Pubblicato il

Responsabilità 231, condanna dell'ente per deficit di auto-organizzazione

Corte di Cassazione, sez. V Penale, Sentenza n.21640 del 02/03/2023 (dep. 19/05/2023)

In tema di responsabilità delle persone giuridiche, l'addebito di responsabilità all'ente non si fonda su un'estensione, più o meno automatica, della responsabilità individuale al soggetto collettivo. Al contrario, si basa sulla dimostrazione di una carenza nell'auto-organizzazione da parte dell'ente stesso, in relazione al suo obbligo di prevenire il rischio di commissione di un reato presupposto.

È quanto ribadito dalla Cassazione, sezione V penale, con la sentenza n.  21640 depositata il 19 maggio 2023.

L'illecito dell'ente, sebbene strettamente legato alla commissione di un reato da parte di un individuo nell'interesse o a vantaggio dell'ente, mantiene un'autonomia di configurazione giuridica. Tale autonomia si fonda su presupposti di tipicità normativa distinti, basati su un deficit organizzativo "colpevole" che ha permesso la realizzazione del reato.

Il giudice è chiamato a valutare l'idoneità del modello organizzativo adottato, secondo il criterio della "prognosi postuma". Questo criterio implica un'analisi dell'organizzazione al momento in cui il reato è stato commesso per determinare se il rispetto del modello organizzativo avrebbe eliminato o ridotto il pericolo di commissione di reati dello stesso tipo.

La Suprema Corte sostiene un nuovo approccio ermeneutico nell'interpretazione dell'illecito dell'ente, la cosiddetta "tesi colposa". Secondo tale tesi, la responsabilità dell'ente è determinata dalla verifica di un legame tra la carenza organizzativa e il reato commesso. Il reato presupposto deve quindi essere collegato alla mancanza di auto-organizzazione preventiva, che rappresenta la vera e propria condotta biasimevole dell'ente.

La sentenza ribadisce che il giudice di merito deve dimostrare di aver valutato il deficit di auto-organizzazione dell'ente. Questo deficit consiste nella mancanza delle regole sviluppate dall'ente per prevenire il rischio di reato, come delineato dagli articoli 6 e 7 del D.Lgs. n. 231 del 2001.

La dottrina ha accolto favorevolmente questa nuova prospettiva di accertamento, sottolineando l'importanza di un'analisi concreta piuttosto che una valutazione "in generale" dell'adeguatezza del modello organizzativo. La responsabilità dell'ente, dunque, deriva da una valutazione sulle qualità del modello organizzativo di prevenzione adottato. L'ente che si dota di modelli organizzativi idonei ed efficaci potrebbe evitare la responsabilità secondo la L. n. 231 del 2001, anche se un reato presupposto sia stato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio.

Infine, la sentenza sottolinea che i due criteri di attribuzione oggettiva stabiliti dall'art. 5 del D.Lgs. n. 231 del 2001 sono alternativi e concorrenti tra loro, rispecchiando il criterio dell'interesse e quello del vantaggio. Mentre il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile "ex ante", cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, il secondo ha una connotazione essenzialmente oggettiva, valutabile "ex post", sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito.

Pertanto, per evitare l'imputazione di responsabilità, gli enti sono fortemente incentivati a garantire un'organizzazione interna adeguata, evitando così possibili deficit organizzativi che potrebbero favorire la commissione di reati.

Questo rafforzamento dell'auto-organizzazione da parte dell'ente può portare a una maggiore prevenzione del rischio di reati e, di conseguenza, a una riduzione della probabilità di incombere in responsabilità ai sensi della Legge n. 231 del 2001.

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

Cassazione penale sez. V, 02/03/2023, (ud. 02/03/2023, dep. 19/05/2023), n. 21640

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d'Appello di Genova, in riforma della sentenza assolutoria emessa dal Tribunale di Massa il 14.6.2019, ha condannato R.M. alla pena di anni uno di reclusione e 7000 Euro di multa in relazione ai reati di contraffazione di alcuni rotoli di nastri da bomboniere e da confezione, tra quelli contestati e sequestrati, riproducenti marchi figurativi dei brand di lusso "(Omissis)" e "(Omissis)" (attraverso la ditta individuale tessile denominata "Mimma", di cui era titolare), e di commercializzazione sistematica di tali prodotti contraffatti (attraverso la "Mimma e co. s.r.l.", di cui era amministratore unico); sono state riconosciute, nei confronti dell'imputato, le circostanze attenuanti generiche equivalenti rispetto all'aggravante di cui all'art. 474-ter c.p.; la sentenza d'appello ha anche dichiarato, ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, la responsabilità amministrativa della società "Mimma e co. s.r.l.", applicando all'ente la sanzione amministrativa pecuniaria pari a 200 quote del valore di Euro 300 ciascuna, nonché la sanzione interdittiva prevista dagli artt. 5, 25-bis e 9, comma 1, n. 2, dello stesso decreto legislativo per la durata di mesi sei, ordinando la pubblicazione della sentenza per estratto, ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 18.

1.1. L'assoluzione era stata fondata dal giudice di primo grado su alcuni argomenti principali:

a) i disegni impressi sui nastri sequestrati erano diversi rispetto a quelli oggetto di registrazione da parte delle due case di moda (Omissis) e (Omissis) e non era rinvenibile nemmeno la presenza di segni distintivi delle predette griffe che permettessero di confondere i rispettivi prodotti (cfr. pag. 4 e ss della sentenza di primo grado) con ciò escludendosi la contraffazione laddove i marchi venissero considerati di tipo "debole";

b) qualora i marchi fossero ritenuti di tipo "forte" non ricorrevano comunque quei requisiti enunciati dalla giurisprudenza di legittimità per determinare la tutela penale ed identificabili nel riferimento al nucleo ideologico caratterizzante il messaggio proveniente dal marchio; nell'affinità tra prodotti e nel "rischio di associazione" ai prodotti originali, che determinerebbero un vulnus al segno oggetto di tutela, tenuto conto della destinazione merceologica dei prodotti della ditta individuale "Mimma" esclusivamente al settore delle bomboniere, assai diverso da quello oggetto interesse delle case di moda coinvolte;

c) il marchio "(Omissis) check" non sarebbe oggetto di tutela in qualsivoglia colore declinato, ma solo per quella combinazione di colori oggetto di registrazione nella domanda specificamente depositata (ovvero marrone chiaro, beige, rosso, bianco e nero);

d) quanto al nastro ricondotto a (Omissis), l'aspetto del nastro sarebbe talmente comune da non potersi collegare univocamente alla nota griffe fiorentina, stante anche l'assenza di elementi ulteriori che vanno a comporre il marchio nell'insieme, quali, ad esempio, il monogramma o la staffa. E questo dato è confortato dalla documentazione prodotta dalla difesa dell'imputato all'udienza del 14 giugno 2019 volta ad evidenziare come l'impiego dei colori del nastro, tra loro accostati nella medesima sequenza "verde-rosso-verde", sia proprio, ad esempio, di altra identità, quale l'ordine cavalleresco al merito del lavoro ovvero sia addirittura presente in opere d'arte figurativa del XV secolo, che riproducono personaggi abbigliati con tessuti a strisce "verde-rosso-verde" (vedi pagina 5 della sentenza).

Infine, ad avviso del Tribunale, nessun significato penale di ammissione del reato poteva essere ricondotto all'atto di transazione sottoscritto nel 2010 da R. con la "(Omissis)".

1.2. La sentenza d'appello ha ribaltato, sostanzialmente, le affermazioni della pronuncia assolutoria, complessivamente ritenendo provato il reato sulla base principalmente dei seguenti argomenti:

a) il marchio "(Omissis)" sarebbe registrato anche come marchio "figurativo" in bianco e nero, con copertura della tutela per tutte le declinazioni di colori;

b) sono stati sequestrati alla ditta Mimma anche nastri pedissequamente riproduttivi del disegno grafico e della colorazione "(Omissis)" di (Omissis) (nastro (Omissis)) o estremamente somigliante (nastri (Omissis));

c) la tutela penale investe il marchio e non il prodotto, sicché non ha rilievo il settore merceologico delle bomboniere cui si dedicava l'attività d'impresa dell'imputato, tanto più che i nastri potevano avere anche altre destinazioni;

d) il diritto di preuso riconosciuto in qualche modo all'imputato dal primo giudice si riferisce, al più, solo alle colorazioni del check diverse da quella classica, poiché quest'ultima avrebbe avuto già una sua notorietà al momento dell'utilizzo da parte della "Mimma";

e) non sarebbe credibile la tesi difensiva secondo cui il nastro contraffatto riproduttivo del marchio (Omissis) con colorazione verde-rosso-verde era solo un prodotto semilavorato e da completare con caratteri che ne avrebbero impedito l'assimilazione al marchio figurativo più famoso oggetto di tutela.

2. Avverso la citata sentenza ricorrono sia l'imputato che l'ente, tramite distinti ricorsi.

3. Il ricorso di R.M., proposto dal difensore di fiducia, eccepisce sette diversi motivi.

3.1. Il primo argomento di censura evidenzia il vizio di violazione di legge della sentenza impugnata, in relazione alla sussistenza del reato di contraffazione ex art. 473 c.p. in capo all'imputato.

La tesi difensiva e', in sintesi, basata sulla constatazione che i giudici d'appello hanno solo apoditticamente affermato la notorietà e la natura di "marchio di fatto" del figurativo "(Omissis)" di (Omissis) già in epoca precedente al preuso da parte dell'imputato, superando il difetto di qualsiasi registrazione del marchio in esame che fondasse il diritto di privativa formalmente e, quindi, determinando una violazione della disposizione penale incriminatrice che esplicitamente prevede - dopo la novella del 1999 - l'inciso "potendo conoscere dell'esistenza del titolo di proprietà industriale", a significare la necessità, per la proprietà industriale e per la tutela penale, della brevettazione e registrazione del marchio.

La sentenza d'appello, con l'interpretazione "estensiva" della tutela penale ad un "marchio di fatto", avrebbe violato i principi di tassatività della norma penale che, come riconosciuto anche in dottrina, ritiene la registrazione del marchio l'elemento essenziale ed il presupposto dell'integrazione del reato.

3.2. Il secondo motivo di ricorso denuncia mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, ancora una volta stigmatizzando il concetto di marchio "notorio" antecedente alla registrazione formale del figurativo "(Omissis)" di (Omissis), sotto il profilo del difetto argomentativo ex art. 606, comma 1, lett. e, c.p.p.: nel processo ed in sentenza non vi sono tracce di prova di tale notorietà in epoca antecedente all'uso da parte del ricorrente dei nastri incriminati, dedicati, peraltro, ad un settore merceologico ben preciso, quello delle bomboniere, completamente estraneo all'interesse della casa di moda inglese, che ha registrato il marchio "classico" (cammello, nero, bianco e rosso) nel 1986 solo per le classi merceologiche "pelletteria, tessuti e abbigliamento" (classi 18, 24 e 25; mentre i nastri per confezioni appartengono alla classe 16); il disegno "(Omissis)", peraltro, ancora nella giurisprudenza civile della Cassazione del 1999, non era univocamente ritenuto espressivo di marchio piuttosto che di decoro figurativo.

Inoltre, il ricorrente propone la seguente questione in tema di interpretazione dell'art. 473 c.p.: il marchio registrato riconoscerebbe un'esclusiva limitata ai prodotti e servizi rivendicati nella domanda, ovvero circoscritta al settore merceologico di riferimento; di conseguenza la sua tutela penale deve essere limitata alla classe merceologica rispetto alla quale viene registrato il marchio o segno distintivo (tanto è vero che il marchio "(Omissis)" può essere registrato per due aziende completamente differenti: auto e spumanti): ecco perché la stessa (Omissis) ha registrato numerosi marchi per lo stesso segno "classico" in relazione a diversi prodotti. Nel caso di specie, quindi, la registrazione non afferisce al settore "nastri per confezioni".

3.3. La terza censura attiene al travisamento delle prove in relazione alla parte della condotta di contraffazione riferita al nastro per bomboniere ritenuto pedissequa copia del segno (Omissis) (nastro verde-rosso-verde): la sentenza impugnata ha ignorato le emergenze istruttorie dalle quali era evidente che il prodotto sequestrato non era ancora ultimato né destinato alla vendita. La polizia giudiziaria ha attestato di aver trovato i nastri "pseudo-(Omissis)" solo presso la ditta individuale del ricorrente e non presso la società che avrebbe dovuto commercializzarli, a riprova che il nastro fosse una produzione ancora da elaborare, come sostenuto dall'imputato e dal commercialista aziendale; la Corte d'Appello ha equivocato il luogo del ritrovamento del nastro, abbinandolo alla società Mimma e co. s.r.l. e le dichiarazioni del teste b..

3.4. Il quarto motivo di ricorso denuncia violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui all'art. 473 c.p. avente ad oggetto il nastro riproduttivo dei colori di (Omissis), facendo leva sull'argomento della riconducibilità del disegno a bande "verde-rosso-verde" anche alla decorazione per l'onoreficenza dell'ordine dei (Omissis), disciplinata espressamente dalle leggi n. 199 del 1952 e n. 194 del 1986, che prevedono una croce d'oro piena sorretta da un nastro listato da una banda proprio identica a quella utilizzata dalla griffe, specificando che il nastro può essere portato senza la decorazione, a riprova della sua qualità di nastro-emblema di Stato.

La difesa evidenzia che, pur senza voler sindacare la possibile nullità del marchio riproduttivo di un emblema di Stato (ai sensi della Convenzione di Parigi del 20.3.1883 e successive modifiche, che sancisce la nullità di marchi industriali che riproducono stemmi, bandiere e altri emblemi di Stato, nonché del Regolamento UE 2017/1001 del Parlamento Europeo e del Consiglio), non è stato provato che l'imputato non avesse intenzione di destinare la produzione di nastri all'impiego nell'investitura dei (Omissis), perfettamente sovrapponibile tanto più per il settore merceologico di utilizzo del nastro, vale a dire bomboniere per cerimonie.

3.5. La quinta ragione di ricorso eccepisce vizio di motivazione del provvedimento di riforma, che non ha corrisposto ai canoni argomentativi giurisprudenziali della cd. "motivazione rafforzata", in particolare omettendo di confrontarsi con le considerazioni del primo giudice circa l'assenza di un effettivo rischio di confondibilità tra i prodotti, sia per il settore merceologico di riferimento, sia per le caratteristiche intrinseche del nastro e le divergenze rispetto al marchio (Omissis) (una "tramatura" giudicata molto "comune"). 3.6. Si denuncia anche, in punto di dosimetria sanzionatoria, la mancata attestazione della pena nel minimo edittale, nonostante la valutazione di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche sull'aggravante ex art. 474-ter c.p., ritenuta sussistente pur se i marchi contraffatti costituivano solo una minima parte della produzione della ditta individuale ed ancorché la disciplina aggravatrice sia stata voluta per reprimere fenomeni di attività di contraffazione organizzata, certamente estranei al ricorrente.

3.6. Un ultimo motivo di ricorso impugna l'ordinanza del 17.11.2020 della Corte d'Appello ed eccepisce vizio di mancanza e contraddittorietà della motivazione: i giudici hanno rinnovato solo parzialmente la prova dichiarativa, riascoltando un solo teste tra i tredici dipendenti e tecnici tessili presenti nella lista difensiva, nonché uno solo dei tre agenti di rappresentanza indicati in lista, senza neppure farsi carico di spiegare le ragioni dell'operata selezione, con ciò ledendo il diritto di difesa del ricorrente.

4. Il ricorso proposto per conto dell'ente - la "Mimma e co. s.r.l.", in persona del suo procuratore speciale L., evidenzia diversi profili di censura, raccolti in due macroaree: la prima, dedicata a contestare l'an della responsabilità dell'ente; la seconda, incentrata sui vizi determinativi delle sanzioni inflitte all'ente.

4.1. Quanto alle censure che afferiscono alla stessa affermazione di responsabilità della persona giuridica, un primo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla sussistenza del reato presupposto della responsabilità amministrativa dell'ente, richiamandosi la difesa alla motivazione della pronuncia di primo grado, che non sarebbe stata superata adeguatamente da quella d'appello.

La Corte territoriale ha riconosciuto la notorietà del marchio di fatto "(Omissis)", ritenendo che i prodotti in relazione ai quali è intervenuta condanna lo riproducessero pedissequamente, senza tener in conto del diritto di preuso, sin dagli anni ottanta (ex art. 2571 c.c.) riconoscibile al ricorrente, e della mancanza dei presupposti su cui ritenere operante, in assenza di registrazione formale del marchio in epoca precedente al diritto di preuso, un diritto di privativa della società londinese derivante dalla asserita rinomanza del suo logo.

Inoltre, si sottolinea come il primo marchio vantato come "classico" da (Omissis) (con i colori cammello, nero, bianco e rosso), registrato il (Omissis) era riferito alle classi merceologiche "pelletteria", "tessuti", "abbigliamento", con esclusione, quindi, dei "nastri per confezione", non ricompresi sino all'anno 1992.

La circostanza, evocata dai giudici d'appello, che la tutela penale si accorderebbe al "segno" e non al "prodotto" prova troppo, visto che, se fosse possibile ritenere un marchio tutelato a prescindere dal settore merceologico in cui viene registrato, non vi sarebbe allora necessità di registrarlo nuovamente per ogni segmento di prodotti. Mancherebbe, altresì, la prova dell'elemento soggettivo del reato, come dimostrerebbe la liceità, riconosciuta dagli stessi giudici di merito, della condotta del ricorrente di produzione di nastri a disegno "scozzese" con colorazioni diverse da quelle tipiche del marchio (Omissis).

Si invoca, altresì, l'insussistenza del reato di contraffazione di marchi anche per la riproduzione dei nastri con colorazione e disegno "(Omissis)" (bande verde-rosso-verde): la difesa sostiene che si trattasse di prodotti merceologici non ancora ultimati, dei "semilavorati", tanto che non vi è prova della loro commercializzazione (come risulta dallo stesso esame dei testi di polizia giudiziaria e di un operaio della ditta tessile). Inoltre, si rappresenta che il marchio (Omissis), in realtà, sfrutta un disegno cromatico già disciplinato dalla L. n. 1999 del 1952 e dalla L. n. 194 del 1986 per la decorazione della croce di nomina dei (Omissis), sicché il nastro listato da una banda di colore rosso fra due bande verdi è già un "segno" d'interesse pubblico sin da prima della nascita del marchio (Omissis) e non avrebbe potuto essere registrato a scopi commerciali, anzi potrebbe essere oggetto di domanda di nullità ai sensi della Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale del 20.3.1883 e successive modifiche. In ogni caso, tale circostanza, come anche confermato dalla sentenza di primo grado, comporta che non può escludersi che i nastri prodotti dalla ditta "Mimma" potevano essere destinati all'uso per cerimoniale collegato all'investitura dei (Omissis).

I giudici d'appello, con riguardo alle considerazioni da ultimo svolte, non hanno speso alcuna motivazione, né al riguardo potrebbe mai invocarsi una motivazione implicita, poiché gli argomenti utilizzati a sostegno della condanna non assorbono e superano la questione relativa alla riconducibilità del marchio all'ordine di rilievo pubblicistico.

Si denuncia anche violazione dell'obbligo di motivazione rafforzata rispetto alle considerazioni del giudice di primo grado relative al fatto che la trama comune del nastro, unita alla circostanza della netta diversità del settore merceologico di destinazione del prodotto rispetto alla registrazione (Omissis), impedivano qualsiasi confusione del marchio. 4.2. Il secondo argomento difensivo eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al necessario presupposto per giungere all'affermazione della responsabilità amministrativa dell'ente: il reato deve essere stato commesso nell'interesse o a vantaggio della persona giuridica (D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5); al riguardo, la sentenza d'appello non dà alcuna argomentazione se non la tautologica asserzione che la posizione apicale rivestita da R.M. in entrambe le società e il ripetuto acquisto del materiale sono aspetti tali da dimostrare che egli avrebbe agito non nell'interesse esclusivo personale ma anche nell'interesse o a vantaggio della società rappresentata, ignorando gli elementi di prova contraria presenti nel processo.

In altre parole, non vi è prova di una politica d'impresa volta all'illecito, tanto più che l'attività di vendita relativa ai prodotti in contestazione era marginale per la Mimma e co. s.r.l. e la dimensione irrisoria degli introiti dovuti a tali operazioni commerciali, l'irrilevanza sul suo fatturato (inferiore all'10/0, dimostrata dalla difesa con le produzioni documentali all'udienza del 17.5.2021), lo confermano.

4.3. La terza censura si incentra sull'affermazione di responsabilità dell'ente Mimma e co. s.r.l. relativamente alla produzione del nastro ritenuto contraffacente il marchio (Omissis).

La difesa sottolinea che il sequestro del nastro è avvenuto solo presso la ditta individuale, poiché nella società condannata non è stato rinvenuto che il solo nastro (Omissis): pertanto, non vi sarebbe prova dell'illecita commercializzazione del prodotto contraffatto da parte dell'ente, che sarebbe stato coinvolto, per tale aspetto del reato, solo per la coincidenza soggettiva tra il titolare della ditta individuale produttrice e l'amministratore legale della persona giuridica. E la stessa imputazione non reca traccia della commercializzazione da parte di Mimma e co. s.r.l. dei prodotti a marchio contraffatto (Omissis), ma si limita a contestare alla persona fisica R.M., quale titolare della ditta individuale "Mimma", la produzione illecita, senza che sia coinvolta la società poi condannata anche per questa porzione di condotta (riguardo alla contestazione delle violazioni rilevanti ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, il GUP aveva già prosciolto in udienza preliminare la ditta individuale dell'imputato, inizialmente imputata, per l'inapplicabilità della legislazione a tale tipologia di ente: l'imputazione non è stata mai modificata, peraltro, sicché la condanna è stata emessa anche in violazione delle norme del codice di rito a tutela della coerenza tra accusa e sentenza).

In altre parole, la tesi difensiva è che la persona fisica autrice del reato non ha neppure formalmente impegnato l'ente nel compimento di un'attività destinata a riversarsi nella sua sfera giuridica, sicché la condanna per tale parte di condotta relativa alla commercializzazione del prodotto con marchio contraffatto (Omissis) sarebbe stata emessa in violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 66.

4.4. Un ulteriore motivo di ricorso denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'ordinanza emessa il 17.11.2020 dalla Corte d'Appello, con cui si è disposta la rinnovazione delle prove dibattimentali, senza spiegare sulla base di quale valutazione esse siano state selezionate. In particolare, si lamenta la revoca di alcune prove già ammesse in primo grado e la conseguente limitazione del diritto dell'ente alla difesa (testimonianze di operai, agenti di rappresentanza).

4.5. Passando ad esaminare il blocco di eccezioni relative alla determinazione delle sanzioni, una prima ragione difensiva denuncia la dosimetria della sanzione pecuniaria inflitta alla Mimma e co. s.r.l., con riguardo alla misura delle quote societarie.

Nonostante l'affermazione dei giudici d'appello di non particolare gravità del fatto ascritto all'ente, la determinazione del numero di quote in cui si concretizza la sanzione pecuniaria non è stata contenuta nel minimo (che è 100, con massimo edittale di 500 quote ex D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-bis), bensì in una misura che è pari quasi alla metà della forbice edittale, con violazione dei parametri commisurativi dettati dagli artt. 10 e 11 del medesimo decreto legislativo (che prescrive di confrontarsi con le condizioni economiche e patrimoniali dell'ente, valutazione del tutto omessa dalla Corte d'Appello, che non ha tenuto conto delle piccole dimensioni imprenditoriali della Mimma e co. s.r.l.) e delle stesse premesse argomentative anteposte alla sanzione.

Si contesta, altresì, la mancata applicazione dell'attenuante ex D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 12, comma 1, priva di motivazione, nonostante sussistessero i due requisiti previsti: a) l'interesse minimo dell'ente al fatto di reato e l'interesse prevalente della persona fisica; b) il danno patrimoniale cagionato di particolare tenuità.

La concedibilità dell'attenuante avrebbe potuto determinare anche la condizione ex D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 13, comma 3, ostativa all'inflizione delle sanzioni interdittive e quella ostativa alla pubblicazione della sentenza di condanna (art. 18 del citato decreto legislativo), sanzioni che, pertanto, risultano inflitte al di fuori delle disposizioni di legge. 4.6. La seconda, complessa, ragione di censura afferente al trattamento sanzionatorio denuncia violazione di legge in relazione all'applicazione della sanzione interdittiva all'ente, in assenza della prova dei presupposti richiesti dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 13, nonché violazione dell'art. 59 del medesimo decreto, che prescrive che la contestazione deve contenere gli elementi identificativi dell'ente, l'enunciazione in forma chiara e precisa del fatto che può comportare l'applicazione delle sanzioni amministrative (vale a dire, a giudizio della difesa, i caratteri concreti che denotano il deficit organizzativo-preventivo, la natura dell'interesse o vantaggio dell'ente), con l'indicazione del reato da cui l'illecito dipende e dei relativi articoli di legge e delle fonti di prova: il deficit dell'imputazione determinerebbe la sua nullità per violazione dell'art. 178, comma 1, lett. c) e del diritto di difesa (artt. 24,111 Cost; art. 6 CEDU).

Quanto all'assenza dei presupposti ex D.Lgs. n. 231, art. 13, la difesa rileva che non si ricade nel presupposto della lett. a (poiché il fatto non è grave), né in quello della lettera b (poiché gli illeciti non sono reiterati: la società non è mai stata imputata o condannata prima del presente processo).

Infine, un ultimo argomento difensivo evidenzia la violazione dei criteri previsti dal D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 11 e 14, in relazione alla scelta di applicare anche la sanzione interdittiva, senza tener conto che la seconda disposizione citata impone una valutazione di proporzionalità complessiva dell'intervento sanzionatorio nei confronti dell'ente, mentre i giudici d'appello, nel caso di specie, hanno applicato tutte le sanzioni previste dall'art. 9 del decreto 231, automaticamente e senza motivare sulla loro scelta né sul criterio della loro commisurazione.

Si rappresenta, in proposito, che il comma 4 del richiamato art. 14 consente il ricorso all'interdizione dell'attività solo se le altre sanzioni risultino inadeguate, poiché la misura interdittiva costituisce una extrema ratio, data la sua afflittività e l'incidenza sulla vita giuridica ed economica dell'ente; la Corte d'Appello, contraddittoriamente ed immotivatamente, ha applicato la sanzione interdittiva, peraltro senza specificare le ragioni della durata stabilita, pur qualificando l'illecito come non di particolare gravità e non ha indicato le attività o le strutture sulle quali deve avere incidenza la sanzione, come invece prescritto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 69, comma 2: da qui il vizio di omessa motivazione.

4.7. Il terzo motivo di ricorso, attinente alle sanzioni inflitte all'ente, ruota intorno alla condanna alla pubblicazione della sentenza ex D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 18, considerata dai giudici d'appello alla stregua di un effetto automatico dell'affermazione di responsabilità dell'ente, laddove, invece, il legislatore la prevede come facoltativa, con necessità di valutazione da parte del giudice della sua necessità (evidente per l'utilizzo dell'espressione normativa "La pubblicazione della sentenza di condanna può essere disposta quando nei confronti dell'ente viene applicata una sanzione interdittiva"); per di più, la sua applicazione è subordinata alla riscontrata gravità della condotta, senza dubbio esclusa nel caso di specie dalla stessa sentenza impugnata. Vi sarebbe, pertanto, sia un vizio di omessa motivazione che di motivazione manifestamente illogica.

5. Il Sostituto Procuratore Generale Pasquale Serrao d'Aquino ha chiesto l'inammissibilità dei ricorsi.

6. Ha depositato memoria la parte civile "(Omissis) s.p.a.", evidenziando con ampie argomentazioni le ragioni di manifesta infondatezza del ricorso; in particolare, si mette in risalto l'assoluta non confondibilità tra il disegno (Omissis) a nastro verde-rosso-verde e il simbolo dei (Omissis); tale carattere di distinguibilità da parte del pubblico rende l'utilizzo del marchio legittimo, tanto che è stato registrato sia in Italia sia in Europa. Inoltre, si aggiunge che vi sarebbero elementi per ritenere che il settore merceologico di utilizzo nei nastri da parte dell'imputato sia stato anche quello dell'abbigliamento (come emerge dalla transazione della ditta Mimma con la (Omissis) ltd, agli atti del processo) e la totale infondatezza della prospettiva difensiva secondo cui il nastro "(Omissis)" poteva essere destinato a quell'uso limitatissimo del conferimento dell'onoreficenza di (Omissis), ovvero fosse un prodotto semilavorato non commercializzabile (il quantitativo ritrovato sarebbe di ostacolo a tale ultima conclusione).

7. Ha proposto memoria anche la parte civile "(Omissis) ltd", sostenendo la correttezza della decisione di condanna, che contiene una motivazione rafforzata ed esatta dal punto di vista dell'applicazione giurisprudenziale in tema di contraffazione di marchi; si rappresenta, altresì, che la rinnovazione della prova dichiarativa in appello, sfrondando le liste testi, sia stata assunta di comune accordo tra le parti e i giudici.

Nel merito, la parte civile evidenzia, quanto alla tesi difensiva sul preuso del marchio (che la memoria ritiene, peraltro, non adeguatamente provata poiché basata solo su incerte prove testimoniali), come i giudici d'appello hanno correttamente osservato che non vi potesse essere un preuso lecito da parte dell'imputato rispetto alla registrazione del 1986, se già da prima di tale anno il marchio era già in uso a (Omissis) e noto ai consumatori.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso dell'imputato R.M. non è inammissibile, sicché deve rilevarsi l'intervenuta prescrizione del reato, fissata al 19.10.2021 ai sensi degli artt. 157 e 161 c.p., tenuto conto della data dei fatti (contestati al 1.2.2013) e pur computati i periodi di sospensione rilevabili dagli atti.

Rileva il Collegio che in particolare, i due motivi di censura proposti dal ricorrente per vizi di natura processuale (il quinto ed il sesto motivo dell'impugnazione di legittimità), pur infondati, superano la soglia di ammissibilità, di talché il ricorso è idoneo - diversamente dai casi di inammissibilità per manifesta infondatezza delle censure - ad instaurare il rapporto di impugnazione, condizione che consente di rilevare d'ufficio ex art. 609, comma 2, c.p.p. una causa di non punibilità nelle more intervenuta, nel caso di specie costituita, appunto, dalla prescrizione del reato (cfr. Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 e Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818, in motivazione).

Ed infatti, non è fondata l'obiezione (quinto motivo) relativa al mancato rispetto dell'obbligo, gravante sul giudice d'appello, di delineare le linee portanti del proprio, alternativo ragionamento decisionale, compendiato nell'endiadi sintetica utilizzata dal ricorrente della violazione dell'obbligo di "motivazione rafforzata" - obbligo che la giurisprudenza di questa Corte regolatrice da tempo indica come lo standard motivazionale necessario per superare la pronuncia di primo grado (cfr., per tutte, Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, Rv. 231679 e Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430), vieppiù quando il ribaltamento riguardi una sentenza assolutoria.

La sentenza impugnata ha ampiamente argomentato sui punti di contrasto tra il proprio convincimento e quello del giudice di primo grado, supportando la motivazione con riferimenti puntuali alle prove raccolte nel processo, in particolare alla struttura dei prodotti con marchio ritenuto contraffatto di "(Omissis)" e "(Omissis)" ed alle ragioni giuridiche in base alle quali ha ritenuto che fosse integrato il reato previsto dall'art. 474 c.p. (secondo quanto meglio si dirà di seguito per valutare la sentenza impugnata agli effetti civili).

Anche la censura espressa nell'ultimo motivo di ricorso è priva di fondamento, poiché, se è vero che non sono stati ascoltati tutti i testi indicati nelle liste ammesse in primo grado, è altrettanto indubbio che il Tribunale non abbia svolto alcuna istruttoria, avendo pronunciato sentenza di assoluzione sulla base delle sole prove documentali e fotografiche relative ai sequestri dei prodotti con marchi ritenuti contraffatti ed all'esito di un esame della giurisprudenza di legittimità sia civile che penale.

Viene meno, dunque, l'esigenza stessa di ragionare in termini di rinnovazione in contraddittorio orale della prova dichiarativa in caso di overturning di condanna, dettata dal nuovo art. 603, comma 3-bis, c.p.p. e desunta dalla giurisprudenza di legittimità (cfr., per tutte, Sez. U, n. 11586 del 30/9/2021, dep. 2022, D., Rv. 282808, che, in motivazione, ha riepilogato il percorso ermeneutico sul tema, disegnato dalle Sezioni Unite, a partire dalla sentenza Sez. U, n. 27620 del 28/4/2016, Dasgupta, Rv. 267490, in linea con la giurisprudenza della Corte EDU): nel caso di specie, infatti, non vi è stata alcuna assunzione in contraddittorio di testimonianze poi non rinnovate in appello né vi è stata alcuna indicazione motivazionale relativa ad una valutazione di prove testimoniali o della loro attendibilità.

Pertanto, in assenza di elementi che rendano evidenti i presupposti per un proscioglimento nel merito ai sensi dell'art. 129 c.p.p., deve accedersi ad una pronuncia di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata agli effetti penali perché il reato è estinto per prescrizione.

1.1. La declaratoria di prescrizione non esime il Collegio dall'esaminare il ricorso agli effetti civili, ai sensi dell'art. 578 c.p.p., quanto alle sue ulteriori ragioni, essendo stato l'imputato condannato anche alle statuizioni civili in favore delle società "(Omissis) ltd" e "(Omissis) s.p.a." (cfr. Sez. U, n. 35490 del 28/5/2009, Tettamanti, Rv. 244273).

Ed infatti, nel dichiarare estinto per prescrizione il reato per il quale nei gradi di merito è intervenuta condanna, ai sensi dell'art. 578 c.p.p., il giudice d'appello e la Corte di cassazione sono tenuti a decidere sull'impugnazione agli effetti delle disposizioni dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili e, a tal fine, i motivi di ricorso proposti dall'imputato devono essere esaminati compiutamente, non potendosi trovare conferma della condanna, anche solo generica, al risarcimento del danno dalla mancanza di prova dell'innocenza dell'imputato secondo quanto previsto dall'art. 129 c.p.p. (cfr., per il giudizio d'appello, negli stessi termini, Sez. 5, n. 28289 del 6/6/2013, Cologno, Rv. 256283; nonché, tra le tante, in ordine al giudizio di legittimità, in motivazione: Sez. 1, n. 14822 del 20/2/2020, Milanesi, Rv. 278943 e Sez. 5, n. 26217 del 13/7/2020, G., Rv. 279598-02, nonché Sez. 5, n. 28848 del 21/9/2020, D'Alessandro, Rv. 279599. Vedi in precedenza, altresì, Sez. 5, n. 5764 del 7/12/2012, dep. 5/2/2013, Sarti, Rv. 254965 - 01; Sez. 5, n. 14522 del 24/3/2009, Petrilli, Rv. 243343 - 01; Sez. 6, n. 21102 del 9/3/2004, Zaccheo, Rv. 229023 - 01).

Secondo le indicazioni della giurisprudenza costituzionale (cfr. la sentenza n. 182 del 2021 Corte Cost.), il giudice penale, chiamato a verificare la sussistenza dell'illecito civile ai sensi dell'art. 578, comma 1, c.p.p., dovrà basarsi sulla regola di giudizio civilistica per la valutazione della responsabilità, vale a dire il canone valutativo del "più probabile che non", piuttosto che sul criterio penalistico dell'alto grado di probabilità logica (ovvero dell-oltre ogni ragionevole dubbio"), sia pur riconoscendo la non piena sovrapponibilità della fisionomia del giudizio relativo ai soli interessi civili svolto in sede penale rispetto a quello che si tiene dinanzi al giudice civile (cfr. Sez. 5, n. 4902 del 16/1/2023, Rv. 284101).

1.2. Orbene, le censure di merito relative alla sussistenza del reato di contraffazione nei riguardi della "(Omissis) ltd" e della "(Omissis) s.p.a." sono prive di pregio, alla stregua della suddetta verifica, e complessivamente anche formulate secondo direttrici di critica inammissibili dinanzi alla Cassazione, poiché declinate come ricostruzione alternativa degli elementi di prova in atti.

Il Collegio premette che la tutela penale accordata alla protezione marchi, riconosciuta nell'ambito di fattispecie di reati cd. "di pericolo", discende dalla necessità di offrire adeguata garanzia al bene giuridico della fede pubblica, direttamente coinvolto, pur implicando, al fondo, evidenti ragioni di garanzia degli interessi economici sottesi.

Le figure tipiche dei delitti previsti dagli artt. 473 e 474 c.p., pertanto, sono costruite secondo lo schema normativo dei reati di pericolo, sicché ciò che rileva è la mera attività di contraffazione o alterazione dell'altrui marchio in quanto foriera dell'immissione sul mercato di beni suscettibili di ledere la fede pubblica e ingenerare confusione, nuocendo all'affidamento dei consumatori (Sez. 3, n. 14812 del 30/11/2016, dep. 2017, Shi, Rv. 260751; Sez. 5, n. 27743 del 30/4/2019, Campo, Rv. 276772; Sez. 5, n. 28956 del 8/5/2012, Mugnolo, Rv. 253240).

Tanto ciò è vero che, secondo la giurisprudenza assolutamente pacifica di questa Corte regolatrice, integra il delitto di cui all'art. 474 c.p. la detenzione per la vendita di prodotti recanti marchio contraffatto, senza che abbia rilievo neppure la configurabilità della contraffazione grossolana, considerato che l'art. 474 c.p. tutela, in via principale e diretta, non già la libera determinazione dell'acquirente, ma la fede pubblica, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi che individuano le opere dell'ingegno ed i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione anche a tutela del titolare del marchio; si tratta, pertanto, di un reato di pericolo per la cui configurazione non occorre la realizzazione dell'inganno, non ricorrendo, quindi, l'ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno (cfr., per tutte, la più recente sentenza massimata sul punto: Sez. 2, n. 16807 del 11/1/2019, Assane, Rv. 275814).

Quanto alla configurabilità oggettiva del reato, ai fini dell'integrazione dei reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p., un marchio si intende contraffatto quando la confusione con un segno distintivo similare emerga non in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata valutazione di ogni singolo elemento, ma in via globale e sintetica, con riguardo cioè all'insieme degli elementi salienti, grafici, fonetici o visivi, tenendo, altresì, presente che, ove si tratti di un marchio "forte", sono illegittime anche le variazioni, sia pure rilevanti ed originali, che lasciano sussistere l'identità sostanziale del nucleo ideologico in cui si riassume l'attitudine individuante (Sez. 2, n. 40324 del 7/6/2019, D'Ospina, Rv. 277049).

Inoltre, l'oggettiva e inequivocabile possibilità di confusione delle immagini, tale da indurre il pubblico ad identificare erroneamente la merce come proveniente da un determinato produttore forma oggetto di un giudizio di fatto demandato al giudice di merito e insindacabile se rispondente ai criteri della completezza e logicità (Sez. 5, n. 25147 del 31/1/2005, Bellomo, Rv. 231894).

La giurisprudenza della Cassazione civile - necessario specchio ermeneutico di quella penale in materia di tutela dei marchi - anche recentemente ha ricordato come la qualificazione del segno distintivo quale marchio "debole" non incide sull'attitudine dello stesso alla registrazione, ma soltanto sull'intensità della tutela che ne deriva, nel senso che, a differenza del marchio "forte", in relazione al quale vanno considerate illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l'identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l'idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante, per il marchio debole sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte (Sez. 1, n. 8942 del 14/5/2020, Rv. 657905).

E sull'amplissima tutela che la giurisprudenza accorda ai marchi cd. "forti", basti rammentare il costante orientamento che evidenzia la punibilità di riproduzioni di personaggi di fantasia a marchio registrato, ancorché non fedeli, ma espressive di una forte somiglianza, che renda possibile la confusione delle immagini tale da indurre il pubblico ad identificare erroneamente la merce come proveniente da un determinato produttore (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 9362 del 13/2/2015, Iervolino, Rv. 262841; Sez. 2, n. 20040 del 20/4/2011, Ferrantino, Rv. 250157; Sez. 5, n. 25147 del 31/1/2005, Bellomo, Rv. 231894).

Si rammenta, altresì, nella medesima ottica, la punibilità della contraffazione dei cd. modelli ornamentali, indicativi della provenienza del prodotto dall'impresa che l'ha brevettato; in tal caso la contraffazione consiste nel dare al prodotto quella forma e quei colori particolari che possono indurre il pubblico ad identificarlo come proveniente da una certa impresa, anche contro le eventuali indicazioni dei marchi con i quali venga contrassegnato (Sez. 5, n. 8758 del 22/6/1999, ROSSI, Rv. 214652, che ha segnalato, come, quando il modello contraffatto sia legittimamente contrassegnato anche da un marchio di provenienza, per la consumazione del reato è necessario che sia integralmente riprodotta per imitazione una forte capacità identificativa del modello, pur riconoscendosi autonoma rilevanza penale alla contraffazione del modello a norma dell'art. 473, comma 2, c.p.).

La natura di marchio "forte" si accompagna quasi sempre alla "notorietà" del marchio, che, in quanto tale, può prescindere anche dalla necessità della registrazione a fini di tutela.

E difatti, ai fini della configurabilità del reato di commercio di prodotti con segni falsi, è sufficiente e necessaria l'idoneità della falsificazione a ingenerare confusione, con riferimento non solo al momento dell'acquisto, bensì alla loro successiva utilizzazione, a nulla rilevando che il marchio, se notorio, risulti, o non, registrato, data l'illiceità dell'uso senza giusto motivo di un marchio identico o simile ad altro "notorio anteriore" utilizzato per prodotti o servizi sia omogenei o identici, sia diversi, allorché al primo derivi un indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del secondo (Sez. 5, n. 40170 del 1/7/2009, Bogoni, Rv. 244750).

Naturalmente, allorché si tratti di marchio di larghissimo uso e di incontestata utilizzazione, pur non essendo richiesta la prova della registrazione, è comunque indispensabile la previa acquisizione di elementi attestanti la rinomanza del marchio e la notoria sua riferibilità alla casa produttrice ed alla tipologia di prodotti che contraddistingue, tale da giustificarne la tutela, con conseguente onere, per l'incolpato, di fornire la prova contraria (Sez. 2, n. 46882 del 3/12/2021, Huang, Rv. 282404).

Infine, aspetto di fondamentale rilievo interpretativo nell'analisi della fattispecie sottoposta al Collegio, la notorietà del marchio, la sua fama risalente ed estesa determinano la dimensione del campo applicativo dei delitti previsti dagli artt. 473 e 474 c.p..

Sin d'ora si intende ribadire, infatti, che integra il delitto di cui all'art. 473 c.p., ovvero quello di cui all'art. 474 c.p., la contraffazione di marchi celebri pur se apposti su prodotti appartenenti a un settore merceologico diverso da quello tradizionale posto che il bene della fede pubblica è leso dalla confondibilità, secondo il giudizio del consumatore medio, del marchio originale con quello contraffatto, quand'anche utilizzato in ambiti non tradizionali per effetto di attività di "merchandising", non costituendo tale circostanza, di per sé sola, motivo di sospetto (Sez. 5, n. 35235 del 18/5/2022, Lelli, Rv. 283796, nella specie, si trattava di marchi di case automobilistiche apposti su capi di vestiario e "gadget").

1.3. Anche alla luce del tessuto ermeneutico delineato al paragrafo precedente, risulta l'infondatezza delle ragioni di ricorso relative alla contraffazione dei nastri riportati al marchio notorio e registrato "(Omissis)", nelle quali si evocava la sovrapponibilità tra il disegno a bande "verde-rosso-verde", caratterizzante il marchio famoso, con il nastro costituente la decorazione per l'onoreficenza dell'ordine dei (Omissis) e, in ogni caso, l'impiego del nastro in prodotti futuri personalizzati.

Infatti, al di là della questione, comunque ampiamente superata dalla sentenza impugnata, che ha sottolineato - con ragioni in fatto non sindacabili da questa Corte di legittimità, poiché del tutto plausibili - come il nastro sequestrato all'imputato sia in tutto identico al marchio notorio ampiamente utilizzato e registrato dalla famosa casa di moda (sulla cui notorietà, così come su quella della azienda "(Omissis)", la sentenza si è spesa, apparendo la motivazione al riguardo priva di qualsiasi aporia, al di là dell'immediata riconoscibilità delle due "griffes" nel sentire comune), rimane, altresì, nel campo della mera, assertiva prospettazione difensiva, priva di elementi di fatto che la sostengano, la circostanza relativa sia all'uso che di tali nastri si faccia nell'ambito della disciplina dell'onoreficenza citata, sia alla loro destinazione a lavori inerenti all'investitura di "(Omissis)" ovvero a lavori non ancora ultimati, nonché alla natura di semilavorato dei nastri in sequestro, che, una volta completati, avrebbero avuto caratteristiche non confondibili con l'originale.

La sentenza impugnata ha enucleato vari indicatori della contraffazione punibile, tra questi: la quantità di prodotto, confezionato già in bobine di grandi dimensioni; l'assenza di campionario o documentazione che prevedesse segni di personalizzazione del nastro, con apposizione di altre figure; la riproduzione così pedissequa del marchio/disegno, da non aver rilievo la tesi difensiva del diverso settore merceologico di utilizzo, essendo compromessa comunque l'identificabilità del prodotto, come proveniente dalla (Omissis).

1.3. Eguale sorte di manifesta infondatezza tocca ai motivi di ricorso dedicati a contestare la responsabilità del ricorrente per il reato di contraffazione ex art. 474 c.p. in relazione ai nastri abbinati alla contraffazione del marchio (Omissis).

La Corte d'Appello ha spiegato, anche con esempi (sia per (Omissis) che per (Omissis)) le ragioni di fatto e quasi "storiche" sulla base delle quali ha ritenuto il marchio in esame "forte" e notorio, assegnandogli la tutela estesa già richiamata, esponendo con argomenti insindacabili, poiché non manifestamente illogici, il proprio convincimento su tale aspetto - del resto di immediata percezione anche secondo il senso medio di comune percezione - e sulla pedissequa riproduzione ovvero sulla forte similitudine dei prodotti sequestrati, messi a confronto con il disegno "a scacchi" (declinato nel colore classico o in diversi colori) del "brand" famoso.

Rimane, pertanto, del tutto infondata la tesi difensiva, che denunciava l'apodittica affermazione della notorietà e della natura di "marchio di fatto" del figurativo "(Omissis)" di (Omissis) già in epoca precedente al preuso da parte dell'imputato, nonché della necessità di registrazione del marchio in esame che fondasse il diritto di privativa formalmente, per il settore merceologico di interesse (non rileva, peraltro, il richiamo difensivo ad un'unica, isolata e risalente pronuncia della giurisprudenza civile, in cui sembra trovare spazio una tutela meno ampia del disegno "(Omissis)" - Sez. 1 civile, n. 5243 del 29/5/1999, Rv. 526838 - poiché la Cassazione, in quella sede, ha preso atto dei limiti del sindacato di legittimità proprio in relazione alla valutazione del giudice di merito relativa alla prevalente funzione estetica del disegno "check" in esame).

Come si è già evidenziato, infatti, integra il delitto di cui all'art. 474 c.p. la contraffazione di marchi celebri pur se apposti su prodotti appartenenti a un settore merceologico diverso da quello tradizionale posto che il bene della fede pubblica è leso dalla confondibilità, secondo il giudizio del consumatore medio, del marchio originale con quello contraffatto, quand'anche utilizzato in ambiti non tradizionali e non ricompresi nella produzione di quest'ultimo, come nel caso di specie, in cui il marchio "forte" costituito dal disegno "(Omissis)" è stato pedissequamente riprodotto in nastri di tessuto, destinati al settore delle bomboniere da cerimonia.

La tutela penale di marchi celebri, quindi, deve essere estesa anche a settori merceologici completamente estranei all'interesse del brand oggetto della riproduzione pedissequa, allorché si rischi, secondo il giudizio del consumatore medio, la confondibilità dell'attribuzione del prodotto riproduttivo del marchio, del disegno o del modello ornamentale originali e "forti" perché "ampiamente notori".

In altre parole, ciò che conta è la capacità del disegno, della forma o del modello ornamentale di rappresentare un "segno distintivo", la cui contraffazione pone in pericolo il bene della fede pubblica.

Significative, al riguardo, sono le affermazioni della giurisprudenza civile di legittimità, che ha recentemente evidenziato come possa essere registrato e tutelato come marchio di forma quel prodotto la cui pubblicizzazione e commercializzazione ne abbiano favorito la diffusione tra il pubblico al punto da comportare la generalizzata riconducibilità di quella determinata forma dell'oggetto ad una specifica impresa, consentendo l'acquisto, tramite il c.d. "(Omissis)", di capacità distintiva del marchio che ne era originariamente privo (Sez. 1 civile, ord. n. 30455 del 17/10/2022, Rv. 666037).

La stessa giurisprudenza Europea ha osservato che "non si può.. escludere che l'aspetto estetico di un marchio (...) che assume (una determinata) forma (...) possa essere tenuto in considerazione, tra gli altri elementi, per accertare uno scostamento dalla norma e dagli usi del settore, purché tale aspetto estetico sia inteso come richiamante l'effetto visivo oggettivo e inusuale del design specifico del marchio suddetto (sentenza del 12 dicembre 2019, Euipo/Wajos, C-783/18, p. 32; Tribunale UE, 14 luglio 2021, T488/20, p. 43 e 44); di conseguenza, "la presa in considerazione dell'aspetto estetico del marchio (...) mira a verificare (...) se tale aspetto è idoneo a suscitare un effetto visivo oggettivo e inusuale presso il pubblico di riferimento" (i richiami alla giurisprudenza Europea ed una più ampia analisi del tema sono contenuti nella citata ordinanza Sez. 1 civ., n. 30455 del 2022).

Del resto, lo stesso percorso storico che ha legato l'azienda del ricorrente con la società "(Omissis)" fa da sfondo utile a quanto sinora affermato: già in passato, infatti, era stato siglato un accordo di "non concorrenza sleale" tra la casa di moda inglese e la "Mimma", con riguardo alla produzione di un prodotto di abbigliamento (gambaletti), decorati con un nastro riportante il marchio contraffatto prodotto dalla società dell'imputato.

Anche in questo caso, infine, così come già evidenziatosi per il brand "(Omissis)", sono insindacabili le ragioni di accertamento che hanno condotto la Corte d'Appello a ritenere del tutto sovrapponibile il disegno dei prodotti sequestrati con quello del marchio originale (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata), concludendo per la contraffazione di questo e, nel caso di alcuni nastri, per l'imitazione pedissequa anche del colore (Omissis) nelle sue ben note sfumature di colore, sicché non assume rilievo la destinazione ad un settore merceologico (quello delle bomboniere per cerimonie e occasioni speciali) che non vede operativo il colosso del lusso inglese.

In ogni caso, il preuso evocato dal ricorrente è rimasto privo di elementi di fatto utili a ritenerlo esistente, e rilevante secondo le indicazioni della giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 5, n. 28956 del 8/5/2012, Mugnolo, Rv. 253239), essendo stato, anzi, espressamente escluso dalla Corte d'Appello, che ha evidenziato la risalenza del marchiom (Omissis) come marchio notorio (in tal senso devono leggersi anche le lunghe memorie di parte civile).

1.4. In relazione alla posizione del ricorrente R.M., quindi, la sentenza deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali per essere il reato estinto per prescrizione; il ricorso, invece, deve essere rigettato agli effetti civili, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese sostenute dalle parti civili, da liquidarsi in complessivi Euro 4.900,00, oltre accessori di legge.

2. Sono, invece, fondate le ragioni di ricorso proposte dall'ente, la società "Mimma s.r.l.", coinvolta nel processo sulla base della prospettazione di un vantaggio derivato all'ente dalla commissione del reato.

2.1. Anzitutto, deve essere chiarito che, in tema di responsabilità degli enti, in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice, ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 8, comma 1, lett. b), deve procedere all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato (Sez. 6, n. 21192 del 25/1/2013, Barla, Rv. 255369; Sez. 4, n. 22468 del 18/4/2018, Eurocos s.n.c., Rv. 273399; vedi anche Sez. 4, n. 38363 del 23/5/2018, Consorzio Melinda S.C.A., Rv. 274320-03).

La responsabilità dell'ente sussiste, infatti, anche quando il reato "presupposto" si estingue per una causa diversa dall'amnistia (così, espressamente, il D.Lgs. n. 8 giugno 2001, n. 231, art. 8, comma 1, lett. b)).

Si tratta di una delle ipotesi, espressamente contemplate dalla legge, in cui l'inscindibilità tra le vicende processuali delle persone fisiche e quelle dell'ente può venire meno, con la conseguenza che l'accertamento della responsabilità amministrativa della società nel cui interesse o per il cui vantaggio il reato è stato commesso può e deve proseguire attraverso un percorso processuale autonomo, nella sede propria del processo penale voluta dal legislatore della "L. 231", pur non potendosi prescindere da una verifica quanto meno incidentale circa la sussistenza del fatto di reato.

In situazioni del genere, dunque, il potere cognitivo del giudice penale resta immutato, dovendo egli comunque procedere all'accertamento della sussistenza del reato cd. presupposto.

In altre parole, per il principio di autonomia della responsabilità dell'ente (art. 8 cit.), la prescrizione del reato presupposto nei confronti della persona fisica autrice, anche se dichiarata nello stesso processo in cui è imputato l'ente, non fa venir meno la sussistenza della sua eventuale responsabilità (ed è irrilevante che vi sia stata anche una pronuncia ex art. 578 c.p.p. nei confronti della persona fisica. Il differente regime di prescrizione previsto normativamente per l'ente-imputato è stato ritenuto compatibile con i principi costituzionali da Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015, dep. 2016, Bonomelli, Rv. 267047).

2.2. Nel percorso motivazionale dell'impugnata pronuncia non risultano, tuttavia, adeguatamente illustrati, se non con una formula del tutto generica, inidonea a dar conto delle ragioni giustificative dell'esito decisorio, i criteri oggettivi attraverso cui la Corte di merito è pervenuta all'affermazione della responsabilità dell'ente.

Al riguardo, la Corte d'Appello si è limitata a riportare, del tutto tautologicamente, l'interesse dell'ente alla posizione apicale di R.M., quale legale rappresentante sia della ditta produttrice dei prodotti con marchio contraffatto - la ditta individuale "Mimma" di R.M. - sia dell'ente stesso - la "Mimma e Co. s.r.l." - che commercializzava i prodotti contraffatti: da questa identità personale e dall'oggetto delle attività di impresa si è desunto del tutto apoditticamente il vantaggio dell'ente, in ragione del quale si attiva la responsabilità ex L. n. 231 del 2001.

Non sono stati presi in considerazione elementi concreti, indicativi dell'interesse e della consapevolezza dell'illecito in capo all'ente.

La motivazione della sentenza impugnata è del tutto inidonea a sostenere l'affermazione di responsabilità ai sensi della L. n. 231 del 2001.

Come ha di recente, condivisibilmente, chiarito la Sesta Sezione Penale, nella sentenza Sez. 6, n. 23401 del 11/11/2021, dep. 2022, Impregilo s.p.a., Rv. 283437, l'addebito di responsabilità all'ente non si fonda su un'estensione, più o meno automatica, della responsabilità individuale al soggetto collettivo, bensì sulla dimostrazione di una difettosa organizzazione da parte dell'ente, a fronte dell'obbligo di auto-normazione volta alla prevenzione del rischio di realizzazione di un reato presupposto, secondo lo schema legale dell'attribuzione di responsabilità mediante analisi del modello organizzativo.

L'illecito dell'ente, infatti, pur se inscindibilmente connesso alla realizzazione di un reato da parte di un autore individuale nell'interesse o a vantaggio dell'ente, risulta comunque caratterizzato da autonomia di configurazione giuridica, poiché fondato su presupposti di tipicità normativa differenti, basati su un deficit organizzativo "colpevole" che ha reso possibile la realizzazione di tale reato.

Si è perciò affermato che, in tema di responsabilità delle persone giuridiche per i reati commessi dai soggetti apicali, ai fini del giudizio di idoneità del modello di organizzazione e gestione adottato, il giudice è chiamato ad adottare il criterio epistemico-valutativo della cd. "prognosi postuma", proprio della imputazione della responsabilità per colpa: deve cioè idealmente collocarsi nel momento in cui l'illecito è stato commesso e verificare se il "comportamento alternativo lecito", ossia l'osservanza del modello organizzativo virtuoso, per come esso è stato attuato in concreto, avrebbe eliminato o ridotto il pericolo di verificazione di illeciti della stessa specie di quello verificatosi, non richiedendosi una valutazione della "compliance" alle regole cautelari di tipo globale.

Il Collegio intende ribadire tale principio di diritto anche nel caso oggi in esame e nella fattispecie sottoposta al suo giudizio, già descritta poco sopra.

Infatti, sia nell'ipotesi valutata dalla sentenza della Sesta Sezione Penale richiamata, che in quella che occupa lo spazio decisorio del Collegio nel presente processo, il giudice di merito, oltre a non aver individuato gli specifici profili di colpa di organizzazione, non ha, ovviamente, neppure accertato se tale elemento - vale a dire la "colpa in organizzazione" - abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto.

In altre parole, si intende aderire a quella che, in dottrina, è stata individuata come una nuova frontiera ermeneutica in relazione all'illecito degli enti, e cioè la tesi che ricostruisce la struttura dell'illecito dell'ente secondo un modello di tipo colposo, forse per la prima volta chiaramente espressa dalla decisione citata n. 23401 del 2022.

In tale prospettiva interpretativa, l'accertamento della responsabilità dell'ente deve passare attraverso la verifica della sussistenza di specifici nessi, di ordine naturalistico e normativo, che intercorrono tra la carenza organizzativa e il fatto-reato, sicché il reato presupposto deve essere messo in collegamento con la carenza di auto-organizzazione preventiva, che costituisce la vera e propria condotta stigmatizzabile dell'ente.

Ed è evidente, quindi, che il giudice di merito dovrà dimostrare, al fine di giustificare l'affermazione di responsabilità dell'ente, di aver valutato il suo deficit di auto-organizzazione, vale a dire la carenza di quel complesso delle regole elaborate dall'ente per la prevenzione del rischio reato, che trovano la loro sede naturale nei "Modelli di organizzazione, gestione e controllo", delineati, su un piano generale di contenuti, dal D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 6 e 7.

La dottrina ha favorevolmente accolto questa nuova e più consapevole prospettiva di accertamento, che, invero, era già presente, in nuce, nella sentenza Sez. U, n. 38343 del 24/4/2014, Espenhahn, Rv. 261115 (per quanto sviluppata su di un illecito presupposto di tipo colposo), sottolineando, con indicazione condivisa dal Collegio, come non sia consentito al giudice di merito neppure un vaglio sull'adeguatezza del modello condotto solo "in generale", ma sia necessaria una verifica in concreto; né è possibile giungere a sanzionare l'ente in ragione di una "cultura d'impresa deviante", ovvero mediante un criterio sillogistico semplificatorio secondo cui la commissione del reato equivale a dimostrare l'inidoneità dell'assetto organizzativo.

Invece, il giudice di merito, deve verificare se il reato della persona fisica sia la concretizzazione del rischio che la regola cautelare organizzativa violata mirava ad evitare o, quantomeno, tendeva a rendere minimo; ovvero deve accertare che, se il modello "idoneo" fosse stato rispettato, l'evento non si sarebbe verificato. Seguendo tale linea interpretativa, ispirata alla valorizzazione dei principi costituzionali riferiti alla materia penale nel sistema della "231", la responsabilità dell'ente deriva dalla valutazione sulla bontà del modello organizzativo di prevenzione degli illeciti di cui si è dotato: l'ente che si dota di modelli organizzativi idonei e tendenzialmente efficaci potrebbe, pertanto, andare esente da responsabilità ex L. n. 231 del 2001, pur se un reato presupposto sia stato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, con prevedibile effetto virtuoso anche rispetto all'incentivazione dell'adozione di modelli di compliance aziendale. Ovviamente, l'ente che non si sia dotato affatto di siffatti modelli organizzativi risponderà verosimilmente del reato presupposto commesso dal suo rappresentante, se compiuto a suo vantaggio o nel suo interesse.

Nel caso di specie, si rende necessario colmare la carenza motivazionale relativa sia alla verifica della sussistenza di un modello di compliance ed alla sua adeguatezza ed idoneità a prevenire il reato presupposto, sia alla sussistenza del vantaggio o interesse dell'ente, solo acriticamente evocato dalla sentenza impugnata, nonostante, come ha sottolineato la società ricorrente, questi vadano accertati in concreto.

Il Collegio rammenta, peraltro, come i due criteri di imputazione oggettiva dettati dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 siano alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell'interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile "ex ante", cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile "ex post", sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito (così, Sez. U, Espenhahn, Rv. 261114).

Nessuna distinzione al riguardo si legge in sentenza: la motivazione del provvedimento impugnato si è limitata ad abbinare l'interesse della società all'interesse proprio della persona fisica, legale rappresentante di entrambe le aziende legate alla produzione e commercializzazione dei prodotti contraffatti, senza prendere neppure in esame il fatturato complessivo dell'ente rispetto agli introiti derivanti dalla commercializzazione dei prodotti in sequestro, che, pur se non configurabile come parametro decisivo ai fini di ritenere o meno sussistente la responsabilità ex L. 231, può comunque costituire uno degli indicatori valutabili al riguardo (in questo, anche, colgono nel segno le sollecitazioni difensive).

2.3. Rimangono assorbite le pur fondate doglianze difensive relative alle sanzioni inflitte all'ente, in relazione alle quali il Collegio rileva che:

- avrebbe dovuto applicarsi il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-bis, che non prevede un minimo sanzionatorio qualora il reato presupposto sia costituito dai delitti di cui agli artt. 473 e 474 c.p., laddove la Corte territoriale ha applicato l'art. 10 del medesimo testo normativo, norma generale che prevede il minimo di cento quote indicato in sentenza; - l'applicazione delle sanzioni interdittive previste dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 9 è subordinata alla sussistenza delle condizioni indicate dall'art. 13 D.Lgs. cit.: necessariamente, quindi, il giudice penale che intenda applicare detta sanzione deve motivare la ricorrenza delle condizioni di legge che ne costituiscono indispensabile presupposto;

- la pubblicazione della sentenza di condanna per estratto costituisce una sanzione ulteriore e facoltativa, dunque da motivare appositamente, e non discende automaticamente dalla condanna.

2.4. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata nei confronti dell'ente, con rinvio al giudice penale - che è il giudice "naturale" nel processo instaurato nel sistema della responsabilità degli enti - competente a norma del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 36, vale a dire ad altra Sezione della Corte d'Appello di Genova.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, nei confronti di R.M., agli effetti penali per essere il reato estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso del medesimo R. agli effetti civili e condanna il ricorrente al pagamento delle spese sostenute dalle parti civili che liquida in complessivi Euro 4.900,00, oltre accessori di legge.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Mimma e Co. s.r.l., con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte d'Appello di Genova.

Così deciso in Roma, il 2 marzo 2023.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2023

©2022 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472