Delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, incostituzionalità

Corte Costituzionale, Sentenza n.94 del 12/05/2023

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L’art. 69, quarto comma, del codice penale, come modificato dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, relativamente ai delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, prevede il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

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Corte Costituzionale, Sentenza n.94 del 12/05/2023

SENTENZA N. 94

ANNO 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso dalla Corte d’assise d’appello di Torino, sezione seconda, nel procedimento penale a carico di A. C. e altro, con ordinanza del 19 dicembre 2022, iscritta al n. 14 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti l’atto di costituzione di A. C., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 18 aprile 2023 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

uditi l’avvocato Flavio Rossi Albertini Tiranni per A. C. e gli avvocati dello Stato Paola Maria Zerman e Ettore Figliolia per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 18 aprile 2023.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 19 dicembre 2022, la Corte d’assise d’appello di Torino, sezione seconda, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come risultante dalla modifica introdotta dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui, relativamente al reato previsto dall’art. 285 cod. pen. (Devastazione, saccheggio e strage), non consente al giudice di ritenere la circostanza attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. (Circostanza diminuente: lieve entità del fatto), prevalente sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

1.1.– Il rimettente riferisce di procedere quale giudice del rinvio, nel procedimento penale nei confronti di A. C. e di altra persona coimputata, a seguito della sentenza del 6 luglio-11 ottobre 2022, n. 38184, con cui la Corte di cassazione, sezione seconda penale, ha annullato la sentenza della Corte d’assise d’appello di Torino, sezione prima, limitatamente alla qualificazione del delitto di cui al capo F) dell’imputazione; delitto da ricondursi alla violazione non già dell’art. 422 cod. pen. (Strage comune), come ritenuto dalla pronuncia impugnata, bensì dell’art. 285 cod. pen. (Strage allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato), nei termini ipotizzati dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino fin dall’iniziale contestazione del reato.

Il Collegio rimettente osserva che, secondo quanto stabilito con accertamento coperto da giudicato, i fatti oggetto di contestazione sono accaduti la notte del 2 giugno 2006, in cui A. C., in concorso con una persona coimputata, al fine di attentare alla sicurezza dello Stato mediante l’uccisione di un numero indeterminato di esponenti delle forze dell’ordine, ha collocato due dispositivi ad alto potenziale esplosivo nei pressi di uno degli ingressi della scuola Allievi Carabinieri di Fossano.

In punto di fatto, il giudice a quo dà atto che gli ordigni contenevano 500 grammi di polvere pirica ciascuno ed erano dotati di un sistema di attivazione temporizzato che ne aveva determinato la deflagrazione ad un intervallo di tempo precedentemente programmato di circa mezz’ora l’uno dall’altro, tale da massimizzare gli effetti letali dell’esplosione.

Tale attentato era stato rivendicato con comunicati a firma RAT/FAI – Rivolta Anonima e Tremenda/Federazione Anarchica Informale e, all’esito dei tre gradi di giudizio, era stato sempre attribuito agli imputati.

Nell’ordinanza si riferisce, anche, che solo per un caso fortunato l’attentato non aveva provocato danni alle persone e aveva cagionato limitati danni alle cose, rimanendo comunque provata la volontà dei responsabili di aver agito perché l’evento si ripercuotesse sull’intera compagine statale, motivo per cui la Corte di cassazione ha rubricato il fatto ai sensi dell’art. 285 cod. pen., modificando la qualificazione che era stata data nei due gradi del giudizio di merito.

Il rimettente dà atto, altresì, che il reato è stato contestato come aggravato dall’essere stato commesso contro persone che rivestivano la carica di pubblico ufficiale e a causa dell’adempimento delle funzioni ad essa connesse.

Operata la riqualificazione, la Corte di cassazione ha, dunque, annullato la sentenza limitatamente al capo F), rinviando a una diversa sezione della Corte d’appello per una nuova valutazione del solo trattamento sanzionatorio da irrogare ai due imputati.

Alla luce di tali precisazioni, il rimettente, investito del giudizio di rinvio, afferma che non sono più in discussione né la qualificazione giuridica dei reati contestati, né il giudizio di responsabilità degli imputati, anche in ordine alle ulteriori fattispecie di reato loro ascritte, né la possibilità di ritenere tutti tali reati avvinti dalla continuazione, né infine è in discussione la sussistenza dei presupposti per ritenere l’imputato recidivo reiterato, ai sensi dell’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Invece – afferma il rimettente – dal momento che nei due precedenti gradi di giudizio era stata ritenuta la sussistenza del delitto di cui all’art. 422 cod. pen., costituisce inedito assoluto l’applicazione della circostanza attenuante prevista dall’art. 311 cod. pen., richiesta dalla difesa degli imputati. Su tale punto, non si è formato alcun giudicato, atteso che la questione di diritto decisa dalla Corte di cassazione non ha riguardato questo profilo.

Il rimettente osserva, infatti, che la circostanza in parola è destinata a operare in relazione a tutti i delitti previsti dal Titolo I del Libro II del codice penale e, dunque, anche in relazione al delitto di cui all’art. 285 cod. pen., ritenuto integrato solo con la sentenza della Corte di cassazione, e non anche con riferimento al delitto di strage previsto dall’art. 422 cod. pen., contemplato dal Titolo VI del medesimo Libro.

Sulla configurabilità dell’attenuante in parola, il giudice rimettente dà conto del fatto che all’esito del giudizio di primo grado, il pubblico ministero aveva chiesto la condanna (a trent’anni di reclusione) per il delitto di cui all’art. 285 cod. pen., ritenendo il fatto connotato da lieve entità ex art. 311 cod. pen.; attenuante questa la cui sussistenza il rimettente ritiene di condividere.

1.2.– In punto di rilevanza delle questioni, il Collegio afferma che riguardo alle modalità con cui si è realizzato il reato e alle conseguenze che da questo sono in concreto derivate, da valutarsi in rapporto all’entità della lesione arrecata ai beni, la condotta posta in essere da A. C. appare soddisfare i criteri indicati dalla disposizione di cui all’art. 311 cod. pen.

Stante la volontà di applicare la diminuente in parola, per il rimettente è decisiva la valutazione della legittimità costituzionale della previsione del divieto di prevalenza della circostanza attenuante del fatto di lieve entità, di cui all’art. 311 cod. pen., là dove la sussistenza dei presupposti della recidiva reiterata è ormai coperta dal giudicato.

Sotto tale profilo, il rimettente evidenzia che il divieto di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella versione vigente a seguito della entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, è applicabile alla fattispecie in quanto il delitto è stato commesso il 2 giugno 2006, dopo quindi l’entrata in vigore della legge che tale divieto ha introdotto.

Sarebbe, dunque, evidente la rilevanza delle questioni in quanto, se fosse dichiarata la illegittimità costituzionale della norma censurata, opererebbe l’ordinaria disciplina del concorso di circostanze attenuanti e aggravanti, prevista dai primi tre commi dell’art. 69 cod. pen. e, in particolare, potrebbe ritenersi per A. C. – al quale, peraltro, sono già state riconosciute le attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen. – la prevalenza delle circostanze attenuanti, segnatamente quella di cui all’art. 311 cod. pen., con conseguenze decisive in punto di trattamento sanzionatorio (non necessariamente la pena dell’ergastolo, ma quella prevista dall’art. 65 cod. pen., ossia la reclusione da venti a ventiquattro anni, come pena base).

Da tale premessa discenderebbe che il reato più grave fra quelli di cui l’odierno imputato è stato ritenuto responsabile (in continuazione con quelli di associazione con finalità di terrorismo, fabbricazione, detenzione e porto d’armi ed esplosivi a fini di terrorismo, attentato per finalità terroristiche e istigazione a delinquere), non sarebbe più punito con l’ergastolo, ma con una pena di durata compresa tra venti e ventiquattro anni di reclusione (art. 65 cod. pen.). Ad avviso del rimettente, nel caso di specie, il giudizio di bilanciamento tra circostanze dovrebbe risolversi riconoscendo la prevalenza della circostanza attenuante in questione (art. 311 cod. pen.) rispetto alla recidiva reiterata, con l’effetto di poter irrogare all’imputato una pena complessiva proporzionata alla effettiva portata lesiva delle condotte di cui si è reso responsabile.

Dalla soluzione delle questioni di legittimità costituzionale dipenderebbe, dunque, la determinazione della pena, alla luce della diversa qualificazione del fatto, come espressamente richiesto dalla Corte di cassazione con la pronuncia di annullamento che ha demandato tale valutazione al giudice di rinvio.

1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente passa in rassegna i principi affermati da questa Corte nelle numerose pronunce che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., che puntualmente riporta (a partire dalla sentenza n. 251 del 2012 fino a quella più recente, sentenza n. 143 del 2021).

Il giudice a quo rileva che tratto comune della quasi totalità di tali pronunce è il ricorrere di circostanze attenuanti che, rendendo manifesto l’intento del legislatore di calibrare il trattamento sanzionatorio rispetto alla concreta portata offensiva di determinate condotte, in ossequio ai principi di uguaglianza, offensività e proporzionalità della risposta sanzionatoria penale in ottica rieducativa, ha portato la Corte a privilegiare questo profilo rispetto a quelli della colpevolezza e della pericolosità propri della recidiva reiterata.

Anche quando la questione di legittimità costituzionale è stata affrontata con riguardo a profili di più marcata valenza soggettiva (con riferimento agli artt. 89 e 116 cod. pen.), questa Corte ha dato particolare rilievo alla funzione di necessario riequilibrio del trattamento sanzionatorio che alle circostanze deve essere riconosciuta.

Inoltre, nell’ordinanza di rimessione si evidenzia come questa Corte, pur ritenendo costituzionalmente legittime le deroghe al regime ordinario del bilanciamento tra circostanze, in quanto rientranti nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, avrebbe precisato che tali scelte non possono, comunque, trasmodare nella manifesta irragionevolezza, né determinare un’alterazione degli equilibri che la Carta costituzionale ha fissato con riferimento alla determinazione della pena giusta.

Date queste premesse di carattere generale, il rimettente afferma che anche nella fattispecie in esame debbono valere gli stessi canoni ermeneutici.

Ad avviso del rimettente, la circostanza di cui all’art. 311 cod. pen. opera quando, per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.

Più specificamente, l’art. 311 cod. pen., in maniera esattamente identica ad altre circostanze attenuanti già considerate da questa Corte nelle sentenze sopra richiamate, sarebbe dunque norma che impone all’interprete una valutazione su aspetti marcatamente connotati in senso oggettivo, che valorizza massimamente lo scrutinio di elementi riguardanti la potenzialità lesiva della condotta dell’agente e che, in ultima analisi, impone un vaglio dell’attitudine di questa a incidere più o meno significativamente sul bene tutelato dalla norma incriminatrice.

Ciò, ad avviso del giudice a quo, sarebbe tanto più vero là dove si consideri la specifica situazione di fatto che viene in rilievo nel caso concreto, vale a dire l’applicazione di questa circostanza attenuante al delitto previsto dall’art. 285 cod. pen.

Quest’ultimo reato è attualmente sanzionato con la più afflittiva delle pene detentive oggi contemplate dall’ordinamento, l’ergastolo, ma, prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo luogotenenziale 10 agosto 1944, n. 224 (Abolizione della pena di morte nel Codice penale), che l’ha abolita, era punito con la pena di morte.

La necessità di calibrare il trattamento sanzionatorio, in concreto applicabile al responsabile di tale delitto all’effettiva portata offensiva della sua condotta, risulta di estrema importanza, venendo in rilievo una pluralità di esigenze tutte ugualmente fondamentali.

Il rimettente pone in evidenza l’estrema severità del trattamento sanzionatorio previsto dalla norma incriminatrice, come già sottolineato, improntato al criterio della massima gravità imposta dalla legge, che, come pena principale – e non come ipotesi aggravata – si riscontra nel codice penale italiano soltanto in sei fattispecie, sanzionate dal codice penale appunto con la pena fissa dell’ergastolo: artt. 242 (Cittadino che porta le armi contro lo Stato italiano), 276 (Attentato contro il Presidente della Repubblica), 284, primo comma (Insurrezione armata contro i poteri dello Stato), 286 (Guerra civile), e 438 (Epidemia).

La circostanza attenuante prevista dall’art. 311 cod. pen., secondo il rimettente, assumerebbe allora la decisiva funzione riequilibratrice di una pena massimamente elevata e risponde all’esigenza di mitigarne gli effetti se, in relazione alla natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, sia necessario adeguare la risposta sanzionatoria alla concreta capacità offensiva della condotta criminosa.

Vi è poi la natura fissa della pena prevista dall’art. 285 cod. pen., che esclude ogni possibilità di adeguamento della pena al caso concreto; la norma incriminatrice, infatti, non prevede un limite minimo e una soglia massima ai quali parametrare la durata della pena alla luce dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., in quanto stabilisce l’applicazione dell’ergastolo in via esclusiva.

A tal riguardo, il rimettente richiama la giurisprudenza di legittimità secondo cui la compatibilità dell’ergastolo ai principi costituzionali sulla proporzionalità della pena può essere affermata, quanto all’art. 285 cod. pen., soprattutto in considerazione del fatto che, proprio attraverso l’applicazione delle circostanze attenuanti, «non si sottrae al giudice la possibilità di far luogo alla pena della reclusione in luogo di quella dell’ergastolo» (Corte di cassazione, sezione prima penale, 15 novembre 1978, n. 1538).

Ciò precisato, nell’ordinanza di rimessione si evidenzia che è stata più volte avvertita da questa Corte la necessità di evitare che profili relativi alla colpevolezza e alla pericolosità dell’agente possano elidere completamente quelli più pregnanti che riguardano l’idoneità del fatto oggettivamente inteso ad incidere in maniera più o meno marcata sui beni tutelati dal precetto penale. Con ciò evidenziandosi il contrasto con i principi costituzionali di cui all’art. 3, primo comma, 25 secondo comma e 27, terzo comma, Cost.

Il giudice a quo sottolinea inoltre che il divieto inderogabile di prevalenza della circostanza attenuante dell’art. 311 cod. pen. in relazione al delitto di cui all’art. 285 cod. pen., si porrebbe in contrasto con l’art. 27 Cost., in quanto si avrebbe l’applicazione della più grave fra le sanzioni detentive a prescindere da ogni considerazione sulla gravità dell’offesa in concreto arrecata.

L’art. 27, terzo comma, Cost. richiede, invece, che il trattamento sanzionatorio penale debba tendere alla rieducazione del condannato, dovendo risultare proporzionato alla condotta in concreto serbata dal reo e ciò è ancora più evidente con riferimento a un reato punito con l’ergastolo. Deve perciò essere riconosciuta al giudice la facoltà di parametrare la pena al fatto concreto, mitigando, tramite l’applicazione delle circostanze attenuanti, l’entità della pena inflitta all’autore del reato nei casi di minore disvalore delle sue condotte, per non frustrare il principio della necessaria proporzione della pena rispetto all’offensività del fatto e per assicurare l’irrogazione di una pena adeguata e proporzionata alla differente gravità del fatto-reato.

Secondo il giudice a quo, la disposizione censurata contrasterebbe anche con il principio di offensività del precetto penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che vuole che il trattamento penale sia differenziato a fronte di fatti diversi, senza che la considerazione della pericolosità dell’agente, la cui massima espressione si trova proprio nel regime della recidiva, possa legittimamente avere rilievo esclusivo.

Infine, sussisterebbe il contrasto anche con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza, stante che per effetto dell’applicazione della disposizione censurata si avrebbe un’unica pena per situazioni differenti sul piano dell’offensività.

Dal divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 311 cod. pen., discenderebbe che fatti di minore entità possano essere sanzionati con la pena dell’ergastolo alla stessa stregua di fatti più gravi, in tal modo equiparando sul piano sanzionatorio condotte riconducibili alla violazione dell’art. 285 cod. pen. che, pur aggredendo i medesimi beni giuridici, sono completamente diverse se si ha riguardo agli indici previsti dall’art. 311 cod. pen.

In conclusione, secondo il rimettente, l’irragionevolezza delle conseguenze di tale disparità di trattamento apparirebbe manifesta anche solo considerando che fatti caratterizzati da una rilevante differenza oggettiva, uno dei quali rispondente ai canoni della lieve entità normativamente definita, sarebbero puniti con la stessa sanzione in ragione di una esclusiva considerazione dei precedenti penali del loro autore e del conseguente giudizio di pericolosità che da questi può trarsi.

2.– Con atto del 3 marzo 2023, è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare le questioni inammissibili e, comunque, non fondate.

2.1.– In primo luogo, l’Avvocatura richiama la giurisprudenza di questa Corte per sostenere che difetterebbe la necessaria rilevanza delle questioni, e ciò in quanto il rimettente non sarebbe chiamato ad assumere alcuna decisione che comporti l’applicazione, sia pure indiretta, della norma impugnata.

In ogni caso, difetterebbe la motivazione sulla rilevanza e, comunque, sarebbe meramente apodittica, tale da non soddisfare, nemmeno in termini di plausibilità, l’onere motivazionale.

Più in particolare, la difesa dello Stato eccepisce quattro profili di inammissibilità, assumendo che: a) l’affermazione relativa all’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. sarebbe apertamente contraddittoria e, per altro verso, tautologica; b) parimenti tautologica sarebbe, dal punto di vista argomentativo, la ritenuta prevalenza di detta circostanza sulla recidiva ex art. 99, quarto comma; c) del tutto omessa, «nel senso letterale di graficamente omessa», sarebbe la motivazione concernente la prevalenza dell’attenuante in questione anche rispetto all’aggravante di cui all’art. 61, numero 10), cod. pen.; d) infine, l’attenuante prevista dall’art. 311 cod. pen. sarebbe strutturalmente inapplicabile al reato di cui all’art. 285 cod. pen.

Quanto al profilo sub a), nell’atto di intervento si evidenzia che il giudice rimettente si sarebbe limitato a considerare che la condotta degli imputati appare soddisfare i criteri indicati dall’art. 311 cod. pen. Si tratterebbe, ad avviso dell’Avvocatura, di una affermazione che poggia su un’evidente tautologia, risolvendosi, in definitiva, nella mera parafrasi degli elementi costitutivi dell’attenuante.

Del resto, come riferisce lo stesso rimettente, soltanto per un caso fortunato l’attentato non aveva provocato danni alle persone e aveva cagionato limitati danni alle cose.

In relazione al profilo di inammissibilità sub b), la difesa statale evidenzia che vi sarebbe una motivazione apparente e tautologica anche in relazione alla prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. rispetto alla recidiva reiterata.

L’ordinanza di rimessione non specificherebbe perché, ove non vi fosse il divieto di prevalenza della circostanza attenuante sulla recidiva di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen., l’attenuante della lieve entità di cui all’art. 311 cod. pen. possa ritenersi prevalente sull’aggravante costituita dalla recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Quanto all’ulteriore profilo di inammissibilità sub c), l’Avvocatura dello Stato sottolinea che difetterebbe, nell’ordinanza di rimessione, l’indicazione in merito alle ragioni della ritenuta prevalenza dell’attenuante (anche) rispetto all’aggravante di cui all’art. 61, numero 10), cod. pen.

Infine, quanto al profilo sub d), si sostiene, in radice, l’inapplicabilità dell’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. al reato di cui all’art. 285 cod. pen.

Secondo l’Avvocatura dello Stato, l’applicazione dell’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. porterebbe alla sostanziale eliminazione del reato di cui all’art. 285 cod. pen. per trasformarlo in altra e diversa fattispecie di reato di evento o di pericolo concreto.

Tale esito potrebbe configurarsi solo là dove oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale fosse stata direttamente la fattispecie di reato in questione, ma non già ove si intenda pervenire al medesimo effetto mediante la via surrettizia della declaratoria di illegittimità costituzionale della diversa norma di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen.

Vi sarebbe, invece, una incompatibilità strutturale dell’attenuante rispetto al reato di cui all’art. 285 cod. pen.

Tale fattispecie di reato prevede una anticipazione della tutela del bene protetto, sicché integra il reato già il solo fatto diretto a compiere la strage. Ipotizzare una strage di “lieve entità” in relazione ad una condotta in sé poco lesiva è una contraddizione logica prima ancora che giuridica: se un atto non è idoneo a compiere una strage, non può ricorrere l’ipotesi della “strage lieve”, ma semplicemente non si configura il delitto di strage.

2.2.– Quanto al merito delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, l’Avvocatura sostiene che le pronunce di questa Corte, indicate dal giudice rimettente per suffragare la necessità di addivenire al superamento del divieto del giudizio di bilanciamento delle circostanze attenuanti, anche per il delitto di strage di cui all’art. 285 cod. pen., in realtà non sarebbero pertinenti perché attengono a diverse fattispecie, non di pericolo presunto, né di previsione della pena fissa dell’ergastolo.

A tal riguardo, l’Avvocatura rileva che le dichiarazioni di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., sono relative a fattispecie di reato punite con una pena edittale non fissa, con possibilità per il giudice di graduare la severità della sanzione in relazione alla gravità del fatto; ipotesi del tutto esclusa, invece, per il delitto di cui all’art. 285 cod. pen., in cui il legislatore, prevedendo la pena edittale fissa dell’ergastolo, ha dato un segnale chiaro e inequivocabile circa la gravità della condotta.

Le citate pronunce non hanno censurato il divieto di bilanciamento previsto dall’art. 69, quarto comma, cod. pen., in sé e per sé considerato, ma hanno sempre valutato la legittimità di tale meccanismo in relazione a singole fattispecie di reato, come avvenuto nelle sentenze n. 117 del 2021 e n. 88 del 2019.

Anche nel caso del reato di cui all’art. 285 cod. pen., sarebbe evidente come la significativa e rilevante gravità della fattispecie di reato contestata (dal punto di vista della carica di offensività che essa manifesta e del valore del bene giuridico tutelato, confermato dalla previsione edittale della pena dell’ergastolo) venga a saldarsi – in maniera meritevole di particolare rilievo – con la specifica e pervicace pericolosità criminale che connota il soggetto agente (evidentemente attestata dal riconoscimento dell’aggravante della recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.), in tal modo rendendo ragionevole la scelta del legislatore di apprestare una tutela rafforzata del bene giuridico protetto dalla norma e di escludere – mediante la limitazione del giudizio di bilanciamento – la piena esplicazione dell’efficacia attenuante della circostanza di cui all’art. 311 cod. pen.

Ad avviso della difesa statale, l’attuale configurazione della norma è coerente con i principi di proporzionalità della pena e di rieducazione del condannato. L’estrema severità della pena comminata, la pena fissa dell’ergastolo, è conseguente alla particolare gravità del fatto, anche quando, come nella specie, per circostanze “fortunate”, non si sono determinate le conseguenze drammatiche in realtà perseguite dal responsabile.

Inoltre, sarebbe ragionevole la deroga al bilanciamento delle circostanze nell’ipotesi di recidiva reiterata, per il reato di cui all’art. 285 cod. pen. che prevede la pena fissa dell’ergastolo, in quanto il trattamento sanzionatorio è improntato alla massima gravità imposta dalla legge, che, come pena principale (e non come ipotesi aggravata) si riscontra nel codice penale italiano solo nelle fattispecie di cui agli artt. 242 e 276 cod. pen.; di cui all’art. 284 cod. pen., primo comma (per chi promuove e/o dirige l’insurrezione armata); nella fattispecie di cui all’art. 286 cod. pen., e infine nella fattispecie di cui all’art. 438 cod. pen.

In definitiva, l’Avvocatura osserva che proprio la previsione della pena fissa dell’ergastolo, senza possibilità di graduazione della pena a seconda della gravità del fatto o dell’evento previsto dalla fattispecie, dimostra la volontà del legislatore di escludere un giudizio di valutazione da parte del giudice circa l’intensità della gravità e quindi della colpevolezza del reo.

3.– Con atto del 23 febbraio 2023, si è costituito in giudizio A. C., chiedendo che le questioni siano dichiarate fondate.

In particolare, la difesa della parte, dopo aver indicato numerose pronunce di questa Corte, rileva che il loro tratto comune è costituito dal rilievo di circostanze attenuanti che esprimono l’esigenza di calibrare il trattamento sanzionatorio rispetto alla concreta portata offensiva di determinate condotte, in ossequio ai principi di uguaglianza, di offensività e di proporzionalità della risposta sanzionatoria penale in ottica rieducativa.

Ciò è stato affermato anche rispetto alle fattispecie di cui agli artt. 89 e 116 cod. pen. che concernono profili di più marcata valenza soggettiva.

Inoltre, secondo la difesa della parte, le ragioni sottese al riconosciuto giudizio di prevalenza dell’attenuante in esame sulla recidiva in relazione alla fattispecie di cui all’art. 630 cod. pen. (sentenza n. 143 del 2021), risulterebbero in modo ancora più imperioso rispetto all’art. 285 cod. pen. che prevede la pena fissa dell’ergastolo.

Nell’atto di costituzione, si osserva inoltre che il divieto di prevalenza della diminuente di cui all’art. 311 cod. pen., rispetto alla recidiva qualificata ai sensi del quarto comma dell’art. 99 cod. pen., in relazione al delitto di cui all’art. 285 cod. pen., non consente al giudice, nella determinazione della pena, il necessario adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale, con ciò frustrando irragionevolmente gli effetti che l’attenuante mira a realizzare e compromettendone la necessaria funzione di riequilibrio sanzionatorio.

Si determinerebbe, pertanto, la violazione dell’art. 27, comma terzo, Cost., nel suo valore fondante, in combinazione con l’art. 3 Cost., del principio di proporzionalità della pena al fatto concretamente commesso. Una pena palesemente sproporzionata e, dunque, inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato, vanifica la sua finalità rieducativa.

Evidente sarebbe, altresì, la violazione del principio di uguaglianza, in quanto l’applicazione di tale norma condurrebbe ad irrogare la medesima pena dell’ergastolo a violazioni di rilievo penale molto diverso.

4.– L’associazione Antigone ha depositato un’opinione, in qualità di amicus curiae, per sostenere le ragioni della fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, sottolineando, in particolare, che nel quadro di eccezionale severità sanzionatoria che, oltretutto, non differenzierebbe il delitto commesso da quello tentato, il riconoscimento della diminuente diventerebbe essenziale in termini analoghi a quanto rilevato nella sentenza n. 143 del 2021.

L’opinione è stata ammessa, ai sensi dell’art. 4, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti la Corte costituzionale, con decreto presidenziale del 15 marzo 2023.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 19 dicembre 2022, la Corte d’assise d’appello di Torino, sezione seconda, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui, relativamente al reato previsto dall’art. 285 cod. pen. (Devastazione, saccheggio e strage), non consente al giudice di ritenere la circostanza attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. (Circostanza diminuente: lieve entità del fatto), prevalente sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Le questioni sono sollevate nel giudizio di rinvio nel procedimento penale nei confronti di A. C. e di altra persona coimputata, conseguente alla sentenza della Corte di cassazione del 6 luglio-11 ottobre 2022, n. 38184, che ha parzialmente annullato la precedente pronuncia della Corte d’assise d’appello di Torino, sezione prima, limitatamente alla qualificazione del delitto di cui al capo F) dell’imputazione; delitto da ricondursi alla violazione non già dell’art. 422 cod. pen. (strage comune), come ritenuto dalla pronuncia impugnata, bensì dell’art. 285 cod. pen. (strage allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato).

Al giudice del rinvio è stata demandata la rideterminazione del trattamento sanzionatorio degli imputati.

1.1.– In particolare, il rimettente afferma che la disposizione censurata contrasterebbe con l’art. 3, primo comma, Cost., in riferimento alla violazione del principio di uguaglianza, in quanto determinerebbe l’applicazione della medesima pena dell’ergastolo a fatti di differente rilievo penale, equiparando sul piano sanzionatorio condotte che, se anche aggrediscono i medesimi beni giuridici, sono assolutamente diverse con riguardo agli indici previsti dall’art. 311 cod. pen. per la particolare tenuità del danno o del pericolo.

Sussisterebbe, altresì, il contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., in ragione della violazione del principio di offensività. La norma censurata, impedendo al giudice di applicare la diminuzione della pena derivante dalla prevalenza della circostanza attenuante prevista dall’art. 311 cod. pen., che ha una decisiva funzione riequilibratrice, non consentirebbe di adeguare la risposta sanzionatoria alla concreta capacità offensiva della condotta criminosa se il fatto è di lieve entità in relazione alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità o alle circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, finendo così con attribuire esclusivo rilievo alla pericolosità dell’agente, insita nell’applicazione della circostanza aggravante della recidiva reiterata.

Tale contrasto sarebbe ancora più evidente in relazione alla fattispecie in esame, in quanto il reato di cui all’art. 285 cod. pen. è sanzionato unicamente con la pena dell’ergastolo, con la conseguenza che dalla natura fissa di tale sanzione deriva l’impossibilità di qualsiasi adeguamento della pena al caso concreto che, per effetto del divieto di prevalenza censurato, viene punito esclusivamente con l’ergastolo.

In terzo luogo, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 27, terzo comma, Cost., perché l’applicazione della pena fissa dell’ergastolo non consente di adottare una pena proporzionata alla condotta in concreto tenuta dal reo, precludendo la possibilità di assicurare un trattamento sanzionatorio che tenda alla rieducazione del condannato.

2.– In via preliminare, occorre esaminare le plurime eccezioni di inammissibilità delle questioni prospettate dall’Avvocatura generale dello Stato che reputa l’ordinanza di rimessione carente di adeguata motivazione sulla rilevanza, in quanto meramente apodittica e comunque insufficiente; eccezioni contrastate dalla parte costituita in giudizio.

In particolare, la difesa dello Stato sostiene, in primo luogo, che l’affermazione relativa all’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. sarebbe apertamente contraddittoria e, per altro verso, tautologica; che meramente assertiva sarebbe, dal punto di vista argomentativo, la ritenuta prevalenza di detta circostanza sulla recidiva ex art. 99, quarto comma, cod. pen.; che del tutto omessa sarebbe, poi, la motivazione concernente la prevalenza dell’attenuante in questione anche rispetto all’aggravante di cui all’art. 61, primo comma, numero 10), cod. pen., pure contestata all’imputato per avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio.

In secondo luogo, si eccepisce la strutturale inapplicabilità dell’attenuante prevista dall’art. 311 cod. pen. al delitto di strage di cui all’art. 285 cod. pen., in ragione dell’intrinseca gravità del reato.

2.1.– Quest’ultima eccezione – che ha carattere pregiudiziale e che quindi va esaminata per prima – non può essere accolta.

A fronte del dato testuale univoco – secondo cui la diminuente configurata all’art. 311 cod. pen. si applica a tutti i reati previsti dal Titolo I del Libro II del codice penale (articoli da 241 a 300), ossia a tutti i delitti contro la personalità dello Stato – non sussistono indici, normativi e giurisprudenziali, a sostegno della prospettata non applicabilità della diminuente al reato di cui all’art. 285 cod. pen.

Il tenore letterale della disposizione – la cui portata rileva, peraltro, al fine dell’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, solo in termini di non implausibilità dell’interpretazione accolta dal giudice rimettente – appare difficilmente superabile, tanto più che l’Avvocatura rinviene, all’interno della stessa, una distinzione che è priva di riscontro testuale. L’inapplicabilità della diminuente di cui all’art. 311 cod. pen. al delitto previsto dall’art. 285 cod. pen. sarebbe – nella prospettazione dell’Avvocatura – solo parziale, perché concernerebbe unicamente l’ipotesi della strage e non anche quella della devastazione e del saccheggio in ragione della maggiore gravità della prima fattispecie.

Il delitto di strage allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato (art. 285 cod. pen.) è sicuramente un reato di estrema gravità, anche quando, in ipotesi, non sia stata cagionata la morte di alcuno. Pur se non ci sono né vittime né danni materiali, si perfeziona comunque il delitto di «strage» – in termini giuridici, anche se ciò non corrisponde al linguaggio corrente, che riserva il termine all’ipotesi di morte di più persone – essendo sufficiente l’idoneità della condotta a porre in pericolo l’incolumità delle persone; ossia della condotta riconducibile a «un fatto diretto a portare […] la strage nel territorio dello Stato».

Ma estremamente grave è anche il delitto di strage di cui all’art. 422 cod. pen., che si differenzia dalla strage ex art. 285 cod. pen. solo perché manca – o non è provato – lo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato.

Entrambi i reati sono puniti con l’ergastolo.

Non di meno il codice penale considera distintamente l’ipotesi della strage ex art. 422 cod. pen. anche quando non è cagionata la morte di alcuno, punendola diversamente dalla strage con l’uccisione di almeno una persona: pena perpetua dell’ergastolo, in quest’ultimo caso; reclusione non inferiore a quindici anni, nell’altro.

L’estrema gravità della strage non ha impedito, nell’art. 422 cod. pen., una pena diversa per l’ipotesi in cui non vi sia uccisione di persona alcuna.

Non può, quindi, dirsi – senza alcun conforto nel dato testuale della norma e, anzi, in frontale contrasto con la lettera dell’art. 311 cod. pen. – che l’estrema gravità del delitto di strage ex art. 285 cod. pen. privi ex se di alcuna rilevanza la eventualità della mancanza di vittime.

La sua natura di reato di pericolo a consumazione anticipata non esclude, infatti, che il concreto disvalore dei fatti riconducibili alla figura astratta di reato resti graduabile a seconda che la condotta del reo abbia, o meno, prodotto conseguenze lesive, e segnatamente abbia cagionato la morte di una o più persone, ovvero si sia arrestata alla soglia della messa in pericolo della loro vita.

Proprio per consentire alla pena di riflettere il concreto disvalore del fatto, il legislatore del 1930 ha previsto, anche nell’ambito di reati, pur gravissimi, quali i delitti contro la personalità dello Stato, la diminuente di cui all’art. 311 cod. pen., applicabile trasversalmente a tutti tali reati, e dunque anche alla strage di cui all’art. 285 cod. pen.

L’applicazione di tale circostanza al delitto in esame consente al giudice di non irrogare la pena dell’ergastolo nei casi che si collocano nella soglia inferiore della scala di gravità dei fatti riconducibili alla figura astratta del reato, in particolare per non avere cagionato la morte di alcuno. Tali fatti continuano, peraltro, ad essere puniti assai severamente, dal momento che, nel caso in cui venga riconosciuta la diminuente, ad essi risulterà applicabile, ai sensi dell’art. 65 cod. pen., la pena della reclusione da venti a ventiquattro anni, che è sensibilmente maggiore di quella (non inferiore a quindici anni di reclusione) prevista per la strage ex art. 422 cod. pen. che non abbia cagionato la morte di alcuno.

Pertanto, l’interpretazione del giudice rimettente deve ritenersi senz’altro non implausibile.

Del resto, quanto alla portata oggettiva della diminuente, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che «il parametro di valutazione ai fini dell’applicazione della circostanza attenuante ex art. 311 cod. pen. è costituito dalla effettiva gravità del fatto-reato con riguardo alle caratteristiche oggettive dell’azione» (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 22 febbraio-20 aprile 2017, n. 18981; vedi anche Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 20 ottobre-23 dicembre 1986, n. 14724).

2.2.– In relazione, poi, al primo gruppo di eccezioni deve considerarsi che il rimettente, nel descrivere il fatto, come accertato nei gradi di merito e ormai coperto dal giudicato, pone in rilievo il dato fattuale dell’assenza di danni alle persone e della sussistenza di limitati danni alle cose come conseguenza della condotta addebitata all’imputato; dato che, a suo avviso e nell’esercizio delle valutazioni che gli competono quale giudice del rinvio, renderebbe applicabile, anche in via prevalente, la diminuente di cui all’art. 311 cod. pen. sulla recidiva reiterata, con ciò adempiendo all’onere di motivazione della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale.

Il giudice rimettente non era tenuto ad una decisione anticipata sull’applicazione della diminuente e sulla sua prevalenza rispetto alla recidiva reiterata, ma doveva solo argomentare in termini di non implausibilità la ricorrenza dei presupposti della attenuante con conseguente necessità di comparazione, ai sensi dell’art. 69 cod. pen., con l’aggravante della recidiva reiterata e, quindi, di applicazione della disposizione censurata. Ciò ha fatto, con motivazione sufficiente, affermando che «avuto riguardo alle modalità con cui si è realizzato il reato ed alle conseguenze che da questo sono in concreto derivate, da valutarsi in rapporto all’entità della lesione arrecata ai beni-interessi tutelati dalla norma incriminatrice violata, la condotta [...] appare soddisfare i criteri indicati dall’art. 311 c.p.».

Secondo l’orientamento costante di questa Corte, infatti, la questione di legittimità costituzionale è ammissibile quando l’ordinanza di rimessione sia argomentata in modo da consentire il controllo “esterno” sulla rilevanza della questione attraverso una motivazione non implausibile del percorso logico compiuto e delle ragioni per le quali il rimettente afferma di dover applicare la disposizione censurata nel giudizio principale (ex plurimis, sentenze n. 237 e n. 149 del 2022, n. 259 del 2021).

A questa Corte non compete di spingersi, nell’odierna fattispecie, fino ad un esame autonomo degli elementi che integrano la diminuente suddetta. Una volta profilatasi la possibilità della sua applicazione – non implausibilmente ritenuta dal giudice rimettente in ragione della mancanza di vittime e della limitatezza dei danni materiali – viene in rilievo la disposizione censurata, che esclude la possibilità di una valutazione di prevalenza di tale attenuante sulla recidiva reiterata, con evidenti conseguenze sulla determinazione della pena, demandata al giudice del rinvio dalla pronuncia di annullamento parziale della Corte di cassazione. Valutazione questa che, se permane il divieto, è attualmente impedita ex lege dalla censurata disposizione derogatoria e che invece sarebbe consentita, secondo l’ordinaria regola del bilanciamento delle circostanze, se il divieto fosse rimosso con la pronuncia di illegittimità costituzionale richiesta dal giudice rimettente.

In ogni caso, vi è una chiara ed evidente incidenza sulla motivazione della decisione che il giudice del rinvio è chiamato ad adottare nel decidere in ordine al concorso di circostanze.

Ha, infatti, affermato questa Corte che «la rilevanza non coincide con l’utilità concreta – per una parte del giudizio a quo – della pronuncia di accoglimento, essendo invece sufficiente che essa eserciti un’influenza sul percorso argomentativo del giudice rimettente (ex multis, sentenze n. 202 e n. 157 del 2021)» (sentenza n. 19 del 2022).

Ciò vale anche in relazione all’eccepito difetto motivazionale in ordine al giudizio di prevalenza sulla circostanza aggravante di cui all’art. 61, primo comma, numero 10), cod. pen., contestata all’imputato. La ritenuta (dal rimettente) prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. sulla recidiva reiterata comporterebbe l’applicazione della regola giurisprudenziale del carattere unitario e inscindibile del giudizio di comparazione, nel senso che esso comprende tutte le circostanze del reato, aggravanti e attenuanti ravvisate (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 9-20 ottobre 2003, n. 39456). Sicché comunque il giudice rimettente dovrebbe fare applicazione della disposizione censurata.

2.3.– Pertanto, nessuna delle suddette eccezioni di inammissibilità, sollevate sotto il profilo della rilevanza delle questioni, può essere accolta.

Sussistendo poi nell’ordinanza una diffusa e ampiamente sufficiente motivazione in ordine al presupposto della non manifesta infondatezza delle questioni, queste risultano senz’altro ammissibili.

3.– Passando al merito, va innanzi tutto considerato – quanto al quadro normativo, nel quale si collocano le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’assise d’appello di Torino – che il delitto di «[d]evastazione saccheggio e strage» di cui all’art. 285 cod. pen. e la circostanza diminuente della «lieve entità del fatto» di cui all’art. 311 cod. pen. si rinvengono nel codice penale del 1930 con una formulazione rimasta sempre invariata, anche dopo le modifiche introdotte dalla legge 11 novembre 1947, n. 1317 (Modificazioni al Codice penale per la parte riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato), al Libro II del Titolo I, Capi II, IV e V del codice stesso.

Più specificamente, la fattispecie di cui all’art. 285 cod. pen. punisce la condotta di «[c]hiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso» e stabilisce come pena edittale quella perpetua dell’ergastolo, come tale fissa nel senso di non graduabile quanto alla sua natura e durata. Pena, quest’ultima, introdotta in sostituzione di quella della morte, abolita per tutti i delitti previsti dal codice penale dall’art. 1 del d.lgs.lgt. n. 224 del 1944.

Accanto alla fattispecie in esame, nell’ambito del medesimo Titolo I, sono punite con la pena edittale fissa dell’ergastolo ulteriori fattispecie di reato ed in particolare le condotte di cui agli artt. 242 (Cittadino che porta le armi contro lo Stato italiano), 276 (Attentato contro il Presidente della Repubblica), 284 (Insurrezione armata contro i poteri dello Stato) e 286 (Guerra civile). Inoltre, la pena edittale fissa dell’ergastolo è prevista anche in relazione al delitto di «Epidemia» di cui all’art. 438.

Con specifico ed esclusivo riferimento ai delitti contro la personalità dello Stato, il codice penale prevede – come già ricordato – la diminuente della lieve entità del fatto che, ai sensi dell’art. 311, ricorre quando «per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità»; in tal caso le pene comminate per i delitti indicati sono diminuite.

La diminuzione di pena, non essendo specificamente stabilita dalla disposizione che la prevede, risponde al criterio dettato dall’art. 65 cod. pen., con la conseguenza che alla «pena dell’ergastolo è sostituita la reclusione da venti a ventiquattro anni».

4.– La disposizione censurata è contenuta nell’art. 69 cod. pen. che detta il regime del concorso delle circostanze aggravanti e attenuanti, considerando distinte ipotesi: a) quando concorrono insieme circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, e le prime sono dal giudice ritenute prevalenti, non si tiene conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti, e si fa luogo soltanto agli aumenti di pena stabiliti per le circostanze aggravanti (primo comma); b) se le circostanze attenuanti sono ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti, non si tiene conto degli aumenti di pena stabiliti per queste ultime, e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti (secondo comma); c) se fra le circostanze aggravanti e quelle attenuanti il giudice ritiene che vi sia equivalenza, si applica la pena che sarebbe inflitta se non concorresse alcuna di dette circostanze (terzo comma).

È questo il tipico bilanciamento delle circostanze rimesso alla valutazione del giudice chiamato a dimensionare la pena calibrandola secondo le peculiarità del caso concreto; bilanciamento nel quale un ruolo speciale giocano le circostanze attenuanti generiche per la loro atipicità. Infatti esse – introdotte nell’immediato dopo guerra dall’art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288 (Provvedimenti relativi alla riforma della legislazione penale), per mitigare trasversalmente il rigore del codice penale del 1930 – rilevano sul solo presupposto, ampiamente discrezionale, che siano valutate dal giudice come «tali da giustificare una diminuzione della pena».

La regola generale del bilanciamento di circostanze del reato è stata modificata, nella parte che rileva ai fini delle sollevate questioni, dalla legge n. 251 del 2005, che all’art. 3 ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 cod. pen. in questi termini: «Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, nonché dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero 4), per cui vi è divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti, ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato».

In tal modo, è stato introdotto il censurato divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti quando ricorre l’aggravante della recidiva reiterata.

La stessa legge ha, poi, previsto plurime modifiche al codice penale, segnatamente con riferimento alla disciplina della recidiva e delle circostanze del reato. In particolare, l’art. 4 ha sostituito l’art. 99 cod. pen., ridefinendo, in termini di maggior rigore, le varie ipotesi di recidiva, in controtendenza rispetto al decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220, che già all’epoca aveva sostituito tale disposizione nel testo del codice del 1930 al fine, invece, di attenuare il rigore di quest’ultimo.

L’intervento riformatore del 1974 non solo aveva ridotto gli incrementi di pena per le varie ipotesi di recidiva, ma anche li aveva resi facoltativi, prevedendo che il giudice «può» aumentare la pena in tutte le ipotesi di recidiva: da quella semplice (fino a un sesto) a quella reiterata specifica (fino a due terzi). Coerentemente era stata abrogata la disposizione del codice che prevedeva i casi di recidiva facoltativa (art. 100), a fronte dell’obbligatorietà della recidiva di cui al precedente art. 99.

Con la legge n. 251 del 2005 sono stati sensibilmente aumentati gli incrementi di pena in tutte le ipotesi di recidiva, anche oltre quelli previsti dall’originario art. 99 nel testo del codice del 1930: da quella semplice (aumento di un terzo) a quella reiterata specifica (aumento di due terzi).

In particolare, l’ipotesi della recidiva reiterata, sia semplice (quella del recidivo che commette un altro delitto non colposo), sia specifica (quella del recidivo che commette un altro delitto della stessa indole, oppure ciò fa nei cinque anni dalla condanna precedente, o durante o dopo l’esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena), ha visto l’aumento di pena elevato rispettivamente a metà e a due terzi (mentre prima era «fino» a metà e «fino» a due terzi).

5.– Investita da numerose questioni di legittimità costituzionale, questa Corte (sentenza n. 192 del 2007) le ha dichiarate inammissibili per mancata sperimentazione dell’interpretazione adeguatrice da parte dei giudici rimettenti.

Ha osservato questa Corte che le sollevate questioni si fondavano sul presupposto implicito che, a seguito della legge n. 251 del 2005, la recidiva reiterata fosse divenuta obbligatoria e non potesse essere discrezionalmente esclusa dal giudice – quantomeno agli effetti della commisurazione della pena – in correlazione alle peculiarità del caso concreto.

Ma questa non era l’unica lettura astrattamente possibile: «la nuova formula normativa potrebbe essere letta anche nel diverso senso che l’indicativo presente “è” si riferisca, nella sua imperatività, esclusivamente alla misura dell’aumento di pena conseguente alla recidiva pluriaggravata e reiterata – aumento che, a differenza che per l’ipotesi della recidiva aggravata, di cui al secondo comma dell’art. 99 cod. pen., il legislatore del 2005 ha voluto rendere fisso, anziché variabile tra un minimo e un massimo – lasciando viceversa inalterato il potere discrezionale del giudice di applicare o meno l’aumento stesso». Ed ha aggiunto questa Corte: «allorché la recidiva reiterata concorra con una o più attenuanti, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento – soggetto al regime limitativo di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. – unicamente quando, sulla base dei criteri dianzi ricordati, ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; mentre, in caso contrario, non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo con ciò esclusa la censurata elisione automatica delle circostanze attenuanti».

Insomma, era possibile interpretare l’art. 99, quarto comma, cod. pen., nel senso che la recidiva reiterata, divenuta facoltativa a seguito del d.l. n. 99 del 1974, come convertito, era rimasta tale anche dopo la legge n. 251 del 2005 che contemplava testualmente come obbligatoria solo la particolare (e più specifica) recidiva reiterata di cui al quinto comma dell’art. 99 cod. pen.

È questo anche l’approdo della successiva giurisprudenza di legittimità: è consentito al giudice negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non applicando il relativo aumento della sanzione (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenze 24 febbraio-24 maggio 2011, n. 20798 e 27 maggio-5 ottobre 2010, n. 35738).

Rimaneva sottratta a tale interpretazione solo la recidiva reiterata del quinto comma dell’art. 99 cod. pen., quella che ricorre quando si tratta di uno dei delitti indicati all’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale e che – oltre a comportare un aumento di pena ancora maggiore – era testualmente prevista come obbligatoria. Ma successivamente anche tale ipotesi specifica è venuta meno allorché questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione limitatamente alle parole «è obbligatorio e,» (sentenza n. 185 del 2015). In particolare, è stato posto in rilievo che l’automatismo sanzionatorio introdotto dalla norma censurata – ossia l’obbligatorietà dell’aumento di pena per la recidiva reiterata specifica del quinto comma dell’art. 99 cod. pen. – non si giustificava, contrastando esso con il principio di ragionevolezza perché parificava situazioni personali e ipotesi di recidiva tra loro diverse, in violazione dell’art. 3 Cost. Inoltre «[l]a preclusione dell’accertamento della sussistenza nel caso concreto delle condizioni che dovrebbero legittimare l’applicazione della recidiva può rendere la pena palesemente sproporzionata, e dunque avvertita come ingiusta dal condannato, vanificandone la finalità rieducativa prevista appunto dall’art. 27, terzo comma, Cost.».

Si è così anche consolidata l’interpretazione alla quale era pervenuta la giurisprudenza di legittimità: se non è obbligatoria l’ipotesi più grave di recidiva, quella del quinto comma dell’art. 99 cod. pen., a maggior ragione non lo sono le altre previste dai commi precedenti e quindi al giudice è sempre consentito «negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non applicando il relativo aumento della sanzione» (ancora, sentenza n. 185 del 2015).

6.– Pertanto, la connotazione peculiare della circostanza aggravante della recidiva reiterata, come modificata dalla legge n. 251 del 2005, risiede nel rigido automatismo del divieto di prevalenza di qualsiasi circostanza attenuante a fronte della persistente non obbligatorietà della sua applicazione.

Nella legge n. 251 del 2005 è rimasto, infatti, a valle della pur non obbligatorietà di ogni fattispecie di recidiva, un effetto inequivocabilmente automatico, quello censurato oggi dal giudice rimettente. La recidiva reiterata del quarto comma dell’art. 99 cod. pen. per un verso può (non necessariamente deve) comportare un aumento di pena maggiore che in passato, ma per l’altro determina, come effetto automatico appunto, il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti.

Infatti, l’art. 3 della legge n. 251 del 2005 – come già rilevato – ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 cod. pen. (disposizione censurata) prevedendo che per alcune aggravanti nominate – la recidiva reiterata del quarto comma dell’art. 99 cod. pen., l’aver determinato al reato una persona non imputabile o non punibile, o un minore di anni diciotto o una persona in stato di infermità o di deficienza psichica – ci sia il «divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti».

Invece, per tutte le altre circostanze – anche quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o determina la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato – si applica l’ordinaria disciplina del concorso di circostanze aggravanti e attenuanti prevista dai primi tre commi dello stesso art. 69.

Il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti su quella aggravante della recidiva reiterata connota quest’ultima come circostanza aggravante dotata di forza maggiore, che si iscrive nel novero di quelle cosiddette “privilegiate”.

Il sistema penale conosce varie ipotesi di circostanze aggravanti per le quali vale il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti o finanche, più radicalmente, l’esclusione del giudizio di comparazione tra circostanze.

Quanto al divieto di prevalenza di circostanze attenuanti o al divieto di bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 cod. pen. (cosiddette circostanze “privilegiate”), «[h]a affermato questa Corte (sentenza n. 38 del 1985) che “[n]ell’art. 69 cod. pen. […] l’obbligatorietà del giudizio di bilanciamento ha una sua razionalità nell’essenza stessa di quella valutazione, che è giudizio di valore globale del fatto”. Ma il legislatore può sospendere l’applicazione dell’art. 69 cod. pen., togliendo al giudice il potere discrezionale di operare il bilanciamento a compensazione delle aggravanti o a favore delle attenuanti in un’ottica di inasprimento sanzionatorio. Si tratta di una “grave limitazione” che in sé non è illegittima, ma non può accompagnarsi anche alla irrilevanza ex lege delle circostanze attenuanti. Con questa limitazione, si è quindi riconosciuto che appartiene alla discrezionalità del legislatore introdurre speciali ipotesi di circostanze aggravanti privilegiate che sono sottratte al bilanciamento di cui all’art. 69 cod. pen.» (sentenza n. 88 del 2019).

Una clausola di esclusione della comparazione è stata prevista dall’art. 416-bis.1 cod. pen. (Circostanze aggravanti e attenuanti per reati connessi ad attività mafiose).

Anche con riguardo all’aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico di cui all’art. 270-bis.1 cod. pen. si ha che le circostanze attenuanti non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti.

In riferimento al “nuovo” reato di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi e gravissime, un divieto di bilanciamento è previsto dall’art. 590-quater cod. pen. quando ricorrono le circostanze aggravanti di cui agli artt. 589-bis, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, 589-ter, 590-bis, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, e 590-ter cod. pen.

Più recentemente, l’art. 5, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 1° marzo 2018, n. 21, recante «Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103», ha introdotto l’art. 69-bis cod. pen., che prevede, per i delitti di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), numeri da 1) a 6), cod. proc. pen., un divieto di bilanciamento di circostanze aggravanti e attenuanti nell’ipotesi in cui chi ha determinato altri a commettere il reato, o si è avvalso di altri nella commissione del delitto, ne è il genitore esercente la responsabilità genitoriale ovvero il fratello o la sorella, aggiungendo che le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti.

Quindi vi sono varie circostanze “privilegiate”, quelle alle quali il legislatore ha riservato un regime derogatorio dell’ordinario bilanciamento di cui all’art. 69 cod. pen.

7.– In questo panorama di aggravanti “privilegiate”, il divieto di prevalenza delle attenuanti con riguardo alla recidiva reiterata si presenta come particolare perché l’automatismo di tale esclusione si innesta sulla mancanza di automatismo dell’applicazione dell’aumento di pena.

Il giudice deve innanzi tutto accertare, con discrezionalità valutativa, se sussistono i presupposti per applicare l’aumento di pena per la recidiva reiterata, verificando, in concreto, se le precedenti condanne abbiano reso la persona maggiormente incline a commettere un ulteriore reato.

È questo un accertamento distinto rispetto alla (logicamente successiva) valutazione di proporzionalità della pena irrogabile ove sia in concreto applicabile l’aumento per la recidiva. In particolare, quanto all’ipotesi della recidiva reiterata, solo se il giudice ritiene che debba in concreto applicare l’aumento di pena per tale circostanza aggravante, allora scatta l’automatismo dell’esclusione della prevalenza di qualsivoglia (eventualmente) concorrente circostanza attenuante.

Questa preliminare valutazione, pur discrezionale, è ben distinta da quella che, in seguito, in caso di condanna dell’imputato, il giudice è chiamato a fare per stabilire la pena proporzionata al reato accertato.

Diversamente nel caso oggetto del giudizio a quo – come mette in rilievo il rimettente – si ha che, dopo la pronuncia di annullamento della Corte di cassazione, non sono più in discussione né la qualificazione giuridica dei reati contestati (e innanzi tutto quello, più grave, di cui all’art. 285 cod. pen.), né il giudizio di penale responsabilità, in particolare, dell’imputato, né la sua condizione di recidivo reiterato ai sensi dell’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Si è formato un giudicato interno sull’operatività dell’aggravante costituita dalla recidiva reiterata, la cui originaria non obbligatorietà non può più rilevare, e ciò fa scattare l’automatismo dell’esclusione della prevalenza delle attenuanti.

La riqualificazione del reato da parte della Corte di cassazione – strage “politica” ex art. 285 cod. pen. (punita con l’ergastolo) e non già strage “comune” ex art. 422 cod. pen. senza uccisione di persone (punita con la reclusione non inferiore a quindici anni) – comporta, quindi, il necessario dispiegarsi dell’automatismo recato dalla disposizione censurata: anche nel concorso di circostanze attenuanti il giudice non può che irrogare la pena edittale fissa dell’ergastolo.

8.– La tenuta costituzionale di questo automatismo, insito nel divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti, non poteva che misurarsi con i principi di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), di offensività della condotta del reo (art. 25, secondo comma, Cost.) e della necessaria proporzionalità della pena tendente alla rieducazione del condannato (art. 27, terzo comma, Cost.), pur nel contesto della generale non obbligatorietà della recidiva, che non attenua la portata del divieto stesso, ma anzi lo fa apparire, già per ciò solo, eccedente se non proprio contraddittorio.

Questa Corte ha ripetutamente fatto tale verifica di legittimità costituzionale con riferimento a singoli reati e a specifiche circostanze attenuanti e il divieto di prevalenza delle attenuanti sull’aggravante della recidiva reiterata è già stato più volte dichiarato costituzionalmente illegittimo con riferimento a specifiche circostanze diminuenti e a singoli reati.

8.1.– Con la sentenza n. 143 del 2021, che ha avuto ad oggetto la preclusione introdotta dalla disposizione censurata proprio con riferimento alla medesima diminuente di cui all’art. 311 cod. pen., questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della diminuente del fatto di lieve entità – introdotta con sentenza n. 68 del 2012 di questa Corte, in relazione al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, di cui all’art. 630 cod. pen. – sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

La «funzione di necessario riequilibrio del trattamento sanzionatorio» riconosciuta alla diminuente del «fatto di lieve entità» si è posta come essenziale perché il giudice possa individuare una pena proporzionata anche in relazione a condotte meno gravi di quelle avute di mira dal legislatore che, con la legge 30 dicembre 1980, n. 894 (Modifiche all’articolo 630 del codice penale), ha modificato il trattamento sanzionatorio del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, stabilendo la pena della reclusione da venticinque a trent’anni.

Mette conto ricordare anche che, nella precedente sentenza n. 68 del 2012, questa Corte – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen., nella parte in cui non prevedeva «che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità» – ha affermato, con riferimento all’art. 311 cod. pen., che la peculiare funzione di questa attenuante, «rientrante nel novero delle circostanze cosiddette indefinite o discrezionali (non avendo il legislatore meglio precisato il concetto di “lievità” del fatto) [...] consiste propriamente nel mitigare – in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno o del pericolo) – una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale».

8.2.– La richiamata sentenza n. 143 del 2021 è stata preceduta da numerose altre pronunce, tutte dichiarative, in linea di continuità, dell’illegittimità costituzionale parziale della stessa disposizione attualmente censurata dal giudice rimettente (l’art. 69, quarto comma, cod. pen.).

Con la sentenza n. 251 del 2012, questa Corte – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di tale disposizione nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) – ha, tra l’altro, affermato che le differenze quantitative delle comminatorie edittali dei commi 1 e 5 del citato art. 73 rispecchiano le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie sul piano dell’offensività; in particolare, il trattamento sanzionatorio decisamente più mite, assicurato al fatto di “lieve entità”, esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, la quale «indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato».

Ed ha aggiunto che «[d]ue fatti, quelli previsti dal primo e dal quinto comma dell’art. 73, che lo stesso assetto legislativo riconosce come profondamente diversi sul piano dell’offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, e ciò “determina un contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 25, secondo comma, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità penale” (sentenza n. 249 del 2010)».

Analogamente, con riferimento alla stessa disciplina degli stupefacenti, questa Corte, con la sentenza n. 74 del 2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della medesima disposizione nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui al successivo comma 7 del medesimo art. 73. La rigida presunzione di capacità a delinquere desunta dall’esistenza di una recidiva reiterata «è inadeguata ad assorbire e neutralizzare gli indici contrari, che possono desumersi, a favore del reo, dalla condotta susseguente, con la quale la recidiva reiterata non ha alcun necessario collegamento»; condotta di chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori.

Parimenti, nella sentenza n. 105 del 2014, questa Corte ha affermato che la disposizione censurata, nel precludere relativamente al reato di ricettazione la prevalenza dell’attenuante del fatto di «particolare tenuità» sulla recidiva reiterata, determina conseguenze manifestamente irragionevoli sul piano sanzionatorio per la riconducibilità alla medesima cornice edittale di due fatti che lo stesso legislatore riconosce come profondamente diversi sul piano dell’offesa, dal momento che «[l]e differenti comminatorie edittali del primo e del secondo comma dell’art. 648 cod. pen. rispecchiano le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul piano dell’offensività».

Principi analoghi sono alla base della sentenza n. 106 del 2014, in relazione al divieto di prevalenza della circostanza attenuante concernente i «casi di minore gravità» di violenza sessuale cui all’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen. Tale circostanza attenuante si pone «quale temperamento degli effetti della concentrazione in un unico reato di comportamenti, tra loro assai differenziati, che comunque incidono sulla libertà sessuale della persona offesa, e della conseguente diversa intensità della lesione dell’oggettività giuridica del reato».

Nella sentenza n. 205 del 2017, la dichiarazione di illegittimità costituzionale ha riguardato la circostanza attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), concernente il «danno patrimoniale di speciale tenuità» cagionato alla massa dei creditori per i reati di bancarotta fraudolenta, bancarotta semplice e ricorso abusivo al credito. Si è riconosciuto che il trattamento sanzionatorio, significativamente più mite, assicurato ai fatti di bancarotta che hanno determinato un danno patrimoniale di particolare tenuità, «esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato».

Inoltre, in relazione al divieto di prevalenza dell’attenuante del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen., questa Corte, nella sentenza n. 73 del 2020, ha affermato che esso impedisce al giudice di determinare una pena proporzionata rispetto alla concreta gravità oggettiva e soggettiva del reato, e pertanto adeguata al grado di responsabilità «personale» e rimproverabilità del suo autore, «non consentendo di tenere adeguatamente conto [...] della minore possibilità di essere motivato dalle norme di divieto da parte di chi risulti affetto da patologie o disturbi della personalità che, seppur non escludendola del tutto, diminuiscano grandemente la sua capacità di intendere e di volere», come invece previsto dalla circostanza attenuante indicata, «riconducibile a un connotato di sistema di un diritto penale “costituzionalmente orientato”».

Nell’esaminare la fattispecie del cosiddetto concorso anomalo di cui all’art. 116, primo comma, cod. pen. – che prevede lo stesso titolo di responsabilità per il reato, diverso da quello voluto con l’accordo delittuoso, commesso da altro correo, parificando così a quest’ultimo la posizione del concorrente che non ha voluto il fatto-reato – questa Corte, nella sentenza n. 55 del 2021, ha affermato che la diminuente di cui al secondo comma dell’art. 116 cod. pen. vale proprio ad operare la necessaria diversificazione quanto alla dosimetria della pena, in quanto «[i]l trattamento sanzionatorio non può essere pienamente parificato quando il reato commesso sia più grave di quello voluto», per cui «la pena per il correo che risponde a titolo di colpa di un reato doloso più grave di quello voluto è necessariamente riequilibrata mediante l’operatività della diminuente».

9.- Tutto ciò premesso, le sollevate questioni di legittimità costituzionale, inquadrate in questo contesto normativo (punti da 3 a 7) e giurisprudenziale (punto 8 e seguenti), sono fondate in riferimento a tutti i parametri evocati dal giudice rimettente.

10.– Come si è ricordato, il divieto di prevalenza delle attenuanti in caso di recidiva reiterata, recato dalla disposizione censurata, è già stato dichiarato costituzionalmente illegittimo più volte. Si è trattato di pronunce tutte relative a distinti reati e a specifiche circostanze attenuanti (in rassegna al punto 8), ma alle quali sono sottese rationes decidendi riconducibili a principi comuni, declinati lungo una triplice direttrice, i quali – come si dirà – sono decisivi al fine della valutazione di fondatezza delle questioni, in linea di continuità con tali precedenti.

10.1.– La prima condivisa ratio decidendi attiene alla particolare ampiezza della divaricazione tra la pena base prevista per il reato non circostanziato e quella risultante dall’applicazione dell’attenuante; divaricazione che, per essere compatibile con i principi di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), di offensività della condotta penale (art. 25, secondo comma, Cost.) e di proporzionalità della pena tendente alla rieducazione del condannato (art. 27, terzo comma, Cost.), richiede necessariamente che il giudice possa operare l’ordinario giudizio di bilanciamento delle circostanze (art. 69 cod. pen.), senza che sia preclusa la valutazione di prevalenza dell’attenuante sulla recidiva reiterata.

La deroga al giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee, insita nel divieto recato dalla disposizione censurata, determina, in questi casi, una «alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale» (sentenza n. 251 del 2012), perché finisce per comportare l’applicazione di pene identiche per violazioni di rilievo penale marcatamente diverso.

L’affermazione di tale principio si rinviene già nella pronuncia appena richiamata, concernente le violazioni «di lieve entità» della disciplina degli stupefacenti, per le quali l’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, recante l’attenuante in questione, prevedeva la pena della reclusione da uno a sei anni (oltre la multa) a fronte di una pena edittale, per il reato non circostanziato, della reclusione da sei a venti anni (oltre la multa). Questa Corte ha evidenziato l’«enorme divaricazione delle cornici edittali» stabilite dal legislatore per il reato circostanziato dalla diminuente e per la fattispecie base prevista dal comma 1 della disposizione citata, con l’effetto di «un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato».

Quanto allo stesso reato, considerazioni analoghe sono state fatte da questa Corte (sentenza n. 74 del 2016) con riferimento alla circostanza attenuante ad effetto speciale, prevista dal comma 7 del medesimo art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, che comporta una marcata diminuzione della pena (dalla metà a due terzi) per chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori.

Alla stessa ragione del decidere è riconducibile anche la sentenza n. 105 del 2014 relativa alla ricettazione «di particolare tenuità» (art. 648, secondo comma, cod. pen.). Il minimo della pena detentiva previsto per il fatto di particolare tenuità (15 giorni di reclusione) veniva elevato a due anni, determinando così, a causa del divieto di prevalenza delle attenuanti di cui alla disposizione censurata, un trattamento sanzionatorio «irragionevolmente severo».

La coeva sentenza n. 106 del 2014 ha riguardato i casi di violenza sessuale di «minore gravità», per i quali l’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen., prevede una pena della reclusione (da un anno e otto mesi a tre anni e quattro mesi) sensibilmente inferiore a quella relativa al reato non circostanziato (reclusione da cinque a dieci anni).

Il divieto di prevalenza delle attenuanti finiva per attribuire alla risposta punitiva i connotati di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato».

Analoga divaricazione sproporzionata è stata ritenuta (sentenza n. 205 del 2017) con riferimento al reato di bancarotta fraudolenta, punito con la pena edittale che va da tre a dieci anni di reclusione, pena che, per effetto dell’attenuante prevista per il caso di «danno patrimoniale di speciale tenuità», può essere ridotta nel minimo fino a un anno.

Particolarmente significativa per le questioni attualmente in esame è – come già rilevato – la sentenza n. 143 del 2021 che, con riferimento proprio all’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen., ha posto in rilievo che la funzione di tale diminuente, pur comune e non già ad effetto speciale, «consiste propriamente nel mitigare – in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno o del pericolo) – una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale».

In definitiva, in tutte queste fattispecie è stata riconosciuta alle singole attenuanti, anche non ad effetto speciale, una necessaria funzione riequilibratrice del marcato divario tra una pena particolarmente elevata per il reato base a fronte di quella che altrimenti risulterebbe dall’applicazione dell’attenuante; funzione che, per il rispetto dei principi costituzionali di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), di offensività della condotta sanzionata penalmente (art. 25, secondo comma, Cost.) e di proporzionalità della pena tendente alla rieducazione del condannato (art. 27, terzo comma, Cost.), non può essere compromessa dal divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata recato dalla disposizione censurata.

10.2.– Inoltre, ancora sotto il profilo oggettivo, nei precedenti richiamati, è stata rilevante, come ragione del decidere, la considerazione che alcune attenuanti sono accomunate dall’esigenza di bilanciare la particolare ampiezza della fattispecie del reato non circostanziato che accomuna condotte marcatamente diverse, e che necessitano di essere differenziate nella determinazione del trattamento sanzionatorio.

Lo spaccio di lieve entità (art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990) costituisce condotta certamente meno grave del traffico di stupefacenti, tipico del reato non circostanziato di cui al comma 1 della stessa disposizione, tanto che in seguito esso è stato previsto come fattispecie autonoma di reato.

Anche le condotte di atti sessuali di «minore gravità» – in passato riconducibili agli atti di libidine violenti o alle molestie, ma ricompresi, a seguito della riforma del 1996 (legge 15 febbraio 1996, n. 66, recante «Norme contro la violenza sessuale»), nel reato, ad ampio spettro, di violenza sessuale – richiedono la necessaria funzione riequilibratrice dell’attenuante ad effetto speciale del terzo comma dell’art. 609-bis cod. pen.

10.3.– Sotto il profilo soggettivo, infine, una ulteriore ratio decidendi è rinvenibile in quelle pronunce che hanno riguardato attenuanti strettamente legate al carattere personale della responsabilità penale.

Si tratta di circostanze attenuanti espressive non già, sul piano oggettivo, di una minore offensività del fatto rispetto agli interessi protetti dalla norma penale, né di una finalità premiale rispetto a condotte post delictum, quanto piuttosto della ridotta rimproverabilità soggettiva dell’autore.

La circostanza attenuante del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen. si fonda sul minore grado di discernimento, da parte dell’autore che versi in tale condizione, circa il disvalore della sua condotta e sulla minore capacità di controllo dei suoi impulsi, in ragione delle patologie o disturbi che lo affliggono; di qui, la ridotta rimproverabilità soggettiva. Con riferimento ad essa, questa Corte ha affermato che il «principio di proporzionalità della pena desumibile dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. esige insomma, in via generale, che al minor grado di rimproverabilità soggettiva corrisponda una pena inferiore rispetto a quella che sarebbe applicabile a parità di disvalore oggettivo del fatto» (sentenza n. 73 del 2020).

Anche la circostanza attenuante di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen., che contempla l’ipotesi in cui il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, prevedendo che quest’ultimo ne risponde se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione, svolge la «funzione di necessario riequilibrio del trattamento sanzionatorio» (sentenza n. 55 del 2021). La pena per il correo, che risponde a titolo di colpa di un reato doloso più grave di quello voluto, è necessariamente riequilibrata mediante l’operatività di tale diminuente che «concorre a sorreggere la tenuta costituzionale di questa eccezionale fattispecie di responsabilità penale»; riequilibrio che non può essere compromesso dal divieto di prevalenza delle attenuanti previsto dalla disposizione censurata.

11.– Orbene, queste ragioni del decidere (sub punti da 10.1. a 10.3.), che reclamano l’ordinario giudizio di bilanciamento delle circostanze attenuanti pur in presenza della recidiva reiterata, ricorrono tutte, e in maggior grado, nell’ipotesi in cui il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti comporta che l’unica pena irrogabile è l’ergastolo, quale che sia stata la condotta dell’imputato, rientrante in quella prevista dall’art. 285 cod. pen. come strage (ma, beninteso, ciò vale anche quando il divieto opera in riferimento alle condotte di devastazione o saccheggio, previste anch’esse dalla stessa disposizione).

Il divario tra la pena edittale e quella che, in assenza del contestato divieto, sarebbe irrogabile ove ricorra una circostanza attenuante dal giudice valutata come prevalente sulla recidiva reiterata, risulta qui particolarmente elevato: in luogo di una pena perpetua, quale l’ergastolo, sarebbe possibile applicare, sempre che il giudice ritenga prevalente l’attenuante, la pena temporanea della reclusione da venti a ventiquattro anni (art. 65 cod. pen.).

Quest’ultima è calibrata sul fatto e sulle sue peculiarità, nonché sulla persona dell’imputato ai sensi dell’art. 133 cod. pen., pur con le limitazioni contenute ora, per effetto ancora della legge n. 251 del 2005, nel secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen.

Invece la pena edittale (l’ergastolo) non è graduabile quanto alla durata, proprio perché è perpetua e tale è nel momento in cui viene irrogata con sentenza passata in giudicato; in quel momento la prospettiva per il condannato è una pena che non ha mai fine.

È vero che questa Corte ha rinvenuto nella disciplina dell’esecuzione della pena istituti che consentono di escludere, nella fase dell’espiazione, il carattere di irrimediabile perpetuità della stessa come restrizione “senza speranza”, sottolineando che si tratta di «istituti che si caratterizzano come concettualmente antagonisti rispetto alla perpetuità della pena» (sentenza n. 168 del 1994).

In proposito, la sentenza n. 264 del 1974 ha affermato che al condannato alla pena perpetua non è preclusa la possibilità di un rientro nella società tramite la liberazione condizionale. Infatti, il beneficio è concedibile – dal giudice e non più per concessione del Ministro della giustizia (sentenza n. 204 del 1974) – anche ai condannati alla pena perpetua quando abbiano scontato almeno ventisei anni di reclusione; beneficio che si accompagna comunque al rispetto degli obblighi della libertà vigilata per la durata di cinque anni affinché la pena dell’ergastolo possa alla fine estinguersi e quindi risultare, in concreto ed ex post, non essere stata perpetua.

Anche recentemente, questa Corte (sentenza n. 66 del 2023 e ordinanza n. 97 del 2021) ha ribadito il ruolo dell’istituto della liberazione condizionale quale garanzia di compatibilità della pena dell’ergastolo di cui all’art. 22 cod. pen. con il principio di risocializzazione presidiato dall’art. 27 Cost., sottolineando che la liberazione condizionale è l’unico istituto che, in virtù della sua esistenza nell’ordinamento, rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo.

Altre pronunce poi convergono nella stessa direzione, rafforzando la prospettiva della liberazione condizionale (sentenze n. 253 del 2019, n. 161 del 1997 e n. 274 del 1983).

Tuttavia va considerato che, pur con il riconoscimento di queste tutele, tese a rafforzare il processo rieducativo finalizzato al “sicuro ravvedimento”, quale presupposto della liberazione condizionale del condannato all’ergastolo dopo l’espiazione di non meno di ventisei anni di reclusione (art. 176 cod. pen.), il fossato che, come divario sanzionatorio, esiste tra la pena perpetua, al momento della sua irrogazione, ed una temporanea, è radicalmente maggiore di ogni squilibrio considerato dalla giurisprudenza per dichiarare, nelle plurime richiamate fattispecie (sub punto 10 e seguenti), l’illegittimità costituzionale del censurato divieto di prevalenza delle attenuanti.

12.– Oltre a questo particolare rigore sanzionatorio, c’è un’ulteriore concorrente esigenza di “riequilibrio” per essere la pena dell’ergastolo prevista dall’art. 285 cod. pen., non solo molto più afflittiva di ogni pena temporanea, ma anche irrogata in riferimento ad una condotta ad ampio spettro – tale è il compimento di «un fatto diretto a portare […] la strage nel territorio dello Stato» - e che eccezionalmente è a consumazione anticipata, nel senso che il reato si perfeziona quando è posta in essere tale condotta senza richiedere che si verifichi la lesione dell’integrità fisica di persone, tant’è che non è ipotizzabile, a differenza degli altri reati, un tentativo di strage; ciò perché il “tentativo” di strage è già strage consumata.

13.– Soprattutto, poi, nella fattispecie in cui concorre l’aggravante della recidiva reiterata, la pena edittale dell’ergastolo risulta essere non solo “fissa”, ma anche unica e “indefettibile” proprio a causa del divieto di prevalenza delle attenuanti recato dalla disposizione censurata.

Invece, ove non operasse tale divieto, la pena irrogabile, nel concorso di circostanze attenuanti prevalenti, se ritenute tali dal giudice, sarebbe determinabile entro l’intervallo di un minino (venti anni di reclusione) e un massimo (ventiquattro anni) ai sensi dell’art. 65 cod. pen.; quindi sarebbe graduabile.

La giurisprudenza costituzionale ha più volte affermato che una pena fissa è per ciò solo indiziata di illegittimità costituzionale (sentenze n. 222 del 2018, n. 50 del 1980, n. 104 del 1968 e n. 67 del 1963, nonché, in ambito di sanzioni amministrative accessorie, le sentenze n. 246 del 2022 e n. 88 del 2019). Ciò a maggior ragione non può non valere quando il giudice è tenuto a infliggere l’ergastolo quale pena “fissa” e “indefettibile”.

In particolare, nella sentenza n. 185 del 2021 – nel ribadire che la fissità del trattamento sanzionatorio impedisce di tener conto della diversa gravità concreta dei singoli illeciti – si è sottolineato che «questa Corte ha posto da tempo in luce come la “mobilità” (sentenza n. 67 del 1963), o “individualizzazione” (sentenza n. 104 del 1968), della pena – tramite l’attribuzione al giudice di un margine di discrezionalità nella sua commisurazione all’interno di una forbice edittale, così da poterla adeguare alle particolarità della fattispecie concreta – costituisca “naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d’uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale” (sentenza n. 50 del 1980), al lume dei quali “l’attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l’uniformità” (così, ancora, la sentenza n. 104 del 1968)».

Ciò implica che, in via di principio, previsioni sanzionatorie rigide non sono in linea con il «volto costituzionale» del sistema penale, potendo esse essere giustificate solo «a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (sentenze n. 222 del 2018 e n. 50 del 1980).

Non può dirsi assicurata una pena proporzionata al fatto, sotto il profilo della «mobilità della pena» (sentenza n. 50 del 1980), se la medesima identica pena venga irrogata in relazione ad atti, che pur integrando il delitto consumato, si differenzino sul piano oggettivo per condotte di più avanzato compimento dell’attività delittuosa.

Esigenza questa che si rivela ancora più impellente nei delitti di attentato, altrimenti detti a consumazione anticipata, che puniscono una condotta in quanto tesa al perseguimento di un determinato risultato che, però, ai fini della punibilità non è necessario che si consegua in concreto.

Sotto questo profilo, può anche ricordarsi, con riferimento alla pena edittale dell’ergastolo, prevista in passato per il reato di violenza consistente nell’omicidio, sia tentato sia consumato, del superiore (art. 186, primo comma, del regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303, recante «Codici penali militari di pace e di guerra», nella formulazione all’epoca vigente), che questa Corte (sentenza n. 26 del 1979) ha affermato che «le norme che assoggettano il tentativo e la consumazione allo stesso regime penale costituiscono pur sempre alcunché di eccezionale rispetto ai principi ispiratori del diritto italiano» ed ha, quindi, dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione, limitatamente alle parole «tentato o», con conseguente espansione delle norme penali comuni in materia di delitto tentato di omicidio.

In definitiva, nel caso di reati puniti con la pena edittale dell’ergastolo, si ha che, concorrendo l’aggravante della recidiva reiterata e applicandosi il censurato divieto di prevalenza delle attenuanti, la pena dell’ergastolo diventa l’unica irrogabile, quindi “fissa” e “indefettibile”.

14.– La fissità della pena perpetua comporta anche, per effetto del divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata, un trattamento, per il condannato, ingiustificatamente diverso in peius.

In generale, le circostanze attenuanti – se ritenute equivalenti all’aggravante della recidiva reiterata (ciò che è possibile che il giudice faccia anche in presenza del censurato divieto di prevalenza) – quanto meno hanno l’effetto di escludere l’aumento di pena per la recidiva. Ma nel caso dell’ergastolo, questo effetto non può conseguirsi, non essendo esso suscettibile di aggravamento per la recidiva reiterata in quanto di per sé perpetuo.

Nel regime delle circostanze cosiddette privilegiate – sia con “privilegio debole” (divieto di prevalenza), sia con “privilegio forte” (divieto di bilanciamento) – le circostanze attenuanti comunque hanno un effetto sulla pena (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 aprile-18 novembre 2021, n. 42414). Finanche nel caso del divieto di bilanciamento, l’art. 69-bis cod. pen. prevede che «le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti», ossia alle aggravanti “privilegiate”.

Invece, nel caso della pena edittale fissa dell’ergastolo tutte le attenuanti sono, di fatto, “sterilizzate” dal concorso con la recidiva reiterata proprio a causa del censurato divieto di prevalenza delle attenuanti e quindi – con trattamento deteriore in violazione del principio di eguaglianza – non hanno nemmeno l’effetto di schermare l’aumento della pena per il concorso della circostanza aggravante della recidiva reiterata, il quale di per sé non si può produrre in ragione del carattere perpetuo della pena dell’ergastolo.

Del resto, mutatis mutandis, il regime “privilegiato” delle circostanze di cui all’art. 270-bis.1 cod. pen., che al secondo comma prevede un divieto di prevalenza delle attenuanti, non dissimile da quello attualmente censurato, per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, si riferisce espressamente, al primo comma, a quelli punibili con pena diversa dall’ergastolo.

15.– In conclusione, la fissità della pena edittale dell’ergastolo, aggravata dal suo rigore per essere la sanzione più elevata in assoluto, in quanto perpetua al momento della sua irrogazione, e marcatamente più afflittiva rispetto a quella irrogabile per lo stesso reato circostanziato da una diminuente, richiede – per la tenuta costituzionale della pena stessa, in riferimento a tutti gli evocati parametri (artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.) – che non sia precluso, in caso di recidiva reiterata, l’ordinario bilanciamento delle circostanze attenuanti del reato, le quali, se esclusive o ritenute dal giudice prevalenti sulle aggravanti, comportano che alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione da venti a ventiquattro anni (art. 65 cod. pen.).

16.– L’accertata violazione, da parte della disposizione censurata, di tutti i parametri costituzionali evocati dal giudice rimettente, vale non solo per il reato di cui all’art. 285 cod. pen., punito appunto con la pena edittale fissa dell’ergastolo, e in riferimento all’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen., che il giudice rimettente ritiene di poter applicare, ma vale altresì con riguardo ad ogni altra attenuante, comprese le attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., e per tutti gli altri reati puniti allo stesso modo, ossia con la pena edittale fissa dell’ergastolo (quali quelli sopra richiamati al punto 3), quando parimenti operi il divieto di prevalenza delle attenuanti.

La disposizione censurata e gli accertati vulnera dei parametri suddetti sono infatti gli stessi (analogamente, sentenza n. 156 del 2020).

Deve, quindi, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., in relazione ai delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo.

Per effetto di tale dichiarazione di illegittimità costituzionale il giudice, nel determinare il trattamento sanzionatorio in caso di condanna di persona recidiva ex art. 99, quarto comma, cod. pen., imputata di uno dei delitti suddetti, può operare l’ordinario bilanciamento previsto dall’art. 69 cod. pen. nel caso di concorso di circostanze e, quindi, può ritenere le attenuanti prevalenti sulla recidiva reiterata (secondo comma), oppure equivalenti a quest’ultima (terzo comma), o finanche subvalenti rispetto ad essa (primo comma).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come modificato dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui, relativamente ai delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, prevede il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 aprile 2023.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Giovanni AMOROSO, Redattore

Igor DI BERNARDINI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 maggio 2023.

Il Cancelliere

F.to: Igor DI BERNARDINI

SENTENZA N. 94

ANNO 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso dalla Corte d’assise d’appello di Torino, sezione seconda, nel procedimento penale a carico di A. C. e altro, con ordinanza del 19 dicembre 2022, iscritta al n. 14 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti l’atto di costituzione di A. C., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 18 aprile 2023 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

uditi l’avvocato Flavio Rossi Albertini Tiranni per A. C. e gli avvocati dello Stato Paola Maria Zerman e Ettore Figliolia per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 18 aprile 2023.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 19 dicembre 2022, la Corte d’assise d’appello di Torino, sezione seconda, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come risultante dalla modifica introdotta dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui, relativamente al reato previsto dall’art. 285 cod. pen. (Devastazione, saccheggio e strage), non consente al giudice di ritenere la circostanza attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. (Circostanza diminuente: lieve entità del fatto), prevalente sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

1.1.– Il rimettente riferisce di procedere quale giudice del rinvio, nel procedimento penale nei confronti di A. C. e di altra persona coimputata, a seguito della sentenza del 6 luglio-11 ottobre 2022, n. 38184, con cui la Corte di cassazione, sezione seconda penale, ha annullato la sentenza della Corte d’assise d’appello di Torino, sezione prima, limitatamente alla qualificazione del delitto di cui al capo F) dell’imputazione; delitto da ricondursi alla violazione non già dell’art. 422 cod. pen. (Strage comune), come ritenuto dalla pronuncia impugnata, bensì dell’art. 285 cod. pen. (Strage allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato), nei termini ipotizzati dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino fin dall’iniziale contestazione del reato.

Il Collegio rimettente osserva che, secondo quanto stabilito con accertamento coperto da giudicato, i fatti oggetto di contestazione sono accaduti la notte del 2 giugno 2006, in cui A. C., in concorso con una persona coimputata, al fine di attentare alla sicurezza dello Stato mediante l’uccisione di un numero indeterminato di esponenti delle forze dell’ordine, ha collocato due dispositivi ad alto potenziale esplosivo nei pressi di uno degli ingressi della scuola Allievi Carabinieri di Fossano.

In punto di fatto, il giudice a quo dà atto che gli ordigni contenevano 500 grammi di polvere pirica ciascuno ed erano dotati di un sistema di attivazione temporizzato che ne aveva determinato la deflagrazione ad un intervallo di tempo precedentemente programmato di circa mezz’ora l’uno dall’altro, tale da massimizzare gli effetti letali dell’esplosione.

Tale attentato era stato rivendicato con comunicati a firma RAT/FAI – Rivolta Anonima e Tremenda/Federazione Anarchica Informale e, all’esito dei tre gradi di giudizio, era stato sempre attribuito agli imputati.

Nell’ordinanza si riferisce, anche, che solo per un caso fortunato l’attentato non aveva provocato danni alle persone e aveva cagionato limitati danni alle cose, rimanendo comunque provata la volontà dei responsabili di aver agito perché l’evento si ripercuotesse sull’intera compagine statale, motivo per cui la Corte di cassazione ha rubricato il fatto ai sensi dell’art. 285 cod. pen., modificando la qualificazione che era stata data nei due gradi del giudizio di merito.

Il rimettente dà atto, altresì, che il reato è stato contestato come aggravato dall’essere stato commesso contro persone che rivestivano la carica di pubblico ufficiale e a causa dell’adempimento delle funzioni ad essa connesse.

Operata la riqualificazione, la Corte di cassazione ha, dunque, annullato la sentenza limitatamente al capo F), rinviando a una diversa sezione della Corte d’appello per una nuova valutazione del solo trattamento sanzionatorio da irrogare ai due imputati.

Alla luce di tali precisazioni, il rimettente, investito del giudizio di rinvio, afferma che non sono più in discussione né la qualificazione giuridica dei reati contestati, né il giudizio di responsabilità degli imputati, anche in ordine alle ulteriori fattispecie di reato loro ascritte, né la possibilità di ritenere tutti tali reati avvinti dalla continuazione, né infine è in discussione la sussistenza dei presupposti per ritenere l’imputato recidivo reiterato, ai sensi dell’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Invece – afferma il rimettente – dal momento che nei due precedenti gradi di giudizio era stata ritenuta la sussistenza del delitto di cui all’art. 422 cod. pen., costituisce inedito assoluto l’applicazione della circostanza attenuante prevista dall’art. 311 cod. pen., richiesta dalla difesa degli imputati. Su tale punto, non si è formato alcun giudicato, atteso che la questione di diritto decisa dalla Corte di cassazione non ha riguardato questo profilo.

Il rimettente osserva, infatti, che la circostanza in parola è destinata a operare in relazione a tutti i delitti previsti dal Titolo I del Libro II del codice penale e, dunque, anche in relazione al delitto di cui all’art. 285 cod. pen., ritenuto integrato solo con la sentenza della Corte di cassazione, e non anche con riferimento al delitto di strage previsto dall’art. 422 cod. pen., contemplato dal Titolo VI del medesimo Libro.

Sulla configurabilità dell’attenuante in parola, il giudice rimettente dà conto del fatto che all’esito del giudizio di primo grado, il pubblico ministero aveva chiesto la condanna (a trent’anni di reclusione) per il delitto di cui all’art. 285 cod. pen., ritenendo il fatto connotato da lieve entità ex art. 311 cod. pen.; attenuante questa la cui sussistenza il rimettente ritiene di condividere.

1.2.– In punto di rilevanza delle questioni, il Collegio afferma che riguardo alle modalità con cui si è realizzato il reato e alle conseguenze che da questo sono in concreto derivate, da valutarsi in rapporto all’entità della lesione arrecata ai beni, la condotta posta in essere da A. C. appare soddisfare i criteri indicati dalla disposizione di cui all’art. 311 cod. pen.

Stante la volontà di applicare la diminuente in parola, per il rimettente è decisiva la valutazione della legittimità costituzionale della previsione del divieto di prevalenza della circostanza attenuante del fatto di lieve entità, di cui all’art. 311 cod. pen., là dove la sussistenza dei presupposti della recidiva reiterata è ormai coperta dal giudicato.

Sotto tale profilo, il rimettente evidenzia che il divieto di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella versione vigente a seguito della entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, è applicabile alla fattispecie in quanto il delitto è stato commesso il 2 giugno 2006, dopo quindi l’entrata in vigore della legge che tale divieto ha introdotto.

Sarebbe, dunque, evidente la rilevanza delle questioni in quanto, se fosse dichiarata la illegittimità costituzionale della norma censurata, opererebbe l’ordinaria disciplina del concorso di circostanze attenuanti e aggravanti, prevista dai primi tre commi dell’art. 69 cod. pen. e, in particolare, potrebbe ritenersi per A. C. – al quale, peraltro, sono già state riconosciute le attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen. – la prevalenza delle circostanze attenuanti, segnatamente quella di cui all’art. 311 cod. pen., con conseguenze decisive in punto di trattamento sanzionatorio (non necessariamente la pena dell’ergastolo, ma quella prevista dall’art. 65 cod. pen., ossia la reclusione da venti a ventiquattro anni, come pena base).

Da tale premessa discenderebbe che il reato più grave fra quelli di cui l’odierno imputato è stato ritenuto responsabile (in continuazione con quelli di associazione con finalità di terrorismo, fabbricazione, detenzione e porto d’armi ed esplosivi a fini di terrorismo, attentato per finalità terroristiche e istigazione a delinquere), non sarebbe più punito con l’ergastolo, ma con una pena di durata compresa tra venti e ventiquattro anni di reclusione (art. 65 cod. pen.). Ad avviso del rimettente, nel caso di specie, il giudizio di bilanciamento tra circostanze dovrebbe risolversi riconoscendo la prevalenza della circostanza attenuante in questione (art. 311 cod. pen.) rispetto alla recidiva reiterata, con l’effetto di poter irrogare all’imputato una pena complessiva proporzionata alla effettiva portata lesiva delle condotte di cui si è reso responsabile.

Dalla soluzione delle questioni di legittimità costituzionale dipenderebbe, dunque, la determinazione della pena, alla luce della diversa qualificazione del fatto, come espressamente richiesto dalla Corte di cassazione con la pronuncia di annullamento che ha demandato tale valutazione al giudice di rinvio.

1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente passa in rassegna i principi affermati da questa Corte nelle numerose pronunce che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., che puntualmente riporta (a partire dalla sentenza n. 251 del 2012 fino a quella più recente, sentenza n. 143 del 2021).

Il giudice a quo rileva che tratto comune della quasi totalità di tali pronunce è il ricorrere di circostanze attenuanti che, rendendo manifesto l’intento del legislatore di calibrare il trattamento sanzionatorio rispetto alla concreta portata offensiva di determinate condotte, in ossequio ai principi di uguaglianza, offensività e proporzionalità della risposta sanzionatoria penale in ottica rieducativa, ha portato la Corte a privilegiare questo profilo rispetto a quelli della colpevolezza e della pericolosità propri della recidiva reiterata.

Anche quando la questione di legittimità costituzionale è stata affrontata con riguardo a profili di più marcata valenza soggettiva (con riferimento agli artt. 89 e 116 cod. pen.), questa Corte ha dato particolare rilievo alla funzione di necessario riequilibrio del trattamento sanzionatorio che alle circostanze deve essere riconosciuta.

Inoltre, nell’ordinanza di rimessione si evidenzia come questa Corte, pur ritenendo costituzionalmente legittime le deroghe al regime ordinario del bilanciamento tra circostanze, in quanto rientranti nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, avrebbe precisato che tali scelte non possono, comunque, trasmodare nella manifesta irragionevolezza, né determinare un’alterazione degli equilibri che la Carta costituzionale ha fissato con riferimento alla determinazione della pena giusta.

Date queste premesse di carattere generale, il rimettente afferma che anche nella fattispecie in esame debbono valere gli stessi canoni ermeneutici.

Ad avviso del rimettente, la circostanza di cui all’art. 311 cod. pen. opera quando, per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.

Più specificamente, l’art. 311 cod. pen., in maniera esattamente identica ad altre circostanze attenuanti già considerate da questa Corte nelle sentenze sopra richiamate, sarebbe dunque norma che impone all’interprete una valutazione su aspetti marcatamente connotati in senso oggettivo, che valorizza massimamente lo scrutinio di elementi riguardanti la potenzialità lesiva della condotta dell’agente e che, in ultima analisi, impone un vaglio dell’attitudine di questa a incidere più o meno significativamente sul bene tutelato dalla norma incriminatrice.

Ciò, ad avviso del giudice a quo, sarebbe tanto più vero là dove si consideri la specifica situazione di fatto che viene in rilievo nel caso concreto, vale a dire l’applicazione di questa circostanza attenuante al delitto previsto dall’art. 285 cod. pen.

Quest’ultimo reato è attualmente sanzionato con la più afflittiva delle pene detentive oggi contemplate dall’ordinamento, l’ergastolo, ma, prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo luogotenenziale 10 agosto 1944, n. 224 (Abolizione della pena di morte nel Codice penale), che l’ha abolita, era punito con la pena di morte.

La necessità di calibrare il trattamento sanzionatorio, in concreto applicabile al responsabile di tale delitto all’effettiva portata offensiva della sua condotta, risulta di estrema importanza, venendo in rilievo una pluralità di esigenze tutte ugualmente fondamentali.

Il rimettente pone in evidenza l’estrema severità del trattamento sanzionatorio previsto dalla norma incriminatrice, come già sottolineato, improntato al criterio della massima gravità imposta dalla legge, che, come pena principale – e non come ipotesi aggravata – si riscontra nel codice penale italiano soltanto in sei fattispecie, sanzionate dal codice penale appunto con la pena fissa dell’ergastolo: artt. 242 (Cittadino che porta le armi contro lo Stato italiano), 276 (Attentato contro il Presidente della Repubblica), 284, primo comma (Insurrezione armata contro i poteri dello Stato), 286 (Guerra civile), e 438 (Epidemia).

La circostanza attenuante prevista dall’art. 311 cod. pen., secondo il rimettente, assumerebbe allora la decisiva funzione riequilibratrice di una pena massimamente elevata e risponde all’esigenza di mitigarne gli effetti se, in relazione alla natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, sia necessario adeguare la risposta sanzionatoria alla concreta capacità offensiva della condotta criminosa.

Vi è poi la natura fissa della pena prevista dall’art. 285 cod. pen., che esclude ogni possibilità di adeguamento della pena al caso concreto; la norma incriminatrice, infatti, non prevede un limite minimo e una soglia massima ai quali parametrare la durata della pena alla luce dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., in quanto stabilisce l’applicazione dell’ergastolo in via esclusiva.

A tal riguardo, il rimettente richiama la giurisprudenza di legittimità secondo cui la compatibilità dell’ergastolo ai principi costituzionali sulla proporzionalità della pena può essere affermata, quanto all’art. 285 cod. pen., soprattutto in considerazione del fatto che, proprio attraverso l’applicazione delle circostanze attenuanti, «non si sottrae al giudice la possibilità di far luogo alla pena della reclusione in luogo di quella dell’ergastolo» (Corte di cassazione, sezione prima penale, 15 novembre 1978, n. 1538).

Ciò precisato, nell’ordinanza di rimessione si evidenzia che è stata più volte avvertita da questa Corte la necessità di evitare che profili relativi alla colpevolezza e alla pericolosità dell’agente possano elidere completamente quelli più pregnanti che riguardano l’idoneità del fatto oggettivamente inteso ad incidere in maniera più o meno marcata sui beni tutelati dal precetto penale. Con ciò evidenziandosi il contrasto con i principi costituzionali di cui all’art. 3, primo comma, 25 secondo comma e 27, terzo comma, Cost.

Il giudice a quo sottolinea inoltre che il divieto inderogabile di prevalenza della circostanza attenuante dell’art. 311 cod. pen. in relazione al delitto di cui all’art. 285 cod. pen., si porrebbe in contrasto con l’art. 27 Cost., in quanto si avrebbe l’applicazione della più grave fra le sanzioni detentive a prescindere da ogni considerazione sulla gravità dell’offesa in concreto arrecata.

L’art. 27, terzo comma, Cost. richiede, invece, che il trattamento sanzionatorio penale debba tendere alla rieducazione del condannato, dovendo risultare proporzionato alla condotta in concreto serbata dal reo e ciò è ancora più evidente con riferimento a un reato punito con l’ergastolo. Deve perciò essere riconosciuta al giudice la facoltà di parametrare la pena al fatto concreto, mitigando, tramite l’applicazione delle circostanze attenuanti, l’entità della pena inflitta all’autore del reato nei casi di minore disvalore delle sue condotte, per non frustrare il principio della necessaria proporzione della pena rispetto all’offensività del fatto e per assicurare l’irrogazione di una pena adeguata e proporzionata alla differente gravità del fatto-reato.

Secondo il giudice a quo, la disposizione censurata contrasterebbe anche con il principio di offensività del precetto penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che vuole che il trattamento penale sia differenziato a fronte di fatti diversi, senza che la considerazione della pericolosità dell’agente, la cui massima espressione si trova proprio nel regime della recidiva, possa legittimamente avere rilievo esclusivo.

Infine, sussisterebbe il contrasto anche con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza, stante che per effetto dell’applicazione della disposizione censurata si avrebbe un’unica pena per situazioni differenti sul piano dell’offensività.

Dal divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 311 cod. pen., discenderebbe che fatti di minore entità possano essere sanzionati con la pena dell’ergastolo alla stessa stregua di fatti più gravi, in tal modo equiparando sul piano sanzionatorio condotte riconducibili alla violazione dell’art. 285 cod. pen. che, pur aggredendo i medesimi beni giuridici, sono completamente diverse se si ha riguardo agli indici previsti dall’art. 311 cod. pen.

In conclusione, secondo il rimettente, l’irragionevolezza delle conseguenze di tale disparità di trattamento apparirebbe manifesta anche solo considerando che fatti caratterizzati da una rilevante differenza oggettiva, uno dei quali rispondente ai canoni della lieve entità normativamente definita, sarebbero puniti con la stessa sanzione in ragione di una esclusiva considerazione dei precedenti penali del loro autore e del conseguente giudizio di pericolosità che da questi può trarsi.

2.– Con atto del 3 marzo 2023, è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare le questioni inammissibili e, comunque, non fondate.

2.1.– In primo luogo, l’Avvocatura richiama la giurisprudenza di questa Corte per sostenere che difetterebbe la necessaria rilevanza delle questioni, e ciò in quanto il rimettente non sarebbe chiamato ad assumere alcuna decisione che comporti l’applicazione, sia pure indiretta, della norma impugnata.

In ogni caso, difetterebbe la motivazione sulla rilevanza e, comunque, sarebbe meramente apodittica, tale da non soddisfare, nemmeno in termini di plausibilità, l’onere motivazionale.

Più in particolare, la difesa dello Stato eccepisce quattro profili di inammissibilità, assumendo che: a) l’affermazione relativa all’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. sarebbe apertamente contraddittoria e, per altro verso, tautologica; b) parimenti tautologica sarebbe, dal punto di vista argomentativo, la ritenuta prevalenza di detta circostanza sulla recidiva ex art. 99, quarto comma; c) del tutto omessa, «nel senso letterale di graficamente omessa», sarebbe la motivazione concernente la prevalenza dell’attenuante in questione anche rispetto all’aggravante di cui all’art. 61, numero 10), cod. pen.; d) infine, l’attenuante prevista dall’art. 311 cod. pen. sarebbe strutturalmente inapplicabile al reato di cui all’art. 285 cod. pen.

Quanto al profilo sub a), nell’atto di intervento si evidenzia che il giudice rimettente si sarebbe limitato a considerare che la condotta degli imputati appare soddisfare i criteri indicati dall’art. 311 cod. pen. Si tratterebbe, ad avviso dell’Avvocatura, di una affermazione che poggia su un’evidente tautologia, risolvendosi, in definitiva, nella mera parafrasi degli elementi costitutivi dell’attenuante.

Del resto, come riferisce lo stesso rimettente, soltanto per un caso fortunato l’attentato non aveva provocato danni alle persone e aveva cagionato limitati danni alle cose.

In relazione al profilo di inammissibilità sub b), la difesa statale evidenzia che vi sarebbe una motivazione apparente e tautologica anche in relazione alla prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. rispetto alla recidiva reiterata.

L’ordinanza di rimessione non specificherebbe perché, ove non vi fosse il divieto di prevalenza della circostanza attenuante sulla recidiva di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen., l’attenuante della lieve entità di cui all’art. 311 cod. pen. possa ritenersi prevalente sull’aggravante costituita dalla recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Quanto all’ulteriore profilo di inammissibilità sub c), l’Avvocatura dello Stato sottolinea che difetterebbe, nell’ordinanza di rimessione, l’indicazione in merito alle ragioni della ritenuta prevalenza dell’attenuante (anche) rispetto all’aggravante di cui all’art. 61, numero 10), cod. pen.

Infine, quanto al profilo sub d), si sostiene, in radice, l’inapplicabilità dell’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. al reato di cui all’art. 285 cod. pen.

Secondo l’Avvocatura dello Stato, l’applicazione dell’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. porterebbe alla sostanziale eliminazione del reato di cui all’art. 285 cod. pen. per trasformarlo in altra e diversa fattispecie di reato di evento o di pericolo concreto.

Tale esito potrebbe configurarsi solo là dove oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale fosse stata direttamente la fattispecie di reato in questione, ma non già ove si intenda pervenire al medesimo effetto mediante la via surrettizia della declaratoria di illegittimità costituzionale della diversa norma di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen.

Vi sarebbe, invece, una incompatibilità strutturale dell’attenuante rispetto al reato di cui all’art. 285 cod. pen.

Tale fattispecie di reato prevede una anticipazione della tutela del bene protetto, sicché integra il reato già il solo fatto diretto a compiere la strage. Ipotizzare una strage di “lieve entità” in relazione ad una condotta in sé poco lesiva è una contraddizione logica prima ancora che giuridica: se un atto non è idoneo a compiere una strage, non può ricorrere l’ipotesi della “strage lieve”, ma semplicemente non si configura il delitto di strage.

2.2.– Quanto al merito delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, l’Avvocatura sostiene che le pronunce di questa Corte, indicate dal giudice rimettente per suffragare la necessità di addivenire al superamento del divieto del giudizio di bilanciamento delle circostanze attenuanti, anche per il delitto di strage di cui all’art. 285 cod. pen., in realtà non sarebbero pertinenti perché attengono a diverse fattispecie, non di pericolo presunto, né di previsione della pena fissa dell’ergastolo.

A tal riguardo, l’Avvocatura rileva che le dichiarazioni di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., sono relative a fattispecie di reato punite con una pena edittale non fissa, con possibilità per il giudice di graduare la severità della sanzione in relazione alla gravità del fatto; ipotesi del tutto esclusa, invece, per il delitto di cui all’art. 285 cod. pen., in cui il legislatore, prevedendo la pena edittale fissa dell’ergastolo, ha dato un segnale chiaro e inequivocabile circa la gravità della condotta.

Le citate pronunce non hanno censurato il divieto di bilanciamento previsto dall’art. 69, quarto comma, cod. pen., in sé e per sé considerato, ma hanno sempre valutato la legittimità di tale meccanismo in relazione a singole fattispecie di reato, come avvenuto nelle sentenze n. 117 del 2021 e n. 88 del 2019.

Anche nel caso del reato di cui all’art. 285 cod. pen., sarebbe evidente come la significativa e rilevante gravità della fattispecie di reato contestata (dal punto di vista della carica di offensività che essa manifesta e del valore del bene giuridico tutelato, confermato dalla previsione edittale della pena dell’ergastolo) venga a saldarsi – in maniera meritevole di particolare rilievo – con la specifica e pervicace pericolosità criminale che connota il soggetto agente (evidentemente attestata dal riconoscimento dell’aggravante della recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.), in tal modo rendendo ragionevole la scelta del legislatore di apprestare una tutela rafforzata del bene giuridico protetto dalla norma e di escludere – mediante la limitazione del giudizio di bilanciamento – la piena esplicazione dell’efficacia attenuante della circostanza di cui all’art. 311 cod. pen.

Ad avviso della difesa statale, l’attuale configurazione della norma è coerente con i principi di proporzionalità della pena e di rieducazione del condannato. L’estrema severità della pena comminata, la pena fissa dell’ergastolo, è conseguente alla particolare gravità del fatto, anche quando, come nella specie, per circostanze “fortunate”, non si sono determinate le conseguenze drammatiche in realtà perseguite dal responsabile.

Inoltre, sarebbe ragionevole la deroga al bilanciamento delle circostanze nell’ipotesi di recidiva reiterata, per il reato di cui all’art. 285 cod. pen. che prevede la pena fissa dell’ergastolo, in quanto il trattamento sanzionatorio è improntato alla massima gravità imposta dalla legge, che, come pena principale (e non come ipotesi aggravata) si riscontra nel codice penale italiano solo nelle fattispecie di cui agli artt. 242 e 276 cod. pen.; di cui all’art. 284 cod. pen., primo comma (per chi promuove e/o dirige l’insurrezione armata); nella fattispecie di cui all’art. 286 cod. pen., e infine nella fattispecie di cui all’art. 438 cod. pen.

In definitiva, l’Avvocatura osserva che proprio la previsione della pena fissa dell’ergastolo, senza possibilità di graduazione della pena a seconda della gravità del fatto o dell’evento previsto dalla fattispecie, dimostra la volontà del legislatore di escludere un giudizio di valutazione da parte del giudice circa l’intensità della gravità e quindi della colpevolezza del reo.

3.– Con atto del 23 febbraio 2023, si è costituito in giudizio A. C., chiedendo che le questioni siano dichiarate fondate.

In particolare, la difesa della parte, dopo aver indicato numerose pronunce di questa Corte, rileva che il loro tratto comune è costituito dal rilievo di circostanze attenuanti che esprimono l’esigenza di calibrare il trattamento sanzionatorio rispetto alla concreta portata offensiva di determinate condotte, in ossequio ai principi di uguaglianza, di offensività e di proporzionalità della risposta sanzionatoria penale in ottica rieducativa.

Ciò è stato affermato anche rispetto alle fattispecie di cui agli artt. 89 e 116 cod. pen. che concernono profili di più marcata valenza soggettiva.

Inoltre, secondo la difesa della parte, le ragioni sottese al riconosciuto giudizio di prevalenza dell’attenuante in esame sulla recidiva in relazione alla fattispecie di cui all’art. 630 cod. pen. (sentenza n. 143 del 2021), risulterebbero in modo ancora più imperioso rispetto all’art. 285 cod. pen. che prevede la pena fissa dell’ergastolo.

Nell’atto di costituzione, si osserva inoltre che il divieto di prevalenza della diminuente di cui all’art. 311 cod. pen., rispetto alla recidiva qualificata ai sensi del quarto comma dell’art. 99 cod. pen., in relazione al delitto di cui all’art. 285 cod. pen., non consente al giudice, nella determinazione della pena, il necessario adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale, con ciò frustrando irragionevolmente gli effetti che l’attenuante mira a realizzare e compromettendone la necessaria funzione di riequilibrio sanzionatorio.

Si determinerebbe, pertanto, la violazione dell’art. 27, comma terzo, Cost., nel suo valore fondante, in combinazione con l’art. 3 Cost., del principio di proporzionalità della pena al fatto concretamente commesso. Una pena palesemente sproporzionata e, dunque, inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato, vanifica la sua finalità rieducativa.

Evidente sarebbe, altresì, la violazione del principio di uguaglianza, in quanto l’applicazione di tale norma condurrebbe ad irrogare la medesima pena dell’ergastolo a violazioni di rilievo penale molto diverso.

4.– L’associazione Antigone ha depositato un’opinione, in qualità di amicus curiae, per sostenere le ragioni della fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, sottolineando, in particolare, che nel quadro di eccezionale severità sanzionatoria che, oltretutto, non differenzierebbe il delitto commesso da quello tentato, il riconoscimento della diminuente diventerebbe essenziale in termini analoghi a quanto rilevato nella sentenza n. 143 del 2021.

L’opinione è stata ammessa, ai sensi dell’art. 4, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti la Corte costituzionale, con decreto presidenziale del 15 marzo 2023.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 19 dicembre 2022, la Corte d’assise d’appello di Torino, sezione seconda, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui, relativamente al reato previsto dall’art. 285 cod. pen. (Devastazione, saccheggio e strage), non consente al giudice di ritenere la circostanza attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. (Circostanza diminuente: lieve entità del fatto), prevalente sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Le questioni sono sollevate nel giudizio di rinvio nel procedimento penale nei confronti di A. C. e di altra persona coimputata, conseguente alla sentenza della Corte di cassazione del 6 luglio-11 ottobre 2022, n. 38184, che ha parzialmente annullato la precedente pronuncia della Corte d’assise d’appello di Torino, sezione prima, limitatamente alla qualificazione del delitto di cui al capo F) dell’imputazione; delitto da ricondursi alla violazione non già dell’art. 422 cod. pen. (strage comune), come ritenuto dalla pronuncia impugnata, bensì dell’art. 285 cod. pen. (strage allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato).

Al giudice del rinvio è stata demandata la rideterminazione del trattamento sanzionatorio degli imputati.

1.1.– In particolare, il rimettente afferma che la disposizione censurata contrasterebbe con l’art. 3, primo comma, Cost., in riferimento alla violazione del principio di uguaglianza, in quanto determinerebbe l’applicazione della medesima pena dell’ergastolo a fatti di differente rilievo penale, equiparando sul piano sanzionatorio condotte che, se anche aggrediscono i medesimi beni giuridici, sono assolutamente diverse con riguardo agli indici previsti dall’art. 311 cod. pen. per la particolare tenuità del danno o del pericolo.

Sussisterebbe, altresì, il contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., in ragione della violazione del principio di offensività. La norma censurata, impedendo al giudice di applicare la diminuzione della pena derivante dalla prevalenza della circostanza attenuante prevista dall’art. 311 cod. pen., che ha una decisiva funzione riequilibratrice, non consentirebbe di adeguare la risposta sanzionatoria alla concreta capacità offensiva della condotta criminosa se il fatto è di lieve entità in relazione alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità o alle circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, finendo così con attribuire esclusivo rilievo alla pericolosità dell’agente, insita nell’applicazione della circostanza aggravante della recidiva reiterata.

Tale contrasto sarebbe ancora più evidente in relazione alla fattispecie in esame, in quanto il reato di cui all’art. 285 cod. pen. è sanzionato unicamente con la pena dell’ergastolo, con la conseguenza che dalla natura fissa di tale sanzione deriva l’impossibilità di qualsiasi adeguamento della pena al caso concreto che, per effetto del divieto di prevalenza censurato, viene punito esclusivamente con l’ergastolo.

In terzo luogo, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 27, terzo comma, Cost., perché l’applicazione della pena fissa dell’ergastolo non consente di adottare una pena proporzionata alla condotta in concreto tenuta dal reo, precludendo la possibilità di assicurare un trattamento sanzionatorio che tenda alla rieducazione del condannato.

2.– In via preliminare, occorre esaminare le plurime eccezioni di inammissibilità delle questioni prospettate dall’Avvocatura generale dello Stato che reputa l’ordinanza di rimessione carente di adeguata motivazione sulla rilevanza, in quanto meramente apodittica e comunque insufficiente; eccezioni contrastate dalla parte costituita in giudizio.

In particolare, la difesa dello Stato sostiene, in primo luogo, che l’affermazione relativa all’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. sarebbe apertamente contraddittoria e, per altro verso, tautologica; che meramente assertiva sarebbe, dal punto di vista argomentativo, la ritenuta prevalenza di detta circostanza sulla recidiva ex art. 99, quarto comma, cod. pen.; che del tutto omessa sarebbe, poi, la motivazione concernente la prevalenza dell’attenuante in questione anche rispetto all’aggravante di cui all’art. 61, primo comma, numero 10), cod. pen., pure contestata all’imputato per avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio.

In secondo luogo, si eccepisce la strutturale inapplicabilità dell’attenuante prevista dall’art. 311 cod. pen. al delitto di strage di cui all’art. 285 cod. pen., in ragione dell’intrinseca gravità del reato.

2.1.– Quest’ultima eccezione – che ha carattere pregiudiziale e che quindi va esaminata per prima – non può essere accolta.

A fronte del dato testuale univoco – secondo cui la diminuente configurata all’art. 311 cod. pen. si applica a tutti i reati previsti dal Titolo I del Libro II del codice penale (articoli da 241 a 300), ossia a tutti i delitti contro la personalità dello Stato – non sussistono indici, normativi e giurisprudenziali, a sostegno della prospettata non applicabilità della diminuente al reato di cui all’art. 285 cod. pen.

Il tenore letterale della disposizione – la cui portata rileva, peraltro, al fine dell’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, solo in termini di non implausibilità dell’interpretazione accolta dal giudice rimettente – appare difficilmente superabile, tanto più che l’Avvocatura rinviene, all’interno della stessa, una distinzione che è priva di riscontro testuale. L’inapplicabilità della diminuente di cui all’art. 311 cod. pen. al delitto previsto dall’art. 285 cod. pen. sarebbe – nella prospettazione dell’Avvocatura – solo parziale, perché concernerebbe unicamente l’ipotesi della strage e non anche quella della devastazione e del saccheggio in ragione della maggiore gravità della prima fattispecie.

Il delitto di strage allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato (art. 285 cod. pen.) è sicuramente un reato di estrema gravità, anche quando, in ipotesi, non sia stata cagionata la morte di alcuno. Pur se non ci sono né vittime né danni materiali, si perfeziona comunque il delitto di «strage» – in termini giuridici, anche se ciò non corrisponde al linguaggio corrente, che riserva il termine all’ipotesi di morte di più persone – essendo sufficiente l’idoneità della condotta a porre in pericolo l’incolumità delle persone; ossia della condotta riconducibile a «un fatto diretto a portare […] la strage nel territorio dello Stato».

Ma estremamente grave è anche il delitto di strage di cui all’art. 422 cod. pen., che si differenzia dalla strage ex art. 285 cod. pen. solo perché manca – o non è provato – lo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato.

Entrambi i reati sono puniti con l’ergastolo.

Non di meno il codice penale considera distintamente l’ipotesi della strage ex art. 422 cod. pen. anche quando non è cagionata la morte di alcuno, punendola diversamente dalla strage con l’uccisione di almeno una persona: pena perpetua dell’ergastolo, in quest’ultimo caso; reclusione non inferiore a quindici anni, nell’altro.

L’estrema gravità della strage non ha impedito, nell’art. 422 cod. pen., una pena diversa per l’ipotesi in cui non vi sia uccisione di persona alcuna.

Non può, quindi, dirsi – senza alcun conforto nel dato testuale della norma e, anzi, in frontale contrasto con la lettera dell’art. 311 cod. pen. – che l’estrema gravità del delitto di strage ex art. 285 cod. pen. privi ex se di alcuna rilevanza la eventualità della mancanza di vittime.

La sua natura di reato di pericolo a consumazione anticipata non esclude, infatti, che il concreto disvalore dei fatti riconducibili alla figura astratta di reato resti graduabile a seconda che la condotta del reo abbia, o meno, prodotto conseguenze lesive, e segnatamente abbia cagionato la morte di una o più persone, ovvero si sia arrestata alla soglia della messa in pericolo della loro vita.

Proprio per consentire alla pena di riflettere il concreto disvalore del fatto, il legislatore del 1930 ha previsto, anche nell’ambito di reati, pur gravissimi, quali i delitti contro la personalità dello Stato, la diminuente di cui all’art. 311 cod. pen., applicabile trasversalmente a tutti tali reati, e dunque anche alla strage di cui all’art. 285 cod. pen.

L’applicazione di tale circostanza al delitto in esame consente al giudice di non irrogare la pena dell’ergastolo nei casi che si collocano nella soglia inferiore della scala di gravità dei fatti riconducibili alla figura astratta del reato, in particolare per non avere cagionato la morte di alcuno. Tali fatti continuano, peraltro, ad essere puniti assai severamente, dal momento che, nel caso in cui venga riconosciuta la diminuente, ad essi risulterà applicabile, ai sensi dell’art. 65 cod. pen., la pena della reclusione da venti a ventiquattro anni, che è sensibilmente maggiore di quella (non inferiore a quindici anni di reclusione) prevista per la strage ex art. 422 cod. pen. che non abbia cagionato la morte di alcuno.

Pertanto, l’interpretazione del giudice rimettente deve ritenersi senz’altro non implausibile.

Del resto, quanto alla portata oggettiva della diminuente, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che «il parametro di valutazione ai fini dell’applicazione della circostanza attenuante ex art. 311 cod. pen. è costituito dalla effettiva gravità del fatto-reato con riguardo alle caratteristiche oggettive dell’azione» (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 22 febbraio-20 aprile 2017, n. 18981; vedi anche Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 20 ottobre-23 dicembre 1986, n. 14724).

2.2.– In relazione, poi, al primo gruppo di eccezioni deve considerarsi che il rimettente, nel descrivere il fatto, come accertato nei gradi di merito e ormai coperto dal giudicato, pone in rilievo il dato fattuale dell’assenza di danni alle persone e della sussistenza di limitati danni alle cose come conseguenza della condotta addebitata all’imputato; dato che, a suo avviso e nell’esercizio delle valutazioni che gli competono quale giudice del rinvio, renderebbe applicabile, anche in via prevalente, la diminuente di cui all’art. 311 cod. pen. sulla recidiva reiterata, con ciò adempiendo all’onere di motivazione della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale.

Il giudice rimettente non era tenuto ad una decisione anticipata sull’applicazione della diminuente e sulla sua prevalenza rispetto alla recidiva reiterata, ma doveva solo argomentare in termini di non implausibilità la ricorrenza dei presupposti della attenuante con conseguente necessità di comparazione, ai sensi dell’art. 69 cod. pen., con l’aggravante della recidiva reiterata e, quindi, di applicazione della disposizione censurata. Ciò ha fatto, con motivazione sufficiente, affermando che «avuto riguardo alle modalità con cui si è realizzato il reato ed alle conseguenze che da questo sono in concreto derivate, da valutarsi in rapporto all’entità della lesione arrecata ai beni-interessi tutelati dalla norma incriminatrice violata, la condotta [...] appare soddisfare i criteri indicati dall’art. 311 c.p.».

Secondo l’orientamento costante di questa Corte, infatti, la questione di legittimità costituzionale è ammissibile quando l’ordinanza di rimessione sia argomentata in modo da consentire il controllo “esterno” sulla rilevanza della questione attraverso una motivazione non implausibile del percorso logico compiuto e delle ragioni per le quali il rimettente afferma di dover applicare la disposizione censurata nel giudizio principale (ex plurimis, sentenze n. 237 e n. 149 del 2022, n. 259 del 2021).

A questa Corte non compete di spingersi, nell’odierna fattispecie, fino ad un esame autonomo degli elementi che integrano la diminuente suddetta. Una volta profilatasi la possibilità della sua applicazione – non implausibilmente ritenuta dal giudice rimettente in ragione della mancanza di vittime e della limitatezza dei danni materiali – viene in rilievo la disposizione censurata, che esclude la possibilità di una valutazione di prevalenza di tale attenuante sulla recidiva reiterata, con evidenti conseguenze sulla determinazione della pena, demandata al giudice del rinvio dalla pronuncia di annullamento parziale della Corte di cassazione. Valutazione questa che, se permane il divieto, è attualmente impedita ex lege dalla censurata disposizione derogatoria e che invece sarebbe consentita, secondo l’ordinaria regola del bilanciamento delle circostanze, se il divieto fosse rimosso con la pronuncia di illegittimità costituzionale richiesta dal giudice rimettente.

In ogni caso, vi è una chiara ed evidente incidenza sulla motivazione della decisione che il giudice del rinvio è chiamato ad adottare nel decidere in ordine al concorso di circostanze.

Ha, infatti, affermato questa Corte che «la rilevanza non coincide con l’utilità concreta – per una parte del giudizio a quo – della pronuncia di accoglimento, essendo invece sufficiente che essa eserciti un’influenza sul percorso argomentativo del giudice rimettente (ex multis, sentenze n. 202 e n. 157 del 2021)» (sentenza n. 19 del 2022).

Ciò vale anche in relazione all’eccepito difetto motivazionale in ordine al giudizio di prevalenza sulla circostanza aggravante di cui all’art. 61, primo comma, numero 10), cod. pen., contestata all’imputato. La ritenuta (dal rimettente) prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. sulla recidiva reiterata comporterebbe l’applicazione della regola giurisprudenziale del carattere unitario e inscindibile del giudizio di comparazione, nel senso che esso comprende tutte le circostanze del reato, aggravanti e attenuanti ravvisate (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 9-20 ottobre 2003, n. 39456). Sicché comunque il giudice rimettente dovrebbe fare applicazione della disposizione censurata.

2.3.– Pertanto, nessuna delle suddette eccezioni di inammissibilità, sollevate sotto il profilo della rilevanza delle questioni, può essere accolta.

Sussistendo poi nell’ordinanza una diffusa e ampiamente sufficiente motivazione in ordine al presupposto della non manifesta infondatezza delle questioni, queste risultano senz’altro ammissibili.

3.– Passando al merito, va innanzi tutto considerato – quanto al quadro normativo, nel quale si collocano le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’assise d’appello di Torino – che il delitto di «[d]evastazione saccheggio e strage» di cui all’art. 285 cod. pen. e la circostanza diminuente della «lieve entità del fatto» di cui all’art. 311 cod. pen. si rinvengono nel codice penale del 1930 con una formulazione rimasta sempre invariata, anche dopo le modifiche introdotte dalla legge 11 novembre 1947, n. 1317 (Modificazioni al Codice penale per la parte riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato), al Libro II del Titolo I, Capi II, IV e V del codice stesso.

Più specificamente, la fattispecie di cui all’art. 285 cod. pen. punisce la condotta di «[c]hiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso» e stabilisce come pena edittale quella perpetua dell’ergastolo, come tale fissa nel senso di non graduabile quanto alla sua natura e durata. Pena, quest’ultima, introdotta in sostituzione di quella della morte, abolita per tutti i delitti previsti dal codice penale dall’art. 1 del d.lgs.lgt. n. 224 del 1944.

Accanto alla fattispecie in esame, nell’ambito del medesimo Titolo I, sono punite con la pena edittale fissa dell’ergastolo ulteriori fattispecie di reato ed in particolare le condotte di cui agli artt. 242 (Cittadino che porta le armi contro lo Stato italiano), 276 (Attentato contro il Presidente della Repubblica), 284 (Insurrezione armata contro i poteri dello Stato) e 286 (Guerra civile). Inoltre, la pena edittale fissa dell’ergastolo è prevista anche in relazione al delitto di «Epidemia» di cui all’art. 438.

Con specifico ed esclusivo riferimento ai delitti contro la personalità dello Stato, il codice penale prevede – come già ricordato – la diminuente della lieve entità del fatto che, ai sensi dell’art. 311, ricorre quando «per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità»; in tal caso le pene comminate per i delitti indicati sono diminuite.

La diminuzione di pena, non essendo specificamente stabilita dalla disposizione che la prevede, risponde al criterio dettato dall’art. 65 cod. pen., con la conseguenza che alla «pena dell’ergastolo è sostituita la reclusione da venti a ventiquattro anni».

4.– La disposizione censurata è contenuta nell’art. 69 cod. pen. che detta il regime del concorso delle circostanze aggravanti e attenuanti, considerando distinte ipotesi: a) quando concorrono insieme circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, e le prime sono dal giudice ritenute prevalenti, non si tiene conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti, e si fa luogo soltanto agli aumenti di pena stabiliti per le circostanze aggravanti (primo comma); b) se le circostanze attenuanti sono ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti, non si tiene conto degli aumenti di pena stabiliti per queste ultime, e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti (secondo comma); c) se fra le circostanze aggravanti e quelle attenuanti il giudice ritiene che vi sia equivalenza, si applica la pena che sarebbe inflitta se non concorresse alcuna di dette circostanze (terzo comma).

È questo il tipico bilanciamento delle circostanze rimesso alla valutazione del giudice chiamato a dimensionare la pena calibrandola secondo le peculiarità del caso concreto; bilanciamento nel quale un ruolo speciale giocano le circostanze attenuanti generiche per la loro atipicità. Infatti esse – introdotte nell’immediato dopo guerra dall’art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288 (Provvedimenti relativi alla riforma della legislazione penale), per mitigare trasversalmente il rigore del codice penale del 1930 – rilevano sul solo presupposto, ampiamente discrezionale, che siano valutate dal giudice come «tali da giustificare una diminuzione della pena».

La regola generale del bilanciamento di circostanze del reato è stata modificata, nella parte che rileva ai fini delle sollevate questioni, dalla legge n. 251 del 2005, che all’art. 3 ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 cod. pen. in questi termini: «Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, nonché dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero 4), per cui vi è divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti, ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato».

In tal modo, è stato introdotto il censurato divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti quando ricorre l’aggravante della recidiva reiterata.

La stessa legge ha, poi, previsto plurime modifiche al codice penale, segnatamente con riferimento alla disciplina della recidiva e delle circostanze del reato. In particolare, l’art. 4 ha sostituito l’art. 99 cod. pen., ridefinendo, in termini di maggior rigore, le varie ipotesi di recidiva, in controtendenza rispetto al decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220, che già all’epoca aveva sostituito tale disposizione nel testo del codice del 1930 al fine, invece, di attenuare il rigore di quest’ultimo.

L’intervento riformatore del 1974 non solo aveva ridotto gli incrementi di pena per le varie ipotesi di recidiva, ma anche li aveva resi facoltativi, prevedendo che il giudice «può» aumentare la pena in tutte le ipotesi di recidiva: da quella semplice (fino a un sesto) a quella reiterata specifica (fino a due terzi). Coerentemente era stata abrogata la disposizione del codice che prevedeva i casi di recidiva facoltativa (art. 100), a fronte dell’obbligatorietà della recidiva di cui al precedente art. 99.

Con la legge n. 251 del 2005 sono stati sensibilmente aumentati gli incrementi di pena in tutte le ipotesi di recidiva, anche oltre quelli previsti dall’originario art. 99 nel testo del codice del 1930: da quella semplice (aumento di un terzo) a quella reiterata specifica (aumento di due terzi).

In particolare, l’ipotesi della recidiva reiterata, sia semplice (quella del recidivo che commette un altro delitto non colposo), sia specifica (quella del recidivo che commette un altro delitto della stessa indole, oppure ciò fa nei cinque anni dalla condanna precedente, o durante o dopo l’esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena), ha visto l’aumento di pena elevato rispettivamente a metà e a due terzi (mentre prima era «fino» a metà e «fino» a due terzi).

5.– Investita da numerose questioni di legittimità costituzionale, questa Corte (sentenza n. 192 del 2007) le ha dichiarate inammissibili per mancata sperimentazione dell’interpretazione adeguatrice da parte dei giudici rimettenti.

Ha osservato questa Corte che le sollevate questioni si fondavano sul presupposto implicito che, a seguito della legge n. 251 del 2005, la recidiva reiterata fosse divenuta obbligatoria e non potesse essere discrezionalmente esclusa dal giudice – quantomeno agli effetti della commisurazione della pena – in correlazione alle peculiarità del caso concreto.

Ma questa non era l’unica lettura astrattamente possibile: «la nuova formula normativa potrebbe essere letta anche nel diverso senso che l’indicativo presente “è” si riferisca, nella sua imperatività, esclusivamente alla misura dell’aumento di pena conseguente alla recidiva pluriaggravata e reiterata – aumento che, a differenza che per l’ipotesi della recidiva aggravata, di cui al secondo comma dell’art. 99 cod. pen., il legislatore del 2005 ha voluto rendere fisso, anziché variabile tra un minimo e un massimo – lasciando viceversa inalterato il potere discrezionale del giudice di applicare o meno l’aumento stesso». Ed ha aggiunto questa Corte: «allorché la recidiva reiterata concorra con una o più attenuanti, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento – soggetto al regime limitativo di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. – unicamente quando, sulla base dei criteri dianzi ricordati, ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; mentre, in caso contrario, non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo con ciò esclusa la censurata elisione automatica delle circostanze attenuanti».

Insomma, era possibile interpretare l’art. 99, quarto comma, cod. pen., nel senso che la recidiva reiterata, divenuta facoltativa a seguito del d.l. n. 99 del 1974, come convertito, era rimasta tale anche dopo la legge n. 251 del 2005 che contemplava testualmente come obbligatoria solo la particolare (e più specifica) recidiva reiterata di cui al quinto comma dell’art. 99 cod. pen.

È questo anche l’approdo della successiva giurisprudenza di legittimità: è consentito al giudice negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non applicando il relativo aumento della sanzione (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenze 24 febbraio-24 maggio 2011, n. 20798 e 27 maggio-5 ottobre 2010, n. 35738).

Rimaneva sottratta a tale interpretazione solo la recidiva reiterata del quinto comma dell’art. 99 cod. pen., quella che ricorre quando si tratta di uno dei delitti indicati all’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale e che – oltre a comportare un aumento di pena ancora maggiore – era testualmente prevista come obbligatoria. Ma successivamente anche tale ipotesi specifica è venuta meno allorché questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione limitatamente alle parole «è obbligatorio e,» (sentenza n. 185 del 2015). In particolare, è stato posto in rilievo che l’automatismo sanzionatorio introdotto dalla norma censurata – ossia l’obbligatorietà dell’aumento di pena per la recidiva reiterata specifica del quinto comma dell’art. 99 cod. pen. – non si giustificava, contrastando esso con il principio di ragionevolezza perché parificava situazioni personali e ipotesi di recidiva tra loro diverse, in violazione dell’art. 3 Cost. Inoltre «[l]a preclusione dell’accertamento della sussistenza nel caso concreto delle condizioni che dovrebbero legittimare l’applicazione della recidiva può rendere la pena palesemente sproporzionata, e dunque avvertita come ingiusta dal condannato, vanificandone la finalità rieducativa prevista appunto dall’art. 27, terzo comma, Cost.».

Si è così anche consolidata l’interpretazione alla quale era pervenuta la giurisprudenza di legittimità: se non è obbligatoria l’ipotesi più grave di recidiva, quella del quinto comma dell’art. 99 cod. pen., a maggior ragione non lo sono le altre previste dai commi precedenti e quindi al giudice è sempre consentito «negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non applicando il relativo aumento della sanzione» (ancora, sentenza n. 185 del 2015).

6.– Pertanto, la connotazione peculiare della circostanza aggravante della recidiva reiterata, come modificata dalla legge n. 251 del 2005, risiede nel rigido automatismo del divieto di prevalenza di qualsiasi circostanza attenuante a fronte della persistente non obbligatorietà della sua applicazione.

Nella legge n. 251 del 2005 è rimasto, infatti, a valle della pur non obbligatorietà di ogni fattispecie di recidiva, un effetto inequivocabilmente automatico, quello censurato oggi dal giudice rimettente. La recidiva reiterata del quarto comma dell’art. 99 cod. pen. per un verso può (non necessariamente deve) comportare un aumento di pena maggiore che in passato, ma per l’altro determina, come effetto automatico appunto, il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti.

Infatti, l’art. 3 della legge n. 251 del 2005 – come già rilevato – ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 cod. pen. (disposizione censurata) prevedendo che per alcune aggravanti nominate – la recidiva reiterata del quarto comma dell’art. 99 cod. pen., l’aver determinato al reato una persona non imputabile o non punibile, o un minore di anni diciotto o una persona in stato di infermità o di deficienza psichica – ci sia il «divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti».

Invece, per tutte le altre circostanze – anche quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o determina la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato – si applica l’ordinaria disciplina del concorso di circostanze aggravanti e attenuanti prevista dai primi tre commi dello stesso art. 69.

Il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti su quella aggravante della recidiva reiterata connota quest’ultima come circostanza aggravante dotata di forza maggiore, che si iscrive nel novero di quelle cosiddette “privilegiate”.

Il sistema penale conosce varie ipotesi di circostanze aggravanti per le quali vale il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti o finanche, più radicalmente, l’esclusione del giudizio di comparazione tra circostanze.

Quanto al divieto di prevalenza di circostanze attenuanti o al divieto di bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 cod. pen. (cosiddette circostanze “privilegiate”), «[h]a affermato questa Corte (sentenza n. 38 del 1985) che “[n]ell’art. 69 cod. pen. […] l’obbligatorietà del giudizio di bilanciamento ha una sua razionalità nell’essenza stessa di quella valutazione, che è giudizio di valore globale del fatto”. Ma il legislatore può sospendere l’applicazione dell’art. 69 cod. pen., togliendo al giudice il potere discrezionale di operare il bilanciamento a compensazione delle aggravanti o a favore delle attenuanti in un’ottica di inasprimento sanzionatorio. Si tratta di una “grave limitazione” che in sé non è illegittima, ma non può accompagnarsi anche alla irrilevanza ex lege delle circostanze attenuanti. Con questa limitazione, si è quindi riconosciuto che appartiene alla discrezionalità del legislatore introdurre speciali ipotesi di circostanze aggravanti privilegiate che sono sottratte al bilanciamento di cui all’art. 69 cod. pen.» (sentenza n. 88 del 2019).

Una clausola di esclusione della comparazione è stata prevista dall’art. 416-bis.1 cod. pen. (Circostanze aggravanti e attenuanti per reati connessi ad attività mafiose).

Anche con riguardo all’aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico di cui all’art. 270-bis.1 cod. pen. si ha che le circostanze attenuanti non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti.

In riferimento al “nuovo” reato di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi e gravissime, un divieto di bilanciamento è previsto dall’art. 590-quater cod. pen. quando ricorrono le circostanze aggravanti di cui agli artt. 589-bis, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, 589-ter, 590-bis, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, e 590-ter cod. pen.

Più recentemente, l’art. 5, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 1° marzo 2018, n. 21, recante «Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103», ha introdotto l’art. 69-bis cod. pen., che prevede, per i delitti di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), numeri da 1) a 6), cod. proc. pen., un divieto di bilanciamento di circostanze aggravanti e attenuanti nell’ipotesi in cui chi ha determinato altri a commettere il reato, o si è avvalso di altri nella commissione del delitto, ne è il genitore esercente la responsabilità genitoriale ovvero il fratello o la sorella, aggiungendo che le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti.

Quindi vi sono varie circostanze “privilegiate”, quelle alle quali il legislatore ha riservato un regime derogatorio dell’ordinario bilanciamento di cui all’art. 69 cod. pen.

7.– In questo panorama di aggravanti “privilegiate”, il divieto di prevalenza delle attenuanti con riguardo alla recidiva reiterata si presenta come particolare perché l’automatismo di tale esclusione si innesta sulla mancanza di automatismo dell’applicazione dell’aumento di pena.

Il giudice deve innanzi tutto accertare, con discrezionalità valutativa, se sussistono i presupposti per applicare l’aumento di pena per la recidiva reiterata, verificando, in concreto, se le precedenti condanne abbiano reso la persona maggiormente incline a commettere un ulteriore reato.

È questo un accertamento distinto rispetto alla (logicamente successiva) valutazione di proporzionalità della pena irrogabile ove sia in concreto applicabile l’aumento per la recidiva. In particolare, quanto all’ipotesi della recidiva reiterata, solo se il giudice ritiene che debba in concreto applicare l’aumento di pena per tale circostanza aggravante, allora scatta l’automatismo dell’esclusione della prevalenza di qualsivoglia (eventualmente) concorrente circostanza attenuante.

Questa preliminare valutazione, pur discrezionale, è ben distinta da quella che, in seguito, in caso di condanna dell’imputato, il giudice è chiamato a fare per stabilire la pena proporzionata al reato accertato.

Diversamente nel caso oggetto del giudizio a quo – come mette in rilievo il rimettente – si ha che, dopo la pronuncia di annullamento della Corte di cassazione, non sono più in discussione né la qualificazione giuridica dei reati contestati (e innanzi tutto quello, più grave, di cui all’art. 285 cod. pen.), né il giudizio di penale responsabilità, in particolare, dell’imputato, né la sua condizione di recidivo reiterato ai sensi dell’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Si è formato un giudicato interno sull’operatività dell’aggravante costituita dalla recidiva reiterata, la cui originaria non obbligatorietà non può più rilevare, e ciò fa scattare l’automatismo dell’esclusione della prevalenza delle attenuanti.

La riqualificazione del reato da parte della Corte di cassazione – strage “politica” ex art. 285 cod. pen. (punita con l’ergastolo) e non già strage “comune” ex art. 422 cod. pen. senza uccisione di persone (punita con la reclusione non inferiore a quindici anni) – comporta, quindi, il necessario dispiegarsi dell’automatismo recato dalla disposizione censurata: anche nel concorso di circostanze attenuanti il giudice non può che irrogare la pena edittale fissa dell’ergastolo.

8.– La tenuta costituzionale di questo automatismo, insito nel divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti, non poteva che misurarsi con i principi di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), di offensività della condotta del reo (art. 25, secondo comma, Cost.) e della necessaria proporzionalità della pena tendente alla rieducazione del condannato (art. 27, terzo comma, Cost.), pur nel contesto della generale non obbligatorietà della recidiva, che non attenua la portata del divieto stesso, ma anzi lo fa apparire, già per ciò solo, eccedente se non proprio contraddittorio.

Questa Corte ha ripetutamente fatto tale verifica di legittimità costituzionale con riferimento a singoli reati e a specifiche circostanze attenuanti e il divieto di prevalenza delle attenuanti sull’aggravante della recidiva reiterata è già stato più volte dichiarato costituzionalmente illegittimo con riferimento a specifiche circostanze diminuenti e a singoli reati.

8.1.– Con la sentenza n. 143 del 2021, che ha avuto ad oggetto la preclusione introdotta dalla disposizione censurata proprio con riferimento alla medesima diminuente di cui all’art. 311 cod. pen., questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della diminuente del fatto di lieve entità – introdotta con sentenza n. 68 del 2012 di questa Corte, in relazione al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, di cui all’art. 630 cod. pen. – sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

La «funzione di necessario riequilibrio del trattamento sanzionatorio» riconosciuta alla diminuente del «fatto di lieve entità» si è posta come essenziale perché il giudice possa individuare una pena proporzionata anche in relazione a condotte meno gravi di quelle avute di mira dal legislatore che, con la legge 30 dicembre 1980, n. 894 (Modifiche all’articolo 630 del codice penale), ha modificato il trattamento sanzionatorio del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, stabilendo la pena della reclusione da venticinque a trent’anni.

Mette conto ricordare anche che, nella precedente sentenza n. 68 del 2012, questa Corte – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen., nella parte in cui non prevedeva «che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità» – ha affermato, con riferimento all’art. 311 cod. pen., che la peculiare funzione di questa attenuante, «rientrante nel novero delle circostanze cosiddette indefinite o discrezionali (non avendo il legislatore meglio precisato il concetto di “lievità” del fatto) [...] consiste propriamente nel mitigare – in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno o del pericolo) – una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale».

8.2.– La richiamata sentenza n. 143 del 2021 è stata preceduta da numerose altre pronunce, tutte dichiarative, in linea di continuità, dell’illegittimità costituzionale parziale della stessa disposizione attualmente censurata dal giudice rimettente (l’art. 69, quarto comma, cod. pen.).

Con la sentenza n. 251 del 2012, questa Corte – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di tale disposizione nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) – ha, tra l’altro, affermato che le differenze quantitative delle comminatorie edittali dei commi 1 e 5 del citato art. 73 rispecchiano le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie sul piano dell’offensività; in particolare, il trattamento sanzionatorio decisamente più mite, assicurato al fatto di “lieve entità”, esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, la quale «indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato».

Ed ha aggiunto che «[d]ue fatti, quelli previsti dal primo e dal quinto comma dell’art. 73, che lo stesso assetto legislativo riconosce come profondamente diversi sul piano dell’offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, e ciò “determina un contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 25, secondo comma, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità penale” (sentenza n. 249 del 2010)».

Analogamente, con riferimento alla stessa disciplina degli stupefacenti, questa Corte, con la sentenza n. 74 del 2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della medesima disposizione nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui al successivo comma 7 del medesimo art. 73. La rigida presunzione di capacità a delinquere desunta dall’esistenza di una recidiva reiterata «è inadeguata ad assorbire e neutralizzare gli indici contrari, che possono desumersi, a favore del reo, dalla condotta susseguente, con la quale la recidiva reiterata non ha alcun necessario collegamento»; condotta di chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori.

Parimenti, nella sentenza n. 105 del 2014, questa Corte ha affermato che la disposizione censurata, nel precludere relativamente al reato di ricettazione la prevalenza dell’attenuante del fatto di «particolare tenuità» sulla recidiva reiterata, determina conseguenze manifestamente irragionevoli sul piano sanzionatorio per la riconducibilità alla medesima cornice edittale di due fatti che lo stesso legislatore riconosce come profondamente diversi sul piano dell’offesa, dal momento che «[l]e differenti comminatorie edittali del primo e del secondo comma dell’art. 648 cod. pen. rispecchiano le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul piano dell’offensività».

Principi analoghi sono alla base della sentenza n. 106 del 2014, in relazione al divieto di prevalenza della circostanza attenuante concernente i «casi di minore gravità» di violenza sessuale cui all’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen. Tale circostanza attenuante si pone «quale temperamento degli effetti della concentrazione in un unico reato di comportamenti, tra loro assai differenziati, che comunque incidono sulla libertà sessuale della persona offesa, e della conseguente diversa intensità della lesione dell’oggettività giuridica del reato».

Nella sentenza n. 205 del 2017, la dichiarazione di illegittimità costituzionale ha riguardato la circostanza attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), concernente il «danno patrimoniale di speciale tenuità» cagionato alla massa dei creditori per i reati di bancarotta fraudolenta, bancarotta semplice e ricorso abusivo al credito. Si è riconosciuto che il trattamento sanzionatorio, significativamente più mite, assicurato ai fatti di bancarotta che hanno determinato un danno patrimoniale di particolare tenuità, «esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato».

Inoltre, in relazione al divieto di prevalenza dell’attenuante del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen., questa Corte, nella sentenza n. 73 del 2020, ha affermato che esso impedisce al giudice di determinare una pena proporzionata rispetto alla concreta gravità oggettiva e soggettiva del reato, e pertanto adeguata al grado di responsabilità «personale» e rimproverabilità del suo autore, «non consentendo di tenere adeguatamente conto [...] della minore possibilità di essere motivato dalle norme di divieto da parte di chi risulti affetto da patologie o disturbi della personalità che, seppur non escludendola del tutto, diminuiscano grandemente la sua capacità di intendere e di volere», come invece previsto dalla circostanza attenuante indicata, «riconducibile a un connotato di sistema di un diritto penale “costituzionalmente orientato”».

Nell’esaminare la fattispecie del cosiddetto concorso anomalo di cui all’art. 116, primo comma, cod. pen. – che prevede lo stesso titolo di responsabilità per il reato, diverso da quello voluto con l’accordo delittuoso, commesso da altro correo, parificando così a quest’ultimo la posizione del concorrente che non ha voluto il fatto-reato – questa Corte, nella sentenza n. 55 del 2021, ha affermato che la diminuente di cui al secondo comma dell’art. 116 cod. pen. vale proprio ad operare la necessaria diversificazione quanto alla dosimetria della pena, in quanto «[i]l trattamento sanzionatorio non può essere pienamente parificato quando il reato commesso sia più grave di quello voluto», per cui «la pena per il correo che risponde a titolo di colpa di un reato doloso più grave di quello voluto è necessariamente riequilibrata mediante l’operatività della diminuente».

9.- Tutto ciò premesso, le sollevate questioni di legittimità costituzionale, inquadrate in questo contesto normativo (punti da 3 a 7) e giurisprudenziale (punto 8 e seguenti), sono fondate in riferimento a tutti i parametri evocati dal giudice rimettente.

10.– Come si è ricordato, il divieto di prevalenza delle attenuanti in caso di recidiva reiterata, recato dalla disposizione censurata, è già stato dichiarato costituzionalmente illegittimo più volte. Si è trattato di pronunce tutte relative a distinti reati e a specifiche circostanze attenuanti (in rassegna al punto 8), ma alle quali sono sottese rationes decidendi riconducibili a principi comuni, declinati lungo una triplice direttrice, i quali – come si dirà – sono decisivi al fine della valutazione di fondatezza delle questioni, in linea di continuità con tali precedenti.

10.1.– La prima condivisa ratio decidendi attiene alla particolare ampiezza della divaricazione tra la pena base prevista per il reato non circostanziato e quella risultante dall’applicazione dell’attenuante; divaricazione che, per essere compatibile con i principi di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), di offensività della condotta penale (art. 25, secondo comma, Cost.) e di proporzionalità della pena tendente alla rieducazione del condannato (art. 27, terzo comma, Cost.), richiede necessariamente che il giudice possa operare l’ordinario giudizio di bilanciamento delle circostanze (art. 69 cod. pen.), senza che sia preclusa la valutazione di prevalenza dell’attenuante sulla recidiva reiterata.

La deroga al giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee, insita nel divieto recato dalla disposizione censurata, determina, in questi casi, una «alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale» (sentenza n. 251 del 2012), perché finisce per comportare l’applicazione di pene identiche per violazioni di rilievo penale marcatamente diverso.

L’affermazione di tale principio si rinviene già nella pronuncia appena richiamata, concernente le violazioni «di lieve entità» della disciplina degli stupefacenti, per le quali l’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, recante l’attenuante in questione, prevedeva la pena della reclusione da uno a sei anni (oltre la multa) a fronte di una pena edittale, per il reato non circostanziato, della reclusione da sei a venti anni (oltre la multa). Questa Corte ha evidenziato l’«enorme divaricazione delle cornici edittali» stabilite dal legislatore per il reato circostanziato dalla diminuente e per la fattispecie base prevista dal comma 1 della disposizione citata, con l’effetto di «un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato».

Quanto allo stesso reato, considerazioni analoghe sono state fatte da questa Corte (sentenza n. 74 del 2016) con riferimento alla circostanza attenuante ad effetto speciale, prevista dal comma 7 del medesimo art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, che comporta una marcata diminuzione della pena (dalla metà a due terzi) per chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori.

Alla stessa ragione del decidere è riconducibile anche la sentenza n. 105 del 2014 relativa alla ricettazione «di particolare tenuità» (art. 648, secondo comma, cod. pen.). Il minimo della pena detentiva previsto per il fatto di particolare tenuità (15 giorni di reclusione) veniva elevato a due anni, determinando così, a causa del divieto di prevalenza delle attenuanti di cui alla disposizione censurata, un trattamento sanzionatorio «irragionevolmente severo».

La coeva sentenza n. 106 del 2014 ha riguardato i casi di violenza sessuale di «minore gravità», per i quali l’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen., prevede una pena della reclusione (da un anno e otto mesi a tre anni e quattro mesi) sensibilmente inferiore a quella relativa al reato non circostanziato (reclusione da cinque a dieci anni).

Il divieto di prevalenza delle attenuanti finiva per attribuire alla risposta punitiva i connotati di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato».

Analoga divaricazione sproporzionata è stata ritenuta (sentenza n. 205 del 2017) con riferimento al reato di bancarotta fraudolenta, punito con la pena edittale che va da tre a dieci anni di reclusione, pena che, per effetto dell’attenuante prevista per il caso di «danno patrimoniale di speciale tenuità», può essere ridotta nel minimo fino a un anno.

Particolarmente significativa per le questioni attualmente in esame è – come già rilevato – la sentenza n. 143 del 2021 che, con riferimento proprio all’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen., ha posto in rilievo che la funzione di tale diminuente, pur comune e non già ad effetto speciale, «consiste propriamente nel mitigare – in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno o del pericolo) – una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale».

In definitiva, in tutte queste fattispecie è stata riconosciuta alle singole attenuanti, anche non ad effetto speciale, una necessaria funzione riequilibratrice del marcato divario tra una pena particolarmente elevata per il reato base a fronte di quella che altrimenti risulterebbe dall’applicazione dell’attenuante; funzione che, per il rispetto dei principi costituzionali di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), di offensività della condotta sanzionata penalmente (art. 25, secondo comma, Cost.) e di proporzionalità della pena tendente alla rieducazione del condannato (art. 27, terzo comma, Cost.), non può essere compromessa dal divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata recato dalla disposizione censurata.

10.2.– Inoltre, ancora sotto il profilo oggettivo, nei precedenti richiamati, è stata rilevante, come ragione del decidere, la considerazione che alcune attenuanti sono accomunate dall’esigenza di bilanciare la particolare ampiezza della fattispecie del reato non circostanziato che accomuna condotte marcatamente diverse, e che necessitano di essere differenziate nella determinazione del trattamento sanzionatorio.

Lo spaccio di lieve entità (art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990) costituisce condotta certamente meno grave del traffico di stupefacenti, tipico del reato non circostanziato di cui al comma 1 della stessa disposizione, tanto che in seguito esso è stato previsto come fattispecie autonoma di reato.

Anche le condotte di atti sessuali di «minore gravità» – in passato riconducibili agli atti di libidine violenti o alle molestie, ma ricompresi, a seguito della riforma del 1996 (legge 15 febbraio 1996, n. 66, recante «Norme contro la violenza sessuale»), nel reato, ad ampio spettro, di violenza sessuale – richiedono la necessaria funzione riequilibratrice dell’attenuante ad effetto speciale del terzo comma dell’art. 609-bis cod. pen.

10.3.– Sotto il profilo soggettivo, infine, una ulteriore ratio decidendi è rinvenibile in quelle pronunce che hanno riguardato attenuanti strettamente legate al carattere personale della responsabilità penale.

Si tratta di circostanze attenuanti espressive non già, sul piano oggettivo, di una minore offensività del fatto rispetto agli interessi protetti dalla norma penale, né di una finalità premiale rispetto a condotte post delictum, quanto piuttosto della ridotta rimproverabilità soggettiva dell’autore.

La circostanza attenuante del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen. si fonda sul minore grado di discernimento, da parte dell’autore che versi in tale condizione, circa il disvalore della sua condotta e sulla minore capacità di controllo dei suoi impulsi, in ragione delle patologie o disturbi che lo affliggono; di qui, la ridotta rimproverabilità soggettiva. Con riferimento ad essa, questa Corte ha affermato che il «principio di proporzionalità della pena desumibile dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. esige insomma, in via generale, che al minor grado di rimproverabilità soggettiva corrisponda una pena inferiore rispetto a quella che sarebbe applicabile a parità di disvalore oggettivo del fatto» (sentenza n. 73 del 2020).

Anche la circostanza attenuante di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen., che contempla l’ipotesi in cui il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, prevedendo che quest’ultimo ne risponde se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione, svolge la «funzione di necessario riequilibrio del trattamento sanzionatorio» (sentenza n. 55 del 2021). La pena per il correo, che risponde a titolo di colpa di un reato doloso più grave di quello voluto, è necessariamente riequilibrata mediante l’operatività di tale diminuente che «concorre a sorreggere la tenuta costituzionale di questa eccezionale fattispecie di responsabilità penale»; riequilibrio che non può essere compromesso dal divieto di prevalenza delle attenuanti previsto dalla disposizione censurata.

11.– Orbene, queste ragioni del decidere (sub punti da 10.1. a 10.3.), che reclamano l’ordinario giudizio di bilanciamento delle circostanze attenuanti pur in presenza della recidiva reiterata, ricorrono tutte, e in maggior grado, nell’ipotesi in cui il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti comporta che l’unica pena irrogabile è l’ergastolo, quale che sia stata la condotta dell’imputato, rientrante in quella prevista dall’art. 285 cod. pen. come strage (ma, beninteso, ciò vale anche quando il divieto opera in riferimento alle condotte di devastazione o saccheggio, previste anch’esse dalla stessa disposizione).

Il divario tra la pena edittale e quella che, in assenza del contestato divieto, sarebbe irrogabile ove ricorra una circostanza attenuante dal giudice valutata come prevalente sulla recidiva reiterata, risulta qui particolarmente elevato: in luogo di una pena perpetua, quale l’ergastolo, sarebbe possibile applicare, sempre che il giudice ritenga prevalente l’attenuante, la pena temporanea della reclusione da venti a ventiquattro anni (art. 65 cod. pen.).

Quest’ultima è calibrata sul fatto e sulle sue peculiarità, nonché sulla persona dell’imputato ai sensi dell’art. 133 cod. pen., pur con le limitazioni contenute ora, per effetto ancora della legge n. 251 del 2005, nel secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen.

Invece la pena edittale (l’ergastolo) non è graduabile quanto alla durata, proprio perché è perpetua e tale è nel momento in cui viene irrogata con sentenza passata in giudicato; in quel momento la prospettiva per il condannato è una pena che non ha mai fine.

È vero che questa Corte ha rinvenuto nella disciplina dell’esecuzione della pena istituti che consentono di escludere, nella fase dell’espiazione, il carattere di irrimediabile perpetuità della stessa come restrizione “senza speranza”, sottolineando che si tratta di «istituti che si caratterizzano come concettualmente antagonisti rispetto alla perpetuità della pena» (sentenza n. 168 del 1994).

In proposito, la sentenza n. 264 del 1974 ha affermato che al condannato alla pena perpetua non è preclusa la possibilità di un rientro nella società tramite la liberazione condizionale. Infatti, il beneficio è concedibile – dal giudice e non più per concessione del Ministro della giustizia (sentenza n. 204 del 1974) – anche ai condannati alla pena perpetua quando abbiano scontato almeno ventisei anni di reclusione; beneficio che si accompagna comunque al rispetto degli obblighi della libertà vigilata per la durata di cinque anni affinché la pena dell’ergastolo possa alla fine estinguersi e quindi risultare, in concreto ed ex post, non essere stata perpetua.

Anche recentemente, questa Corte (sentenza n. 66 del 2023 e ordinanza n. 97 del 2021) ha ribadito il ruolo dell’istituto della liberazione condizionale quale garanzia di compatibilità della pena dell’ergastolo di cui all’art. 22 cod. pen. con il principio di risocializzazione presidiato dall’art. 27 Cost., sottolineando che la liberazione condizionale è l’unico istituto che, in virtù della sua esistenza nell’ordinamento, rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo.

Altre pronunce poi convergono nella stessa direzione, rafforzando la prospettiva della liberazione condizionale (sentenze n. 253 del 2019, n. 161 del 1997 e n. 274 del 1983).

Tuttavia va considerato che, pur con il riconoscimento di queste tutele, tese a rafforzare il processo rieducativo finalizzato al “sicuro ravvedimento”, quale presupposto della liberazione condizionale del condannato all’ergastolo dopo l’espiazione di non meno di ventisei anni di reclusione (art. 176 cod. pen.), il fossato che, come divario sanzionatorio, esiste tra la pena perpetua, al momento della sua irrogazione, ed una temporanea, è radicalmente maggiore di ogni squilibrio considerato dalla giurisprudenza per dichiarare, nelle plurime richiamate fattispecie (sub punto 10 e seguenti), l’illegittimità costituzionale del censurato divieto di prevalenza delle attenuanti.

12.– Oltre a questo particolare rigore sanzionatorio, c’è un’ulteriore concorrente esigenza di “riequilibrio” per essere la pena dell’ergastolo prevista dall’art. 285 cod. pen., non solo molto più afflittiva di ogni pena temporanea, ma anche irrogata in riferimento ad una condotta ad ampio spettro – tale è il compimento di «un fatto diretto a portare […] la strage nel territorio dello Stato» - e che eccezionalmente è a consumazione anticipata, nel senso che il reato si perfeziona quando è posta in essere tale condotta senza richiedere che si verifichi la lesione dell’integrità fisica di persone, tant’è che non è ipotizzabile, a differenza degli altri reati, un tentativo di strage; ciò perché il “tentativo” di strage è già strage consumata.

13.– Soprattutto, poi, nella fattispecie in cui concorre l’aggravante della recidiva reiterata, la pena edittale dell’ergastolo risulta essere non solo “fissa”, ma anche unica e “indefettibile” proprio a causa del divieto di prevalenza delle attenuanti recato dalla disposizione censurata.

Invece, ove non operasse tale divieto, la pena irrogabile, nel concorso di circostanze attenuanti prevalenti, se ritenute tali dal giudice, sarebbe determinabile entro l’intervallo di un minino (venti anni di reclusione) e un massimo (ventiquattro anni) ai sensi dell’art. 65 cod. pen.; quindi sarebbe graduabile.

La giurisprudenza costituzionale ha più volte affermato che una pena fissa è per ciò solo indiziata di illegittimità costituzionale (sentenze n. 222 del 2018, n. 50 del 1980, n. 104 del 1968 e n. 67 del 1963, nonché, in ambito di sanzioni amministrative accessorie, le sentenze n. 246 del 2022 e n. 88 del 2019). Ciò a maggior ragione non può non valere quando il giudice è tenuto a infliggere l’ergastolo quale pena “fissa” e “indefettibile”.

In particolare, nella sentenza n. 185 del 2021 – nel ribadire che la fissità del trattamento sanzionatorio impedisce di tener conto della diversa gravità concreta dei singoli illeciti – si è sottolineato che «questa Corte ha posto da tempo in luce come la “mobilità” (sentenza n. 67 del 1963), o “individualizzazione” (sentenza n. 104 del 1968), della pena – tramite l’attribuzione al giudice di un margine di discrezionalità nella sua commisurazione all’interno di una forbice edittale, così da poterla adeguare alle particolarità della fattispecie concreta – costituisca “naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d’uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale” (sentenza n. 50 del 1980), al lume dei quali “l’attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l’uniformità” (così, ancora, la sentenza n. 104 del 1968)».

Ciò implica che, in via di principio, previsioni sanzionatorie rigide non sono in linea con il «volto costituzionale» del sistema penale, potendo esse essere giustificate solo «a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (sentenze n. 222 del 2018 e n. 50 del 1980).

Non può dirsi assicurata una pena proporzionata al fatto, sotto il profilo della «mobilità della pena» (sentenza n. 50 del 1980), se la medesima identica pena venga irrogata in relazione ad atti, che pur integrando il delitto consumato, si differenzino sul piano oggettivo per condotte di più avanzato compimento dell’attività delittuosa.

Esigenza questa che si rivela ancora più impellente nei delitti di attentato, altrimenti detti a consumazione anticipata, che puniscono una condotta in quanto tesa al perseguimento di un determinato risultato che, però, ai fini della punibilità non è necessario che si consegua in concreto.

Sotto questo profilo, può anche ricordarsi, con riferimento alla pena edittale dell’ergastolo, prevista in passato per il reato di violenza consistente nell’omicidio, sia tentato sia consumato, del superiore (art. 186, primo comma, del regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303, recante «Codici penali militari di pace e di guerra», nella formulazione all’epoca vigente), che questa Corte (sentenza n. 26 del 1979) ha affermato che «le norme che assoggettano il tentativo e la consumazione allo stesso regime penale costituiscono pur sempre alcunché di eccezionale rispetto ai principi ispiratori del diritto italiano» ed ha, quindi, dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione, limitatamente alle parole «tentato o», con conseguente espansione delle norme penali comuni in materia di delitto tentato di omicidio.

In definitiva, nel caso di reati puniti con la pena edittale dell’ergastolo, si ha che, concorrendo l’aggravante della recidiva reiterata e applicandosi il censurato divieto di prevalenza delle attenuanti, la pena dell’ergastolo diventa l’unica irrogabile, quindi “fissa” e “indefettibile”.

14.– La fissità della pena perpetua comporta anche, per effetto del divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata, un trattamento, per il condannato, ingiustificatamente diverso in peius.

In generale, le circostanze attenuanti – se ritenute equivalenti all’aggravante della recidiva reiterata (ciò che è possibile che il giudice faccia anche in presenza del censurato divieto di prevalenza) – quanto meno hanno l’effetto di escludere l’aumento di pena per la recidiva. Ma nel caso dell’ergastolo, questo effetto non può conseguirsi, non essendo esso suscettibile di aggravamento per la recidiva reiterata in quanto di per sé perpetuo.

Nel regime delle circostanze cosiddette privilegiate – sia con “privilegio debole” (divieto di prevalenza), sia con “privilegio forte” (divieto di bilanciamento) – le circostanze attenuanti comunque hanno un effetto sulla pena (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 aprile-18 novembre 2021, n. 42414). Finanche nel caso del divieto di bilanciamento, l’art. 69-bis cod. pen. prevede che «le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti», ossia alle aggravanti “privilegiate”.

Invece, nel caso della pena edittale fissa dell’ergastolo tutte le attenuanti sono, di fatto, “sterilizzate” dal concorso con la recidiva reiterata proprio a causa del censurato divieto di prevalenza delle attenuanti e quindi – con trattamento deteriore in violazione del principio di eguaglianza – non hanno nemmeno l’effetto di schermare l’aumento della pena per il concorso della circostanza aggravante della recidiva reiterata, il quale di per sé non si può produrre in ragione del carattere perpetuo della pena dell’ergastolo.

Del resto, mutatis mutandis, il regime “privilegiato” delle circostanze di cui all’art. 270-bis.1 cod. pen., che al secondo comma prevede un divieto di prevalenza delle attenuanti, non dissimile da quello attualmente censurato, per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, si riferisce espressamente, al primo comma, a quelli punibili con pena diversa dall’ergastolo.

15.– In conclusione, la fissità della pena edittale dell’ergastolo, aggravata dal suo rigore per essere la sanzione più elevata in assoluto, in quanto perpetua al momento della sua irrogazione, e marcatamente più afflittiva rispetto a quella irrogabile per lo stesso reato circostanziato da una diminuente, richiede – per la tenuta costituzionale della pena stessa, in riferimento a tutti gli evocati parametri (artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.) – che non sia precluso, in caso di recidiva reiterata, l’ordinario bilanciamento delle circostanze attenuanti del reato, le quali, se esclusive o ritenute dal giudice prevalenti sulle aggravanti, comportano che alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione da venti a ventiquattro anni (art. 65 cod. pen.).

16.– L’accertata violazione, da parte della disposizione censurata, di tutti i parametri costituzionali evocati dal giudice rimettente, vale non solo per il reato di cui all’art. 285 cod. pen., punito appunto con la pena edittale fissa dell’ergastolo, e in riferimento all’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen., che il giudice rimettente ritiene di poter applicare, ma vale altresì con riguardo ad ogni altra attenuante, comprese le attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., e per tutti gli altri reati puniti allo stesso modo, ossia con la pena edittale fissa dell’ergastolo (quali quelli sopra richiamati al punto 3), quando parimenti operi il divieto di prevalenza delle attenuanti.

La disposizione censurata e gli accertati vulnera dei parametri suddetti sono infatti gli stessi (analogamente, sentenza n. 156 del 2020).

Deve, quindi, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., in relazione ai delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo.

Per effetto di tale dichiarazione di illegittimità costituzionale il giudice, nel determinare il trattamento sanzionatorio in caso di condanna di persona recidiva ex art. 99, quarto comma, cod. pen., imputata di uno dei delitti suddetti, può operare l’ordinario bilanciamento previsto dall’art. 69 cod. pen. nel caso di concorso di circostanze e, quindi, può ritenere le attenuanti prevalenti sulla recidiva reiterata (secondo comma), oppure equivalenti a quest’ultima (terzo comma), o finanche subvalenti rispetto ad essa (primo comma).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come modificato dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui, relativamente ai delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, prevede il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 aprile 2023.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Giovanni AMOROSO, Redattore

Igor DI BERNARDINI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 maggio 2023.

Il Cancelliere

F.to: Igor DI BERNARDINI

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