LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ARMANO Uliana – Presidente –
Dott. CIGNA Mario – Consigliere –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1839-2016 proposto da:
R. S.A.S. DI R.G. & C. in persona del legale rappresentante pro tempore R.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CICERONE 60, presso lo studio dell’avvocato STEFANO PREVITI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MICHELE OMETTO giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
ALLIANZ SPA, in persona dei legali rappresentanti Dott.ssa G.A. e Dott.ssa S.M.T., elettivamente domiciliato in ROMA, VICOLO ORBITELLI 31, presso lo studio dell’avvocato MICHELE CLEMENTE, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
e contro
Z.M.;
– intimato –
Nonchè da:
Z.M., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DI PIETRA 26, presso lo studio dell’avvocato DANIELA JOUVENAL, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO DRAGONE giusta procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– ricorrente incidentale –
contro
R. SAS DI R.G. & C, ALLIANZ SPA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1583/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 19/06/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/02/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.
FATTI DI CAUSA
1. La società R. s.a.s. di R.G. & C. (d’ora in poi, ” R. S.a.s.”) ricorre, sulla base di sei motivi, per la cassazione della sentenza n. 1583/15 del 18 giugno 2015, pronunciata dalla Corte di Appello di Venezia, che – rigettando il gravame esperito dall’odierna ricorrente contro la sentenza n. 2250/11 del 13 settembre 2011, resa dal Tribunale di Venezia – ha confermato la condanna di R. S.a.s. a pagare a Z.M. la somma di Euro 6.595,06 a titolo di compenso per attività professionali.
2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di essersi rivolta allo Z., “esperto commercialista con specifica competenza in ambito tributario”, dopo aver ricevuto la notifica, da parte dell’Agenzia delle Entrate di Venezia, di tre avvisi di accertamento, dando incarico al predetto professionista di impugnarli innanzi alla Commissione tributaria della città lagunare, ciò che avveniva con ricorsi del 2 settembre 2003. Accolti i ricorsi in primo grado, ma respinti in quello successivo, R. S.a.s. si vedeva, pertanto, costretta a ricorrere al rimedio della rateizzazione, pagando il debito con il fisco ammontante ad Euro 354.191,07, poi livietati in Euro 420.525,68.
Ciò premesso, la ricorrente riferisce di essere stata convenuta in giudizio innanzi al Tribunale di Venezia dallo Z., il quale ne chiedeva la condanna al pagamento dei compensi, per l’attività defensionale svolta, stimati – sulla base di nota vidimata dal locale Consiglio dell’ordine dei commercialisti – in Euro 6.595,06.
Costituitasi in giudizio R. S.a.s., la stessa – non senza contestare la debenza dell’importo – chiedeva il rigetto della domanda attorea anche per compensazione con il maggior credito relativo al danno che lamentava di aver subito, per avere lo Z. sottaciutole la possibilità di definire il contenzioso con il condono sulle lite pendenti, previsto dalla L. n. 289 del 2002, art. 16. Detta norma prevedeva, infatti, la possibilità di pagare una somma pari al 30% del valore della lite, qualora la stessa fosse stata ancora pendente in primo grado e non fosse stata resa alcuna pronuncia sul merito o sull’ammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio, stabilendo, altresì, una modalità di definizione ancora più conveniente in caso di vittoria del contribuente in primo grado, consentendo di definire la lite con il pagamento del 10% del valore della stessa. Lamentava, in particolare, R. S.a.s. essergli stato precluso l’accesso ad un rimedio poco oneroso, giacchè la definizione della lite sarebbe potuta avvenire con il pagamento Euro 32.231,14 durante tutta la pendenza del giudizio di primo grado, ovvero, dopo la sua definizione in senso sfavorevole all’Agenzia delle entrate, addirittura versando Euro 10.374,80.
Autorizzato lo Z. a chiamare in causa il proprio assicuratore, Allianz S.p.a., per essere dallo stesso manlevato in caso di accertamento della sua responsabilità professionale, il Tribunale di Venezia accoglieva la domanda attorea (ad eccezione di quella formulata dallo Z. ex art. 96 c.p.c.).
Gravava con appello tale decisione la R. S.a.s., che contestava l’affermazione del primo giudice – a suo dire frutto di erronea sovrapposizione dei rimedi di cui alla L. n. 289 del 2002, artt. 15 e 16 – secondo cui il professionista avrebbe informato la propria assistita della facoltà prevista dalla seconda di tali disposizioni, censurando, altresì, la tesi del Tribunale di Venezia circa i termini di proposizione del rimedio, a dire dell’allora appellante utilizzabile durante il primo grado di giudizio e prima della pubblicazione della sentenza resa al suo esito.
La Corte lagunare rigettava, tuttavia, l’appello.
3. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione R. S.a.s., sulla base di sei motivi.
3.1. Con il primo motivo – formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c, comma 1, n. 4 – si denuncia “nullità della sentenza” in “correlazione con la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1176 c.c., della L. n. 189 (recte: 289) del 2002, art. 16 e della L. n. 350 del 2003, art. 2, comma 49”, oltre che “dell’art. 24 Cost.”.
Sul presupposto che questa Corte “debba effettuare un controllo della motivazione, nel senso di una verifica del ragionamento logico” contenuto nella sentenza impugnata, la ricorrente assume che quest’ultima sarebbe “assolutamente carente” di “un’adeguata motivazione”, giacchè essa “confligge palesemente con il dato normativo” (nel senso che la decisione impugnata non rileverebbe l’autonomia del rimedio di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 16 rispetto alle altre ipotesi di condono), nonchè “con il dato documentale, costituito dalla corrispondenza del professionista”, dalla quale “non si riscontra alcuna menzione”, nei rapporti con la propria assistita, del rimedio suddetto (vengono citati i fax del 6 e 20 marzo 2003, del 17 aprile e del 12 maggio 2003, del 16 gennaio 2004 e, soprattutto, del 25 febbraio 2004, del quale viene integralmente trascritto il contenuto).
Di talchè, assume la ricorrente, delle due l’una: “o il professionista non conosceva il rimedio e risponde per imperizia o, situazione ancora più grave, avrebbe taciuto i rimedi per percepire il compenso sui ricorsi”.
3.2. Con il secondo motivo – formulato sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – si ipotizza, del pari, “nullità della sentenza” in “correlazione con la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1176 c.c., della L. n. 189 (recte: 289) del 2002, art. 16 e della L. n. 350 del 2003, art. 2, comma 49”, oltre che “dell’art. 24 Cost.”.
Si censura la sentenza della Corte veneziana laddove essa avrebbe ritenuto necessaria la pronuncia della sentenza di primo grado affinchè essa R. s.a.s. potesse fruire del rimedio L. n. 289 del 2002, ex art. 16. Esso, per contro, risultava utilizzabile sin dall’entrata in vigore – il 27 dicembre 2003, data della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale – della L. 24 dicembre 2003, n. 350, il cui art. 2, comma 49, consentiva l’applicazione del rimedio “de quo” anche alle “liti instaurate con ricorso alla commissione tributaria provinciale notificato all’ufficio dell’agenzia tra il 2 gennaio 2003 e il 1 gennaio 2004”, tale essendo la condizione ricorrente nella specie, essendo stati notificati i ricorsi predisposto dallo Z. per R. S.a.s. in data 8 ottobre 2003.
3.3. Il terzo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4) – deduce nuovamente “nullità della sentenza”, questa volta per “violazione di legge” e, segnatamente, degli artt. 1176 e 2697 c.c., oltre che dell’art. 24 Cost.
Se è vero, infatti, che quella del professionista è pur sempre un obbligazione di mezzi e non di risultato, resta nondimeno inteso assume la ricorrente – che la diligenza con cui la stessa va adempiuta non è quella del “buon padre di famiglia”, bensì quella di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, la quale non può esaurirsi (in casi come quello presente) “nell’avvio del giudizio nel modo più rapido e corretto possibile”, includendo anche l’informativa al cliente, qui viceversa mancata, “di tutte le circostanze essenziali e rilevanti per una sua scelta consapevole”.
3.4. Il quarto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) – lamenta “omessa motivazione su un punto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, identificato dal ricorrente tanto nel fatto che il professionista abbia informato la cliente della possibilità di avvalersi del rimedio di cui al più volte citato L. n. 289 del 2002, art. 16 quanto nella sua utilizzabilità (come erroneamente ritenuto dal giudice di appello) solo in presenza della pronuncia della sentenza resa all’esito del primo grado di giudizio del contenzioso tributario.
3.5. Il quinto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4) – ipotizza “violazione di legge”, segnatamente dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., oltre che del D.P.R. 10 ottobre 1994, n. 1645, art. 47, comma 3 e art. 49, (Tariffa dei commercialisti), nonchè “omessa motivazione ed omessa pronuncia”, rilevante ai sensi dell’art. 112 c.p.c..
Si contesta la sentenza di appello, laddove essa ha ritenuto inammissibile l’impugnativa della “notula” dello Z., relativa all’attività professionale espletata nel giudizio tributario di primo grado, motivando tale conclusione “avuto riguardo alla palese genericità della pretesa (…) stante la carente indicazione della causa petendi”.
Nel trascrivere le conclusioni rassegnate, sul punto, nel giudizio di primo grado (nell’udienza destinata agli incombenti ex art. 189 c.p.c.), la ricorrente assume che la “causa petendi” della contestazione della parcella sarebbe stata, in realtà, evidente, atteso che la critica da essa svolta investiva il “parametro del valore della pratica” (particolarmente rilevante nella specie, perchè il compenso per l’attività di consulenza tributaria “è a percentuale, dall’1 al 5% del valore della pratica”), essendosi, inoltre, dedotto che il professionista non aveva chiarito i criteri di determinazione degli onorari, indicando, inoltre, il valore della pratica in Euro 599,852 – peraltro, da essa R. S.a.s. sempre contestato – “solo nella parcella n. *****”. Inoltre, già in appello l’odierna ricorrente aveva contestato il “fatto che si trattava di tre ricorsi con identiche argomentazioni”, ed infine la voce relativa alla domiciliazione, che “non era da riferirsi alla mera elezione di domicilio nel procedimento contenzioso, ma all’effettiva domiciliazione fiscale e sostanziale della parte nella specie mai posta in essere.
3.6. Infine, il sesto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – ipotizza violazione dell’art. 346 c.p.c., contestando la sentenza laddove ha ritenuto che la domanda di manleva, proposta in appello dallo Z. verso il proprio assicuratore, dovesse essere proposta nella forma dell’appello incidentale condizionato, bastando all’uopo, invece, la mera riproposizione, per essere stata la stessa non esaminata dal primo giudice in ragione del rigetto della domanda di responsabilità professionale del commercialista.
4. Ha resistito con controricorso la società Allianz chiedendo la declaratoria di inammissibilità o, in subordine, il rigetto dell’avversaria impugnazione.
Anche lo Z. ha proposto controricorso, non solo per chiedere che sia dichiarato inammissibile – o, comunque, rigettato – il ricorso principale relativamente ai suoi primi cinque motivi, ma anche per proporre ricorso incidentale condizionato sulla base di un unico motivo che corrisponde al sesto della R. s.a.s.
Nella denegata ipotesi in cui questa Corte dovesse accogliere il ricorso principale, chiede di essere manlevato dal proprio assicuratore, insistendo nel sottolineare che la richiesta in tal senso formulata in appello nel verbale di prima udienza (e, dunque, senza proporre gravame incidentale) deve ritenersi del tutto rituale, potendo la riproposizione ex art. 346 c.p.c. sino all’udienza di precisazione delle conclusioni.
5. La R. S.a.s. e lo Z. hanno presentato memorie, insistendo nelle rispettive argomentazioni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
6. Il ricorso principale è inammissibile.
6.1. Vanno preliminarmente esaminati i motivi Primo, secondo, terzo e quarto, suscettibili di trattazione congiunta, perchè relativi al tema della supposta mancata informazione, da parte del professionista alla propria cliente, della facoltà (sopravvenuta nel corso del giudizio tributario) di avvalersi del condono L. n. 289 del 2002, ex art. 16.
Essi sono, come detto, inammissibili.
Tali essi risultano, innanzitutto, nella parte in cui evocano il vizio di violazione di legge, ponendosi come dirimente (in special modo per i motivi secondo e terzo) la constatazione che l’iniziativa della ricorrente si colloca fuori del perimetro del sindacato consentito a questa Corte, a dispetto del tentativo di ipotizzare errores in iudicando (soprattutto in riferimento all’applicazione degli artt. 1176 e 2697 c.c.).
Al riguardo, infatti, parrebbe sufficiente osservare che “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa” – che è quanto si lamenta nel caso di specie – “è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (da ultimo, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03).
D’altra parte, anche laddove i medesimi motivi (il rilievo vale soprattutto per il primo ed il quarto) censurano la sentenza impugnata per essere in contrasto “con il dato documentale, costituito dalla corrispondenza del professionista”, dalla quale “non si riscontra alcuna menzione”, nei rapporti con la propria assistita, del rimedio suddetto (vengono citati i fax del 6 e 20 marzo 2003, del 17 aprile e del 12 maggio 2003, del 16 gennaio 2004 e, soprattutto, del 25 febbraio 2004, del quale viene integralmente trascritto il contenuto), il motivi risultano inammissibili anche per un’altra ragione.
Sul punto, va innanzitutto osservato che – come appena rilevato solo dell’ultimo documento viene riprodotto, nel ricorso, il contenuto, di talchè, con riferimento agli altri, l’impugnazione risulta difettare del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), dovendo, pertanto, applicarsi il principio secondo cui, ove “venga dedotto il vizio di motivazione della sentenza impugnata per l’asserito omesso esame di un documento (…) è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività del documento non valutato (o insufficientemente valutato), che il ricorrente precisi mediante integrale trascrizione del contenuto dell’atto nel ricorso – la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di cassazione, alla quale è precluso l’esame diretto degli atti di causa, di delibare la decisività della risultanza stessa” (ex multis, Cass. Sez. Lav., sent. 4 marzo 2014, n. 4980, Rv. 630291).
Inoltre, almeno con riferimento a quattro di tali documenti (quelli del 6 e 20 marzo 2003, del 17 aprile 2003 e del 12 maggio 2003), difetta anche il carattere della “decisività”, necessario perchè il loro omesso esame possa rilevare a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), e ciò proprio alla luce della “cronologia” degli avvenimenti proposta in ricorso.
Difatti, se è vero, per un verso, che il contenzioso tributario nell’ambito del quale lo Z. aveva prestato la sua attività era stato radicato solo a far data dall’8 ottobre 2003, e che la possibilità di avvalersi, nello stesso, del condono L. n. 289 del 2002, ex art. 16 si era concretizzata solo a partire dal 27 dicembre 2003 (data di entrata in vigore della L. 24 dicembre 2003, n. 350, il cui art. 2, comma 49, consentiva l’applicazione del rimedio de quo anche alle “liti instaurate con ricorso alla commissione tributaria provinciale notificato all’ufficio dell’agenzia tra il 2 gennaio 2003 e il 1 gennaio 2004”), non si vede quale rilevanza potessero avere documenti risalenti ad un periodo compreso tra il febbraio ed il maggio 2003.
D’altra parte, e per concludere sul punto, neppure in relazione al fax del 25 febbraio 2004 (il solo in ordine al quale, soddisfatto il requisito della riproduzione nel ricorso, possa postularsi, in astratto, la presenza anche dell’attributo della decisività) potrebbe ritenersi integrato il vizio di omesso esame, atteso che la Corte di Appello ne ha valutato la rilevanza, con apprezzamento che non risulta sindacabile in questa sede.
Sul punto, infatti, pare sufficiente osservare che il “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01 in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01).
Nè, infine, giova alla ricorrente il riferimento all’art. 2697 c.c., visto che la sua violazione, “censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad uno parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01).
6.2. Anche il quinto motivo del ricorso principale è inammissibile.
Non è possibile in questa sede procedere ad una valutazione della notula attraverso la quale lo Z. ha chiesto la liquidazione di quanto dovutogli per l’attività professionale espletata in favore dell’odierna ricorrente, ancorchè tale sindacato sia, all’apparenza, prospettato “sub specie” di riscontro di una violazione di legge. Difatti, è inammissibile quel ricorso (o suo singolo motivo) “con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito” (Cass. Sez. 6-3, ord. 4 aprile 2017, n. 8758, Rv. 643690-01).
Il tutto non senza evidenziare come la sentenza impugnata abbia stigmatizzato “l’estrema vaghezza” delle contestazioni relative alla “notula”, sostanzialmente ipotizzando un difetto di specificità del motivo ex art. 342 c.p.c., affermazione che l’odierna ricorrente avrebbe dovuto censurare, tra l’altro nell’osservanza dei requisiti di ammissibilità del ricorso per cassazione delineati dall’art. 366 c.p.c., requisiti, invece, non rispettati.
Difatti, “l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto” – requisito, nella specie, non soddisfatto – “nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità” (Cass. Sez. 5, ord. 29 settembre 2017, n. 22880, Rv. 645637-01).
6.3. Il sesto motivo di ricorso – che corrisponde, nel contenuto, all’unico motivo di ricorso incidentale – resta superato dal rigetto dei precedenti.
Una volta esclusa la possibilità di pervenire ad un’affermazione di responsabilità del professionista non è più necessario affrontare questioni relative alla domanda di manleva dallo stesso proposta nei confronti del proprio assicuratore.
7. Per la medesima ragione appena illustrata, il ricorso incidentale condizionato dello Z. deve, anch’esso, ritenersi assorbito.
8. Le spese del presente giudizio vanno poste a carico della ricorrente e sono liquidate come da dispositivo.
9. A carico della ricorrente, stante l’inammissibilità della proposta impugnazione, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale e assorbito quello incidentale, condannando la società R. S.a.s. di R.G. & C. a rifondere a Z.M. e alla società Allianz S.p.a. le spese del presente giudizio, che liquida, per ciascuno di essi, in Euro 10.000,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 6 febbraio 2018.
Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2018
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