Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.33547 del 28/12/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17497-2014 proposto da:

M.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ALESSANDRIA 88, presso lo studio dell’avvocato ALESSIA DI COLA, rappresentato e difeso dall’avvocato ENRICO ZAMBARDI giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

V.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato LUIGI MANZI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARCELLO VASCELLARI in virtù di procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 711/2013 del TRIBUNALE di TREVISO, depositata il 15/04/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/11/2018 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Sentito il Sostituto Procuratore Generale dott. SERGIO DEL CORE che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito l’Avvocato Gianluca Calderara per delega dell’Avvocato Manzi per la controricorrente.

FATTI DI CAUSA

M.R., M.M., M.L., M.E. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Treviso V.A., dopo avere ottenuto un sequestro giudiziario ante causam dei beni immobili appartenuti al defunto M.D., chiedendo dichiararsi la nullità del testamento olografo redatto dal fratello M.D., deceduto in data *****, in quanto presentava la suo interno dei tratti grafici non olografi nonchè numerose cancellature di parole in precedenza vergate, chiedendo altresì pronunciarsi l’annullamento dell’atto di ultima volontà in quanto redatto da soggetto incapace di intendere e di volere.

Resisteva la convenuta, la quale evidenziava di avere intrattenuto con il de cuius una relazione sentimentale protrattasi nel tempo, sicchè il testamento che la designava quale erede era coerente con il sentimento che l’aveva legata in vita con il defunto, ed aggiungeva che l’ultima postilla era stata sottoscritta dal testatore nell’ospedale ove era ricoverato prima del decesso e che l’annotazione “valido” ivi apposta era espressiva di una rinnovata volontà di istituirla come erede universale, con un rinvio per relationem alle disposizioni che erano state prima cancellate.

Il Tribunale con la sentenza n. 711 del 15/4/2013 ha rigettato la domanda, dichiarando la convenuta unica erede del defunto.

Dopo avere riprodotto il contenuto del testamento olografo pubblicato in data *****, i giudici evidenziavano come il documento fosse stato redatto con penne di diversa natura (biro ed ad inchiostro liquido) e di diverso colore. Effettivamente, nella prima parte risultavano cancellati il nominativo della convenuta ed il suo luogo di residenza, essendo stata cancellata anche la parola “mio testamento” al primo rigo, risultando apposta sul margine destro la data del ***** con la parola “nullo” collegata a due righe oblique che attraversavano le righe dalla seconda all’undicesima. Tali righe erano poi sovrascritte con segni perpendicolari redatti con penna ad inchiostro blu, a fronte del colore nero dell’inchiostro con cui erano state tracciate le righe.

Infine dopo la prima data apposta all’atto del *****, risultava vergata la parola “Valido” con la data “*****” seguita da una nuova sottoscrizione.

Rilevavano i giudici di primo grado che la consulenza grafologica aveva permesso di accertare l’assoluta autografia dell’atto, ivi comprese le parole “nullo” e “Valido”, emergendo che le parole più recenti erano state vergate dal de cuius quando era nel letto d’ospedale, poggiandosi su di un supporto semirigido (una rivista).

Doveva altresì reputarsi dimostrata la piena capacità di intendere e di volere alla data di redazione della postilla del ***** posto che la patologia di cui era affetto a quella data non era tale da inibire l’esercizio delle facoltà mentali, come peraltro confermato anche dai testi escussi.

Quanto all’interpretazione dell’atto, la sentenza riteneva che fosse possibile individuare le generalità del beneficiario della scheda, in quanto nonostante le cancellature era leggibile il nome della convenuta, come confermato anche dal fatto che il notaio incaricato della pubblicazione non aveva avuto difficoltà ad individuarla.

La presenza di tre date successive andava invece spiegata nel senso che la parte del testamento, con l’istituzione di erede universale in favore della V. era stata redatta in occasione della data più risalente nel tempo e che la dicitura “nullo” con l’apposizione delle cancellature e delle righe trasversali erano invece riferibili alla successiva data del *****.

Infine l’ultima sottoscrizione con l’apposizione dei segni blu sovrapposti alle precedenti cancellature risalivano a pochi giorni prima della morte.

Poteva quindi ritenersi che il testamento era stato inizialmente revocato dal de cuius ex art. 684 c.c., con la parziale cancellazione delle disposizioni a favore della V., dovendosi invece reputare che la successiva redazione della parola “valido” nonchè dei segni perpendicolari sulle linee trasversali in precedenza vergate, denotavano l’intento di riaffermare la validità dell’intero testamento, tenuto conto dei precedenti di legittimità che avevano ritenuto che l’apposizione di una nuova data e di una nuova sottoscrizione all’olografo in precedenza revocato, implicano la redazione di un nuovo testamento che riproduce e conferisce nuovo vigore, sebbene con efficacia ex nunc, alle disposizioni prima revocate.

Tale conclusione era poi confortata anche da ulteriori elementi istruttori, ed in particolare dalle deposizioni rese dai soggetti che erano presenti al capezzale del M., allorchè provvide ad apporre le ultime modifiche, dalle quali si ricavava che era ben presente al testatore l’intento di confermare il testamento prima revocato.

Ulteriore conferma si ricavava dalla disamina dei rapporti personali tra il de cuius e le parti in causa, essendo emerso che mentre la V., con la quale il M. aveva in passato intrecciato una relazione sentimentale, gli era rimasta vicina anche durante la fase terminale della malattia, viceversa i rapporti con le sorelle si erano incrinati, a seguito della vendita di alcuni beni immobili da parte del defunto.

La Corte d’Appello di Venezia con ordinanza del 6/3/2014 ha dichiarato l’appello inammissibile ex art. 348 ter c.p.c., reputando che la ricostruzione delle ultime volontà del de cuius, come operata dal Tribunale, era corretta, soprattutto nella parte in cui, senza dare seguito alla tesi della revoca della revoca, si era ritenuto configurabile un nuovo testamento il cui contenuto era determinabile per relationem, sulla scorta delle previsioni contenute nella stessa scheda testamentaria.

Ne derivava quindi che l’appello non aveva ragionevole probabilità di accoglimento.

Avverso la sentenza del Tribunale ha proposto ricorso per cassazione M.L. sulla base di tre motivi.

V.A. ha resistito con controricorso illustrato anche da memorie ex art. 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente si rileva che, ancorchè la domanda introduttiva del giudizio sia stata avanzata dalle sorelle M.L., R., E. e M., quali eredi legittime del de cuius, e sul presupposto dell’invalidità del testamento con il quale sarebbe stata istituita l’intimata quale erede universale, il presente ricorso è stato proposto dalla sola M.L. e notificato alla sola V..

E’ bensì vero che nella specie (impugnativa di testamento) si versa in un caso di litisconsorzio necessario, anche nel grado di impugnazione (dovendo prendere parte al giudizio tutti gli eredi legittimi che verrebbero a beneficiare della declaratoria di invalidità del testamento), per cui sarebbe indispensabile l’impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti; con la conseguenza che dovrebbe disporsi, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. civ., l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari, a cui il ricorso non è stato in precedenza notificato.

Senonchè, occorre ribadire che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111 Cost., comma 2 e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea dei diritti del l’uomo e delle libertà fondamentali) impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 cod. proc. civ.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perchè non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’art. 101 cod. proc. civ., da sostanziali garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111 Cost., comma 2) dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti (Cass. 17 giugno 2013 n. 15106; Cass. 8 febbraio 2010 n. 2723; Cass., Sez. Un., 3 novembre 2008, n. 26373; Cass., Sez. 3, 7 luglio 2009, n. 15895; Cass., Sez. 3, 19 agosto 2009, n. 18410; Cass., Sez. 3, 23 dicembre 2009, n. 27129).

In applicazione di detto principio, essendo il presente ricorso (per le ragioni che andranno ad esporsi nel prosieguo) prima facie inammissibile, appare superflua la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle altre parti, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti.

2. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 680,681 e 684 c.c., contestandosi la conclusione del Tribunale secondo cui il de cuius avrebbe in realtà redatto un nuovo testamento.

Ed, infatti, pacifica la riconducibilità della condotta del de cuius consistita nella cancellatura dell’originario contenuto della scheda testamentaria, con l’apposizione della parola “nullo”, quale ipotesi di revocazione tacita del testamento, il giudice di primo grado ha errato nel ravvisare un’ipotesi di revocazione della revocazione del testamento.

In ogni caso difetta nelle modifiche redatte in ospedale la possibilità di ricavare una volontà del de cuius di redigere un nuovo testamento, non potendosi a tal fine far riferimento al tenore dell’atto già revocato che presenta cancellature che non consentono di intenderne l’effettivo contenuto, e che quindi non può fungere da valido elemento di relazione sul quale ricostruire la volontà testamentaria.

Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1324,1362 e 1363 c.c., avendo il Tribunale fatto ricorso, ai fini della ricostruzione della volontà del de cuius, ad elementi estrinseci alla scheda testamentaria, dovendosi per converso fare riferimento al solo contenuto dell’atto di ultima volontà.

E’ stata del tutto svalutata quindi l’illeggibilità sia del nome che del luogo di residenza della beneficiaria delle disposizioni testamentarie, valorizzandosi invece la natura dei rapporti intercorrenti tra le parti, come ricostruita sulla base delle deposizioni dei testimoni.

Il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., nella parte in cui, anche relativamente alla valutazione degli elementi estrinseci alla scheda testamentaria, e precisamente nella valutazione degli esiti della prova testimoniale, il giudizio del tribunale ha contravvenuto alla regola del prudente apprezzamento, essendosi quindi pervenuti a conclusioni che apertamente contraddicono quanto evincibile in maniera univoca dalle stesse deposizioni.

3. Riveste portata del tutto preliminare l’eccezione di inammissibilità del ricorso, formulata dalla controricorrente (e della quale rilevanza risulta consapevole la stessa ricorrente, laddove nelle prime pagine del ricorso si premura di individuare degli argomenti idonei a suo avviso a contrastare la prevedibile eccezione che sarebbe stata sollevata), in ragione della sua pretesa tardiva proposizione. Assume, infatti, la difesa della V. che l’ordinanza di inammissibilità ex art. 348 ter c.p.c.emessa dalla Corte d’Appello di Venezia, recante la data del 4 marzo 2014, ma pubblicata in data 6 marzo 2014, in questa stessa ultima data sarebbe stata comunicata al difensore dell’allora appellante (ed oggi ricorrente), e ciò sia mediante un tentativo di comunicazione a mezzo PEC, cui avrebbe fatto seguito il deposito in Cancelleria, sia a mezzo fax.

Poichè la norma ancora il termine per la proposizione del ricorso avverso la sentenza di primo grado, alla data di comunicazione dell’ordinanza di inammissibilità, il ricorso in esame sarebbe stato tardivamente proposto, in quanto notificato solo in data 27/6/2014, ben oltre i sessanta giorni dalla comunicazione.

Al riguardo la difesa della V. ha prodotto attestazione rilasciata dalla cancelleria della Corte d’Appello di Venezia in data 3/9/2014, che in relazione all’ordinanza de qua attesta che:

“l’ordinanza di inammissibilità in data 4-6/3/2014, ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c. è stata comunicata nel testo integrale al procuratore delle appellanti, avv. Piergiorgio Oss, come segue:

In data 6/3/2014 comunicazione telematica con esito invio “ritiro in cancelleria” in quanto il predetto difensore non risultava essere “telematico” ossia iscritto nel Registro Generale degli Indirizzi Elettronici;

In data 6/03/2014, a mezzo fax, con esito positivo, al numero indicato dall’avvocato nell’atto introduttivo del giudizio”.

A tale certificazione risulta allegata anche una stampa della proiezione a video del fascicolo telematico, estratta dal SICID della Corte d’Appello che quanto all’avv. Oss, precedente difensore della ricorrente, attesta l’avvenuta comunicazione dell’ordinanza con la dizione “ritiro in cancelleria”, per la data del 6/3/2014.

Assume la ricorrente che quanto emerge da tale documentazione non implicherebbe la conclusione dell’inammissibilità del ricorso, atteso che nell’atto di appello aveva puntualmente indicato un indirizzo di posta elettronica certificata presso cui l’avv. Oss aveva manifestato la volontà di ricevere eventuali comunicazioni (piergiorgio.oss.venezia.pecavvocati.it), indirizzo che risultava perfettamente funzionante nei giorni in cui sarebbe stata effettuata la comunicazione dell’ordinanza, sicchè quest’ultima andava effettuata al detto indirizzo in conformità di quanto richiesto con la costituzione in giudizio in appello.

Quanto invece alla comunicazione avvenuta via fax, sostiene che al numero indicato nell’atto di appello non era pervenuta alcuna comunicazione da parte della cancelleria, trattandosi in ogni caso di comunicazione invalida, atteso che, ai sensi del combinato disposto dell’art. 45 disp. att. c.p.c. e art. 136 c.p.c., le comunicazioni vanno eseguite mediante posta elettronica certificata, essendo possibile ricorrere al fax, solo se non sia possibile procedere tramite pec.

Poichè nella fattispecie la comunicazione via pec non era stata ritualmente eseguita, non era nemmeno dato fare ricorso alla trasmissione a mezzo fax.

Ritiene il Collegio che debba dichiararsi l’inammissibilità del ricorso in quanto tardivamente proposto.

In relazione alla vicenda in esame rileva l’applicazione del testo della D.L. n. 179 del 2012, art. 16 convertito nella L. n. 221 del 2012, che al quarto comma prevede che “Nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, secondo la normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Allo stesso modo si procede per le notificazioni a persona diversa dall’imputato a norma dell’art. 148 c.p.p., comma 2-bis, artt. 149 e 150 c.p.p. e art. 151 c.p.p., comma 2. La relazione di notificazione è redatta in forma automatica dai sistemi informatici in dotazione alla cancelleria”.

Il sesto comma poi aggiunge che: “Le notificazioni e comunicazioni ai soggetti per i quali la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Le stesse modalità si adottano nelle ipotesi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario”.

Dal testo della norma si ricava quindi che le comunicazioni non vanno compiute a qualsiasi indirizzo che il difensore possa avere indicato negli atti difensivi, ma esclusivamente a quello risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, che come riaffermato poi anche da questa Corte, sulla scorta delle indicazioni del legislatore, viene a costituire a tutti gli effetti un “domicilio digitale”.

In tale prospettiva si spiega quindi anche la modifica apportata pochi mesi dopo la comunicazione oggetto di causa, al testo dell’art. 125 c.p.c., laddove è stata soppressa l’obbligatorietà per il difensore dell’indicazione del proprio indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine e del proprio numero di fax (L. n. 114 del 2014, art. 45 bis che ha convertito con modifiche il D.L. n. 90 del 2014), atteso che il sistema delle comunicazioni telematiche di cui al PCT è in grado di agganciare automaticamente il nominativo del difensore all’indirizzo risultante da pubblici registri, sempre che effettivamente tale indirizzo sia stato comunicato ed inserito.

La successiva giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di confrontarsi con il nuovo sistema delle comunicazioni telematiche e con gli effetti delle modifiche legislative, quanto alla univocità del legame tra difensore ed indirizzo validamente inserito nei pubblici registri, essendosi ad esempio affermato che (Cass. n. 14914/2018) sebbene in materia di notificazioni al difensore, a seguito dell’introduzione del “domicilio digitale”, corrispondente all’indirizzo PEC che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza, previsto dal D.L. n. 179 del 201, art. 16 sexies conv. con modif. in L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, conv., con modif., in L. n. 114 del 2014, la notificazione dell’atto di appello va eseguita all’indirizzo PEC del difensore costituito risultante dal ReGIndE, pur non indicato negli atti dal difensore medesimo, sicchè è nulla la notificazione effettuata – ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82 – presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario abbia omesso di eleggere il domicilio nel Comune in cui ha sede quest’ultimo, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra anche la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario.

Tale regola è stata poi ribadita anche di recente dalle Sezioni Unite, che hanno appunto affermato che (Cass. S.U. n. 23620/2018) in materia di notificazioni al difensore, in seguito all’introduzione del “domicilio digitale”, previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies conv. con modif. dalla L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, conv. con modif. dalla L. n. 114 del 2014, è valida la notificazione al difensore eseguita presso l’indirizzo PEC risultante dall’albo professionale di appartenenza, in quanto corrispondente a quello inserito nel pubblico elenco di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis atteso che il difensore è obbligato, ai sensi di quest’ultima disposizione, a darne comunicazione al proprio ordine e quest’ultimo è obbligato ad inserirlo sia nei registri INI PEC, sia nel ReGindE, di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della Giustizia.

Con specifico riguardo al giudizio di legittimità, una volta introdotte anche in Corte di Cassazione le comunicazioni telematiche, si è affermato che (Cass. n. 12876/2018) in tema di procedimento ex art. 380 bis c.p.c., la notificazione del decreto di fissazione dell’udienza camerale e della proposta del relatore è validamente effettuata all’indirizzo PEC del difensore di fiducia, quale risultante dal Reginde, indipendentemente dalla sua indicazione in atti, ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies conv., con modif., in L. n. 221 del 2012, non potendosi configurare un diritto a ricevere le notificazioni esclusivamente presso il domiciliatario indicato.

Ancorchè la previsione del domicilio digitale di cui al D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies sia stata inserita con il citato D.L. n. 90 del 2014 (il che rileva ai fini delle notificazioni al difensore), quanto alle comunicazioni la regola dell’esclusività per le stesse dell’indirizzo pec risultante dai pubblici registri era già vigente ai sensi dello stesso D.L. n. 179 del 2012, ricordato art. 16 e ciò anche alla luce del disposto dell’art. 16 ter (pienamente operativo già a far data dal 15 dicembre 2013).

La giurisprudenza si è anche occupata delle ipotesi in cui la comunicazione ovvero la notificazione sia stata effettuata ad un indirizzo diverso da quello risultante dai pubblici elenchi, affermando che (Cass. n. 13224/2018) poichè la notificazione con modalità telematica, ai sensi della L. n. 53 del 1994, artt. 3 bis e 11 deve essere eseguita a pena di nullità presso l’indirizzo PEC risultante dai pubblici elenchi di cui al D.L. n. 179 del 2012, art. 16 ter conv. con modif. in L. n. 221 del 2012, quale domicilio digitale qualificato ai fini processuali ed idoneo a garantire l’organizzazione preordinata all’effettiva difesa, ne consegue che non è idonea a determinare la decorrenza del termine breve di cui all’art. 326 c.p.c.la notificazione della sentenza effettuata ad un indirizzo di PEC diverso da quello inserito nel Reginde e comunque non risultante dai pubblici elenchi, ancorchè indicato dal difensore nell’atto processuale (conf. Cass. n. 11574/2018; Cass. n. 30139/2017).

E con specifico riferimento alle comunicazioni, quale quella in esame, questa Corte ha recentemente precisato che (Cass. n. 20698/2018) i soggetti per i quali la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata (PEC), le notificazioni e comunicazioni devono essere eseguite, ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 6, conv., con modif., dalla L. n. 221 del 2012, esclusivamente mediante deposito in cancelleria quando non abbiano provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo (come nel caso di specie, per mancata comunicazione dell’indirizzo PEC al Consiglio dell’ordine di appartenenza), salva la sola ipotesi in cui non sia possibile procedere mediante PEC per causa non imputabile al destinatario medesimo, nel qual caso, ai sensi del comma 8 della citata norma, trova applicazione l’art. 136 c.p.c., comma 3. Ne consegue che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 136 c.p.c., comma 3 e del D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 8, in relazione agli artt. 3 e 111 Cost., nella parte in cui si prevede la comunicazione via fax o mediante ufficiale giudiziario solo per problemi della cancelleria nell’invio della comunicazione, non essendo il sistema configurato dalle citate disposizioni, imperniato sulla imputabilità o meno della causa al destinatario, impeditivo o gravemente limitativo del diritto di difesa.

Tornando al caso in esame, dalla certificazione della cancelleria, la quale non poteva avvalersi del diverso indirizzo di posta elettronica, pur indicato dall’appellante nell’intestazione del proprio atto difensivo, emerge che l’interrogazione dei pubblici elenchi ha dato esito negativo, in quanto l’avv. Oss non risultava essere telematico cioè iscritto nel Reginde, risultando quindi validamente effettuata la comunicazione dell’ordinanza, con il deposito in cancelleria, la quale ha quindi provveduto, pur senza esservi tenuta, ad effettuare anche l’ulteriore comunicazione a mezzo fax, la cui validità o meno non incide minimamente sulla conclusione per cui la comunicazione dell’ordinanza di inammissibilità si era comunque perfezionata con il deposito in cancelleria.

Le argomentazioni spese nel ricorso dalla difesa della ricorrente al fine di supportare la tesi della mancanza di una valida comunicazione non colgono nel segno, in quanto ci si limita a ricordare che nell’atto di appello era stato indicato un indirizzo pec, ma senza che sia stata fornita altresì la prova che tale indirizzo era quello inserito nei pubblici elenchi ai quali accedeva all’epoca la cancelleria, essendo altresì ininfluente che all’indirizzo indicato nell’appello siano pervenuti nella stessa giornata altri messaggi di posta elettronica (peraltro non costituenti comunicazioni di cancelleria effettuate nell’ambito del sistema del PCT), non rilevando ai fini che qui interessano il funzionamento o meno della casella pec in questione, ma interessando a monte la circostanza, che non risulta nemmeno allegata, che la stessa corrisponda all’indirizzo effettivamente inserito nei pubblici registri di cui all’art. 16 ter citato.

Ne consegue che la comunicazione dell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. risulta validamente effettuata al difensore della ricorrente in grado di appello in data 6 marzo 2014, con l’ulteriore conseguenza che il ricorso è tardivo, essendo stato notificato in data 27/6/2014, oltre il termine di sessanta giorni di cui all’art. 348 ter c.p.c., comma 3.

4. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, non ricorrendo in ogni caso i presupposti per la condanna della ricorrente per responsabilità processuale aggravata.

5. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile;

Condanna la ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 4.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis, stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2018

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