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Svolgere attività stragiudiziale senza il titolo di avvocato è reato?

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, Sentenza n.15423 del 15/03/2023 (dep. 12/04/2023)

Svolgere un'attività stragiudiziale senza la qualifica di avvocato integra il reato di esercizio abusivo di una professione ex art. 348 c.p.?

È il quesito che si è posto la Corte di Cassazione, sez. VI penale, con la sentenza n. 15423 depositata il 15 marzo 2023.

La Corte ha chiarito che il mero utilizzo del titolo di avvocato da parte di chi non lo possiede non costituisce reato. Tuttavia la fattispecie incriminatrice si può configurare quando l'attività venga svolta in forma professionale, in modo continuativo, sistematico ed organizzato.

Nel caso di specie, l'imputata aveva svolto per nove mesi una consulenza legale a favore di un cliente, al fine di ottenere un risarcimento in sede giudiziaria civile.

Pur non essendo tutte le attività stragiudiziali riservate agli avvocati, la Cassazione ha precisato che le attività destinate a sfociare in un contenzioso giudiziario sono prerogativa esclusiva degli avvocati.

L'art. 2, comma 6, della Legge professionale forense (Legge 247/2012) stabilisce infatti che:

"fuori dei casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla legge per gli esercenti altre professioni regolamentate, l'attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all'attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati".

La Corte ha inoltre sottolineato che l'abitualità nello svolgimento di attività non esclusivamente riservate a una professione può comunque generare affidamento nei terzi, mediante l'accreditamento di un'apparente legittimità del patrocinio. Tale situazione va quindi evitata per garantire la tutela degli interessi del fruitore, presidiati dai presupposti di onorabilità, competenza ed etica professionale propri dello specifico ordinamento.

In definitiva svolgere un'attività stragiudiziale senza la qualifica di avvocato può configurare il reato di esercizio abusivo di una professione, nel caso in cui l'attività sia svolta in forma professionale, continuativa, sistematica ed organizzata, e sia connessa all'attività giurisdizionale.

Reato di esercizio abusivo di una professione, compimento senza titolo di atti, modalità, integrazione del reato

Integra il reato di esercizio abusivo di una professione (art. 348 c.p.) il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato.

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Corte di Cassazione, sez. VI Penale, Sentenza n. 15423 del 15/03/2023 (dep. 12/04/2023)

RITENUTO IN FATTO

1.1. Il Tribunale di Orestano, all'esito di giudizio abbreviato, condannava A.G. a due anni di reclusione e a 1.200,00 Euro di multa, per il delitto di tentata estorsione (artt. 56; 629 c.p.), per aver compiuto atti idonei e diretti in modo non equivoco, dapprima a costringere T.U. a proporre una causa civile per la morte del marito, chiedendo un risarcimento danni per responsabilità medica, al fine di ottenere un profitto trattenendo una percentuale del risarcimento ottenuto dalle assicurazioni, invece che procedere soltanto per via penale, come da volontà della cliente e, successivamente, una volta revocatole il mandato, per aver tentato di costringere T. a pagare somme di denaro non dovute e sproporzionate per l'attività svolta (capo di imputazione a).

Condannava l'imputata altresì per il delitto di esercizio abusivo della professione (art. 348 c.p.) poiché abusivamente esercitava la professione di avvocato, in specie proponendosi per l'assistenza legale e curando pratiche legali per la cliente T., spendendo il titolo di avvocato sia con la cliente sia nei rapporti con consulenti medici e periti, esponendo in fattura l'aggiunta percentuale dovuta per contributi previdenziali c.p.A. Cassa forense, generando così apparenza di attività svolta da soggetto regolarmente legittimato (capo b).

1.2. La Corte di appello di Cagliari riformava la sentenza qualificando il fatto di cui al capo a) (estorsione) in tentata truffa aggravata (art. 56; 640, comma 2, n. 2, c.p.) e rideterminava pertanto la pena in anni uno di reclusione e 8.200,00 Euro di multa. Confermava nel resto la pronuncia impugnata.

2. Avverso tale sentenza A.G. ha presentato due distinti ricorsi, per il tramite dell'avvocato Giorgio Bacchelli e per il tramite dell'avvocato Massimiliano Orrù.

3. Nel ricorso redatto dall'avvocato Giorgio Bacchelli sono dedotti due motivi.

3.1. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione alla tentata truffa.

Premesso come non sia certamente rimproverabile il legale che consiglia al cliente, nel miglior interesse di quest'ultimo, la strategia giudiziaria da seguire, si precisa che, essendo T. rimasta, dopo la morte del marito, priva di fonti di sostentamento per sé e per i figli, correttamente A. aveva suggerito la via del risarcimento in sede civile, anche alla luce della totale ignoranza di T. in materia giuridica. A. è titolare di un grosso studio di infortunistica e l'accordo (verbale) tra lei e T. era - del tutto conformemente alle tariffe in questo settore - che la prima percepisse a titolo di compenso per la prestazione professionale il 10% dell'importo del risarcimento, una volta erogato dall'assicurazione. Di conseguenza, prevedendosi un risarcimento per un importo certamente superiore a 1.500.000/2.000.000 Euro, il compenso di A. per l'attività si sarebbe aggirato attorno ad almeno 120/150.000 Euro.

Ciò posto, nel ricorso si rileva come della fattispecie di truffa difettino gli elementi costitutivi. Mancherebbero, in particolare, sia gli "artifizi o raggiri", poiché nella locuzione non può ricondursi l'accordo intercorso tra le parti, sia l'evento di profitto, avendo i giudici con esso confuso il lecito compenso atteso per la prestazione professionale.

Si conclude chiosando come T. - la quale, avendo ricevuto nota di pagamento dopo la revoca del mandato, aveva ritenuto il compenso (80.000 Euro più oneri) troppo elevato più congruamente avrebbe dovuto scegliere la via dell'azione giudiziale, piuttosto che sporgere querela (in ciò mal consigliata dall'avvocato cui nel frattempo si era rivolta).

4.2. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione all'esercizio abusivo della professione.

Insussistente sarebbe anche la tipicità di tale delitto, posto che A. è patrocinatore stragiudiziale ed ha svolto, nel caso concreto, l'attività tipica di tale figura professionale, riconosciuta dall'ordinamento.

I giudici obiettano che l'imputata avrebbe speso il titolo di avvocato con il cliente, i suoi fratelli ed anche con i medici legali e periti, nonché nella documentazione scritta, tra cui una fattura che riportava l'aggiunta percentuale per i contributi previdenziali CPA, intesa come Cassa Forense. Tuttavia, in tal modo non avrebbero tenuto in conto il livello culturale delle persone che hanno ciò riferito e che non potevano cogliere la differenza tra attività legale e paralegale; non avrebbero considerato come l'uso del termine "avvocato" nella documentazione potesse essere dipeso da errore o da esigenze di semplificazione espositiva (il nome di A. seguiva infatti quello di altro professionista con titolo di avvocato); avrebbero ignorato che "CPA" - in quella che peraltro non è una fattura ma una semplice nota pro-forma (con indicazione meramente orientativa dei costi) - è l'acronimo di Cassa Previdenza Autonomi (non soltanto di Cassa Previdenza Avvocati), come anche indiziato dal fatto che nella nota non fosse indicata la voce del 15)-o che compete agli avvocati come rimborso spese forfettizzate.

5. L'avvocato Massimiliano Orrù articola sette motivi di ricorso.

5.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce erronea applicazione della legge penale processuale in relazione alla mancata corrispondenza tra accusa e sentenza.

I giudici sarebbero incorsi in una chiara violazione del diritto di difesa.

Nella ri-rubricazione del reato da estorsione tentata a tentata truffa aggravata, l'imputata, la quale aveva optato per il rito abbreviato, ha subito una nuova contestazione e si è venuta, dunque, a trovare in una posizione diversa e deteriore rispetto a chi, della medesima imputazione fosse stato chiamato a rispondere sin dall'inizio, essendo stata privata della possibilità di operare scelte differenti. Ciò, vieppiù considerato che, essendo rimasto il capo di imputazione immutato quanto alla descrizione delle condotte attribuite, all'imputata sarebbe stata sottratta la possibilità di conoscere gli specifici addebiti. Ne' le disposizioni in tema di abbreviato prevedono tale possibilità (ove l'avessero prevista, avrebbero dovuto disporre, come negli artt. 516 c.p.p., una serie di rimedi per controbilanciare la privazione dei diritti di difesa).

5.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione in relazione al capo a) di imputazione.

Sono proposte considerazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle riportate a proposito del ricorso dell'avvocato Bacchelli quanto alla ragionevolezza della scelta di optare per la strada del risarcimento in sede civile, peraltro condivisa da T., e al carattere non sproporzionato del compenso concordato in relazione all'attività professionale da svolgere, nonché di quello richiesto dopo la risoluzione del rapporto per revoca del mandato. Si precisa altresì che: il rapporto tra A. e T. è durato ben nove mesi (dal giorno della morte del marito di T., il (Omissis), quando A. contattò la donna, proponendosi per la gestione legale del sinistro, sino al 4 novembre dello stesso anno, data in cui T. revocò il mandato); durante tale lasso di tempo sono state svolte attività e si è fatto ricorso a consulenti, di cui uno ( F., il medico legale e delle assicurazioni) "convenzionato" con lo studio A. e un altro ( M., il chirurgo) dal primo indicato ma estraneo alla rete di rapporti professionali dello studio, che reclamava il compenso prima della chiusura della pratica e il cui pagamento A. volle, dunque, fosse posto da subito a carico della cliente. Di conseguenza - si aggiunge - alla luce dell'attività svolta e del risarcimento atteso (secondo le tabelle di Milano, utilizzate su tutto il territorio nazionale come punto di riferimento in materia), la richiesta di pagamento di A. (80.000 Euro) - intervenuta soltanto il 28 marzo 2017 - non era sproporzionata e comunque non è stata accompagnata da alcuna minaccia. Inoltre, è del tutto normale che A., di fronte alla revoca del mandato, abbia inviato una nota per chiedere il rimborso delle spese anticipate ai professionisti interni.

5.3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione della legge penale e vizio di motivazione in relazione al capo b) di imputazione.

Alle considerazioni già riportate a proposito del ricorso presentato dall'avvocato Bacchelli, si aggiunge che, premesso come all'imputata non sia stata contestata la spendita della qualifica professionale ai sensi dell'art. 495 c.p., la nota in cui il nome di A. era preceduto nel testo dal titolo "Avv." veniva tuttavia firmata dalla stessa come "dottoressa". Inoltre, che T. sapesse che A. non era avvocato risulta altresì dal testo della denuncia-querela, dove la prima riferisce di aver saputo dalla seconda che questa era titolare di uno studio di infortunistica al cui interno operavano varie figure professionali che sarebbero state tutte impegnate nell'assisterla nella tutela legale, aggiungendo di aver conferito l'incarico civilistico a due avvocati. Neppure è conferente l'osservazione della Corte di appello dove si desume che A. si fosse qualificata come avvocato perché solo in quella veste avrebbe potuto chiedere una consulenza sulla capacità di intendere e di volere di T.: piuttosto, si era chiesto alla psichiatra di valutare la salute mentale della vedova, pratica perfettamente lecita e tipica nella gestione stragiudiziale dei sinistri, in quanto volta a consentire la prova e la quantificazione del danno biologico, tanto più in una vicenda che aveva avuto esito mortale.

5.4. Con il quarto motivo di ricorso si deduce erronea applicazione della legge penale, per aver i giudici applicato una pena illegittima, in quanto determinata sulla base dei limiti edittali previsti in relazione alla fattispecie attualmente in vigore, mentre il fatto risale a un tempo antecedente alla L. 11 gennaio 2018, n. 3.

Nel capo di imputazione si legge, infatti, come il delitto di esercizio abusivo della professione sia stato commesso dal (Omissis) al 16 gennaio 2018. Tuttavia il mandato è stato revocato da T. il 4 novembre 2015 e, pertanto, a partire da quella data, A. non può aver posto in essere ulteriori condotte degne di rilievo, sicché il reato deve ritenersi consumato, al massimo, in tale data.

Il 16 gennaio 2018 - data finale della consumazione del reato secondo la contestazione è il giorno in cui T. ha ricevuto raccomanda a.r. di Avv. V. con cui era invitata alla negoziazione assistita e, comunque, anche a quella data, non era ancora in vigore la L. 11 gennaio 2018, n. 3, in virtù della vacatio legis.

Non soltanto, dunque, la pena applicata in concreto dal secondo giudice è illegittima perché supera la pena massima prevista dalla norma vigente al momento della commissione del reato. Tale erronea valutazione ha anche comportato l'ulteriore errore di considerare più grave la violazione di cui al capo b) rispetto a quella del capo a).

5.5. Con il quinto motivo di ricorso si censura violazione della legge penale sostanziale e vizio di motivazione perché i giudici si sono discostati dal minimo edittale previsto dalla fattispecie di esercizio abusivo di una professione - irrogando una pena pari al doppio del minimo - senza spiegarne le ragioni.

5.6. Con il sesto motivo di ricorso si deduce violazione della legge penale sostanziale e vizio di motivazione della sentenza nella parte in cui l'imputata non è stata considerata meritevole delle circostanze attenuanti generiche. Premesso, infatti, che non rappresenta una giustificazione adeguata la ritenuta mancanza di qualunque segno di ravvedimento da parte di A., i giudici si sarebbe sottratti al dovere di individualizzare, attraverso l'art. 62-bis c.p., il trattamento sanzionatorio laddove esso non risulti proporzionato alla gravità del fatto storico e rispettoso delle caratteristiche di personalità del suo autore.

5.7. Con il settimo motivo di ricorso si deduce violazione della legge penale sostanziale e omessa motivazione della sentenza nella parte in cui i giudici hanno ritenuto di non concedere all'imputata il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, nonostante specifica richiesta difensiva in tal senso e sebbene le concrete modalità esecutive dell'episodio, certamente non sintomatiche di abilità e professionalità criminale e l'incensuratezza dell'imputata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Premesso che il contenuto del ricorso a firma dell'avvocato Bacchelli coincide sostanzialmente con quello di due motivi (secondo e terzo) del ricorso a firma dell'avvocato Orrù e che dunque i ricorsi saranno congiuntamente trattati, essi, seppur per parte versati in fatto, risultano fondati nei limiti e per le ragioni di seguito indicate.

2. Fondate appaiono, in particolare, le censure relative alla non configurabilità del delitto di tentata truffa aggravata (art. 56; art. 640, comma 2, n. 2).

2.1. Sulla base della dettagliata descrizione della vicenda fattuale ad opera del giudice di secondo grado non può escludersi che la ricorrente fosse animata da un intento decettivo, come indicato da plurimi elementi. Tra essi è possibile annoverare: l'atteggiamento elusivo della ricorrente di fronte alle richieste di chiarimento avanzate da T.; la richiesta intermedia - di 8.000 Euro a T. con il pretesto di pagare il compenso del chirurgo consulente che, invece, è successivamente risultato di gran lunga inferiore (2.440 Euro, e che fu poi comunque liquidato dalla stessa T., come peraltro da iniziali accordi); la telefonata alla psichiatra cui A. aveva indirizzato T. e che, sempre secondo la ricostruzione dei giudici di merito, mirava a condizionarne la diagnosi nel senso dell'affermazione di una incapacità di intendere e di volere; la richiesta di un compenso finale che (a prescindere dalle prassi del settore e al di là dei rilievi che saranno successivamente svolti a proposito dell'altro capo di imputazione) risulta oggettivamente sproporzionato - chiosano i giudici di merito, poco meno di 9.000 Euro al mese - oltre che con ogni probabilità non dovuto (considerato che, secondo l'accordo verbale di cui parlano i ricorrenti, T. avrebbe dovuto pagare alla ricorrente il 10% del risarcimento ricevuto dall'assicurazione grazie alla sua opera ma che tale risarcimento non venne erogato).

A prescindere, tuttavia, da ogni considerazione sulla sufficienza (o meno) di tali elementi ad integrare il delitto di truffa, anche solo tentata, il capo di imputazione, che condiziona lo svolgimento del processo ed orienta l'esercizio dei diritti di difesa, si incentrava su accuse specifiche e diverse.

Gli addebiti consistevano, cioè, nell'aver tentato di costringere T.U., dopo la morte del marito a seguito di una operazione chirurgica, a proporre una causa civile - piuttosto che adire la via penale, come questa desiderava - e, dopo che le fu revocato il mandato, nell'aver tentato di costringere la cliente a pagare somme di denaro non dovute e appunto sproporzionate per eccesso rispetto all'attività svolta.

Ebbene, la vicenda storica per come fotografata in tale contestazione e per come in parte ricostruita dai giudici di merito, è segnata da forme di più o meno esplicite e sicuramente ripetute di pressione psichica nei confronti della parte civile, che concretano un comportamento discutibile sul piano deontologico ed etico - vieppiù considerato che T. stava attraversando un momento molto delicato della sua vita -, forse anche suscettibili di trovare risposta sul piano civilistico.

Esse appaiono, tuttavia, penalmente irrilevanti.

Nel fatto difettano gli elementi costitutivi dell'estorsione (per cui A. era stata condannata in primo grado), non essendo ravvisabile la necessaria "costrizione mediante violenza o minaccia". Mancano però anche i requisiti della truffa, quantomeno sotto il profilo degli "artifizi o raggiri" che, già sulla base dell'insegnamento tradizionale, devono consistere, rispettivamente, nella trasfigurazione della realtà esterna e in quello che la risalente dottrina definiva "subdolo ravvolgimento dell'altrui psiche": laddove le condotte contestate manifestano un'esplicita finalizzazione induttiva, piuttosto che ingannatoria (così come, a fortiori, non sono ravvisabili gli estremi della circostanza aggravante, la quale richiede l'aver ingenerato il timore di un pericolo "immaginario" e che si riferisce tradizionalmente a ben diverse manifestazioni criminologiche).

2.2. Per tale ragione, deve concludersi che il reato di tentata truffa aggravata non sussista, con la conseguenza che la sentenza impugnata va annullata in relazione al capo a) di imputazione. L'annullamento, non residuando spazio di deliberazione, va disposto senza rinvio.

L'accoglimento dei ricorsi sul punto del difetto di responsabilità per la tentata truffa aggravata comporta l'assorbimento dell'esame del primo motivo di ricorso dell'avvocato Orrù, relativo all'asserita compressione dei diritti difensivi conseguente alla ri-qualificazione del fatto a seguito del giudizio abbreviato (invero, comunque insussistente, dal momento che il fatto storico è rimasto lo stesso), come anche dei rilievi contenuti nel quarto motivo del medesimo ricorso a proposito del calcolo della pena per la continuazione.

3.1. Venendo alle deduzioni difensive concernenti la condanna dell'imputata per esercizio abusivo di una professione (art. 348 c.p.), al di là dell'apprezzamento degli elementi fattuali allegati nei ricorsi, invero equivoci e comunque sottratti alla cognizione del giudice di legittimità, si conviene con i rilievi della ricorrente là dove si evidenzia che la mera spendita del titolo di avvocato da parte di chi non lo possieda, come nel caso di A., non concreta la fattispecie in oggetto.

Questo collegio ritiene, infatti, che a tal fine - nel rispetto del principio di extrema ratio penalistica - debba piuttosto richiedersi la realizzazione di un'attività svolta in forma professionale, in modo continuativo, sistematico ed organizzato (in tal senso, Sez. 6, n. 32952 del 25/05/2017, Favata, Rv. 270853, in una fattispecie concreta di occasionale redazione di denuncia, ancorché scritta su carta intestata).

Nel caso di specie, tuttavia, A. non si è limitata ad usare la qualifica di avvocato, posto che dalla sentenza, come pure dai medesimi ricorsi presentati si evince che la stessa ha svolto continuativamente, per nove mesi, una consulenza a favore di T. che mirava a conseguire il risarcimento in sede giudiziaria civile.

Se è così, non erra la difesa di A. quando evidenzia come non tutte le attività stragiudiziali siano dalla legge riservate agli avvocati, assistendosi peraltro - potrebbe aggiungersi - ad una sorta di flessibilizzazione degli originari comparti delle professioni, nella specie legali, e alla nascita di figure un tempo inesistenti.

Sbaglia però quando dimentica che le attività destinate a sfociare in un contenzioso giudiziario sono riservate ai soli avvocati.

E' vero, infatti, che l'a L. 14/01 del 2014, n. 4, art. 1, nel disciplinare la "professione non organizzata in ordini o collegi", precisa (comma 2) che per tale "si intende l'attività economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il concorso di questo". Lo stesso comma prevede, tuttavia - immediatamente di seguito e per quanto qui rileva - l'espressa "esclusione delle attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi o elenchi ai sensi dell'art. 2229 del codice civile".

Ora, premesso che nella riserva dell'art. 2229 c.c. rientra l'attività forense, la L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 2, comma 6, nel disciplinarne l'esercizio, sancisce che "fuori dei casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla legge per gli esercenti altre professioni regolamentate, l'attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all'attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati".

Ebbene, dalla lettura della sentenza impugnata risulta appunto come A. avesse ad esempio incardinato presso la Camera di Commercio una procedura specificamente definita di "mediazione", per legge obbligatoriamente prodromica e dunque "connessa" all'attività giurisdizionale. Ne' tale dato è stato smentito, tramite contrarie e specifiche allegazioni, dalla difesa.

Risultando dunque l'attività stragiudiziale esercitata dalla ricorrente, in difetto dell'apposito titolo abilitativo, connessa a quella giudiziaria civile ed essendosi tale esercizio prolungato per un periodo apprezzabile di tempo, deve concludersi che la Corte di appello di Cagliari ha ritenuto in maniera corretta e con motivazione non illogica che la condotta di A. integrasse il delitto di cui all'art. 348 c.p..

3.2. Nel caso di specie e con le precisazioni svolte, va, dunque, confermato l'insegnamento di questa Corte di legittimità, per cui integra il reato di esercizio abusivo di una professione (art. 348 c.p.) il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato (Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011, dep. 2012, Cani, Rv. 251819).

Tale insegnamento è stato d'altronde richiamato, in tempi più recenti e con riferimento ad una vicenda analoga a quella oggetto del presente giudizio, in Sez. 2, n. 46865 del 26/09/2019, Merenda, non mass., sentenza che, nel ribadire la ratio decidendi delle Sezioni Unite, evidenzia come le connotazioni di abitualità nello svolgimento di attività pur di per sé non esclusivamente riservate ad una professione, siano comunque suscettibili di ingenerare affidamento nei terzi, mediante l'accreditamento di un apparente legittimo patrocinio, conforme ai fini di tutela degli interessi del fruitore, presidiati dai presupposti di onorabilità, competenza ed etica professionale propri dello specifico ordinamento.

3.3. Per le ragioni esposte, i motivi dei ricorsi tesi ad escludere la configurabilità, in capo all'imputata, del delitto ex art. 348 c.p. devono essere rigettati.

4. Ferma dunque la responsabilità di A. per il reato di esercizio abusivo della professione, è invece fondato il quarto motivo del ricorso presentato dall'avvocato Orrù, relativo alla quantificazione della pena.

Sul punto, va ricordato che la L. 11 gennaio 2018, n. 3 ha sostituito, nella fattispecie in oggetto, la pena della "reclusione fino a sei mesi o con la multa da Euro 103 a Euro 516" con la "reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da Euro 10.000 a Euro 50.000".

Tale legge non era però ancora vigente al momento del fatto commesso, e ciò - per le ragioni indicate nel ricorso - a prescindere dal momento in cui debba ritenersi perfezionata la consumazione del reato - e cioè alla data della revoca del mandato da parte di T., nel 2015, oppure al momento dell'inoltro della richiesta di pagamento tramite avvocato da parte di A., due anni e mezzo dopo, quando era comunque ancora pendente la vacatio legis.

Di conseguenza, la modifica legislativa non avrebbe potuto essere applicata, se non incorrendo in un'inammissibile violazione del principio di irretroattività della legge penale.

5. Dovendo annullarsi sul punto la sentenza, con rinvio ai giudici di merito limitatamente alla nuova determinazione della pena - e conseguente passaggio in giudicato dell'affermazione di responsabilità dell'imputata per il delitto di esercizio abusivo della professione -, risultano assorbiti altresì il quinto e il sesto motivo del ricorso a firma dell'avvocato Orrù, in cui sono dedotti erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione in rapporto alla scelta operata dai giudici di secondo grado, rispettivamente, di discostarsi dal minimo edittale nella commisurazione della pena e di non concedere le circostanze attenuanti generiche.

6. E' infine fondato e va, dunque, accolto il settimo motivo di ricorso dell'avvocato Orrù, là dove deduce l'omessa motivazione del provvedimento impugnato quanto alla richiesta dedotta in appello - di concedere all'imputata il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. Su di esso il giudice del rinvio, dopo aver rideterminato la pena, sarà dunque chiamato a pronunciarsi.

7. Alla condanna per il delitto di esercizio abusivo segue la liquidazione delle stesse, nella misura richiesta dalla parte civile.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in relazione al capo a) perché il fatto non sussiste. Annulla la medesima sentenza in relazione al capo b) limitatamente al trattamento sanzionatorio e alla non menzione della condanna e rinvia, per nuovo giudizio su tali punti, ad altra sezione della Corte di appello di Cagliari. Visto l'art. 624 c.p.p., dichiara la irrevocabilità della sentenza in ordine all'affermazione della penale responsabilità dell'imputata per il capo b). Rigetta il ricorso nel resto. Condanna, inoltre, l'imputata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile T.U. che liquida in complessivi Euro 2.174,65, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 15 marzo 2023.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2023

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