e il giorno da cui deve invece calcolarsi l'inizio del secondo (Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, dep. 2012, Rossi, Rv. 251495). Ha, infatti, chiarito il Supremo Consesso che tale criterio è l'unico conforme allo scopo delle regole poste dall'art. 585 c.p.p., di evitare, mediante il sistema della prefissazione di termini per il deposito, costi e tempi per le notificazioni; ne consegue, prosegue ancora la Corte, da un lato, che se il deposito è ritardato, anche di un solo giorno, occorre procedere a notifica; dall'altro, che se la sentenza è ritualmente depositata nel giorno post-festivo successivo a quello astrattamente coincidente con lo scadere del termine, non può conseguirne per la parte la perdita di un giorno rispetto al termine che deve esserle riconosciuto.

Ad avviso del Collegio, proprio l'analisi del percorso argomentativo della esaminata sentenza delle Sezioni Unite impedisce di attribuire all'affermazione valorizzata dall'orientamento in questione una portata di carattere univoco, essendo specificamente riferita agli effetti della scadenza in giorno festivo del termine per il deposito della sentenza ed all'esigenza di evitare che, in tal caso, venga frustrata la ratio sottesa alla disciplina contenuta nell'art. 585 c.p.p. con l'imposizione di un obbligo di notificazione della sentenza depositata nel giorno feriale immediatamente successivo a quello della fisiologica scadenza del termine per il deposito secondo la regola di cui all'art. 172 c.p.p..

Proprio in ragione del carattere equivoco dell'obiter valorizzato dall'orientamento qui disatteso e dell'epoca degli arresti che lo hanno sostenuto, non si reputa, allo stato, di dover rimettere la questione alle Sezioni Unite, stante, soprattutto, la non attualità del contrasto ermeneutico.

5. Il secondo motivo è inammissibile in quanto generico e manifestamente infondato. Secondo la concorde ricostruzione dei Giudici di merito, I.Q. ha esercitato abusivamente la professione di praticante avvocato in quanto, pur essendo scaduto il 28 aprile (OMISSIS) il termine di sei anni previsto dal R.D.L. n.1578 del 27 novembre 1993, art. 8, comma 2, dall'iscrizione nel registro dei Praticanti Avvocati del foro di (OMISSIS), proseguiva nella difesa delle parti civili, costituitesi nel procedimento a carico di D.B.M. (padre del ricorrente), presenziando alle udienze tenutesi negli anni 2013 e 2014, compiendo attività istruttoria e rassegnando le conclusioni.

La sentenza impugnata, con motivazione immune da vizi logici e giuridici, ha revocato le statuizioni civili disposte in favore della parte civile D.B.A., ritenendo che il comportamento dell'imputato ha arrecato un danno solo ai propri assistiti, stante la nullità delle attività difensive da lui svolte, mentre non risulta provato alcun danno patrimoniale o non patrimoniale subito dal D.B., posto che le parti civili si sarebbero comunque fatte assistere da un difensore, sicché la perdita dell'abilitazione di I. si pone come un fatto neutro rispetto allo svolgimento del processo ed alla sua conclusione. A fronte di tali argomentazioni, il ricorrente si limita ad allegare genericamente di avere subito un danno omettendo di confrontarsi con il rilievo mosso dalla Corte territoriale circa la valenza "neutra" della condotta dell'imputato posto che il processo penale a carico del D.B. sarebbe stato, comunque, celebrato e ciò a prescindere dalla designazione o meno di I. quale difensore delle parti civili costituite.

6. All'inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Inoltre, il ricorrente va condannato al pagamento della somma di Euro tremila da versare in favore della Cassa delle Ammende, non potendosi ritenere che lo stesso abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. n. 186 del 2000).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 27 aprile 2022.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2022

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